Vai al contenuto

libia

Tredicimilacinquecento

Tredicimilacinquecento morti durante le traversate dei mari che promettono una migrazione a buon fine. I numeri sono di Human Rights Watch.

Tredicimilacinquecento morti sono un genocidio senza padroni negli stessi mari che bagnano le coste dei nostri ferragosto. Dietro ai “flussi”, “respingimenti”, la legge “Bossi-Fini” e tutto il resto ci sono loro: sono due volte il paese in cui apriamo il teatro tutti i fine settimana. E sono un fallimento per tutti. Sicuro.

L’Italia boia del mediterraneo

Notizie del Corriere che passano in secondo piano nel cassetto delle futili fragilità.

L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (Apce) ha approvato con 108 voti favorevoli su 151 il rapporto con cui si chiamano in causa Italia, Spagna e Malta, oltre che la Nato, per la morte di 63 migranti avvenuta nel Mediterraneo nel marzo del 2011. Nel votare il dossier l’assemblea ha rifiutato la totalità degli emendamenti presentati dai rappresentanti del Ppe della delegazione italiana che miravano a eliminare la parte del testo in cui si asserisce che l’Italia come primo Paese ad aver ricevuto la chiamata di aiuto era da considerarsi responsabile per il coordinamento degli aiuti.

Secondo il blog Fortress Europe, che da anni monitora le morti nel Mediterraneo raccogliendo le storie dei sopravvissuti e dei famigliari delle vittime, «dal 1994 nel solo Canale di Sicilia sono morte almeno 6.226 persone, lungo le rotte che vanno da Libia, Tunisia e Egitto verso le isole di Lampedusa, Pantelleria, Malta e la costa sud orientale della Sicilia. Più della metà (4.790) sono disperse. Il 2011 è stato l’anno più brutto: tra morti e dispersi, sono scomparse nel Canale di Sicilia almeno 1.822 persone. Ovvero una media di 150 morti al mese, 5 al giorno: un’ecatombe. E senza tenere conto di tutti i naufragi fantasma, di cui non sapremo mai niente».

Gli idealisti cercano Gheddaffi, gli altri si spartiscono il bottino

Stati Uniti, Francia, Inghilterra e Italia a caccia di petrolio e investimenti nel Paese. Mentre si continua a combattere a Tripoli e in altre città e il rais sfugge ancora alla cattura, Mahmoud Jibril, del Consiglio Nazionale Transitorio, incontra Berlusconi a Milano e chiede di scongelare i 350 milioni di euro presi al colonnello per assicurare un futuro al suo Paese. Al Palazzo di vetro accordo su un miliardo e mezzo di dollari da destinare alla ricostruzione (Servizio video di Valeria Teodonio). In guerra, la verità è la prima vittima diceva Eschilo.

Abbiamo vinto! Abbiamo vinto!

La pretesa imminente «vittoria» della Nato in Libia permette per il momento all’Occidente di nascondere altri fallimenti e disastri provocati dagli interventi delle truppe occidentali fuori dai propri confini. In attesa di poter mettere le mani sulle risorse petrolifere della Libia e poter così ricompensare i costi della guerra, diventati tema di battaglia per quelle forze (leghiste) che si oppongono alla guerra per egoismo e non per pacifismo. (Giuliana Sgrena)

C’è una guerra in Libia

Ma se lo ricordano in pochi. Della guerra e poco si discute di come uscirne. Come se fosse impossibile riuscire a tenere tesa l’indignazione (umanitaria) per un tempo diverso dalla plastica dei temi “caldi” in tempi televisivi. Sono passati più di 100 giorni dall’inizio della strana guerra di Libia: che ci stiamo dimenticando o vogliamo rimuovere. Intanto, il colonnello Gheddafi minaccia ancora da Tripoli di colpire l’Europa «le vostre case, i vostri uffici e le vostre famiglie» se i raid della Nato non cesseranno. Dichiarazioni del genere aiutano se non altro a chiarire il contesto: il Rais, colpito da un mandato di arresto della Corte Penale Internazionale, abbandonato da parte dei suoi e indebolito dalle sanzioni economiche, è alla ricerca di una soluzione politica. Minaccia perché è debole non perché sia forte. Minaccia per trattare. Una pace credibile per la Libia di Marta Dassù.

L’umanità lasciata in mare

Ogni tanto mi rendo conto di perdermi nel piccolo. Nelle cose (o persone) insulse che pongono problemi che pesano meno di un capello e su cui si perdono giorni o settimane. Ogni tanto mi prende alla gola la paura di non essere all’altezza delle responsabilità Di chi mi legge, di chi mi segue, di chi mi vota e temo di ‘abituarmi’. Perché sulla vicenda libica leggiamo le dichiarazioni politiche e organizzative di presidenti (volutamente minuscoli) e consiglieri. Ogni tanto vede un filo di luce l’appello disperato di qualche organizzazione umanitaria. Eppure la vicenda libica, umana, è in storie come questa che ci chiedono di essere umanamente all’altezza: i passeggeri hanno aspettato due giorni. Poi, quando sono stati certi che le donne non respiravano più, hanno fatto scivolare i loro corpi in mare. Non ci sono stati rituali o preghiere di gruppo: ognuno ha invocato il suo dio in silenzio.