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Troppo Covid? Licenziato

Un dipendente di un supermercato nel lodigiano a febbraio si è ammalato e da allora ha avuto continue ricadute. Il 18 settembre riceve la lettera di licenziamento per aver superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto. Ma il decreto Cura Italia esclude i casi di Covid

Mentre si è scatenata la caccia dei furbi del reddito di cittadinanza, opera utilissima per sparare nel mucchio contro le povertà che in questo Paese continuano a essere viste come una colpa da condannare e mica un problema sociale da risolvere continuano a rimanere taciute le pratiche dei furbetti dell’imprenditoria italiana che in tempo di Covid continua ad approfittarne per fare ciò che non potrebbe fare, in nome dell’emergenza. Lucrare sulla pandemia è un atto di cui si continua a parlare poco, troppo poco.

Una storia arriva da Casalpusterlengo, nel lodigiano, proprio a pochi chilometri da Codogno, zona rossa da cui è cominciato tutto. Lui si chiama Fabrizio Franchini, ha 60 anni e da 33 anni lavora dietro al bancone dei freschi di un supermercato, uno di quelli che ci inonda di pubblicità che raccontano i clienti come una grande famiglia. Il 21 febbraio l’Italia piomba nell’incubo Covid e Fabrizio Franchini racconta che ancora pochi clienti usavano la mascherina e i guanti, eravamo nel periodo in cui mancava ancora la consapevolezza. Otto giorni dopo il paziente 1 Fabrizio si ammala: tosse, febbre dolori e poi la fatica a respirare.

Fabrizio chiama l’ambulanza, passano 24 ore, poi corre al Pronto Soccorso di Crema, si sottopone al tampone e infine il risultato: Covid. Inizia il percorso di molti malati: ospedale, poi isolamento a casa, tutto in attesa del tampone finalmente negativo. Arriviamo ad aprile: finalmente il tampone è negativo ma i malesseri continuano, ancora controlli, gli dicono di mettersi in contatto con il medico del lavoro. Intanto, proprio a causa del Covid, Fabrizio finisce ancora ricoverato in ospedale: miocardite acuta. Gli viene prolungata la malattia fino al 12 ottobre ma lo scorso 18 settembre gli arriva una lettera dal suo datore di lavoro: licenziato. A La Stampa dice: «Sono devastato. Questo è un incubo in cui ho trascinato la mia famiglia. Per altri sei anni devo pagare il mutuo. Mia moglie lavora in una mensa scolastica e speriamo che non chiudano anche quella». L’azienda dice che Fabrizio abbia superato i 180 giorni di malattia permessi da contratto: che probabilmente si sia ammalato proprio sul luogo di lavoro e che il decreto Cura Italia dica chiaramente che il Covid non possa essere conteggiato nel periodo di comporto sembra non interessare.

C’è un altro aspetto interessante nella vicenda: da tempo il datore di lavoro “spingeva” Fabrizio a una pensione anticipata perché il suo era un contratto “pesante”. Lui aveva sempre rifiutato. Il Covid c’è riuscito. E la sua è solo una delle tante storie dei furbetti che hanno lucrato su licenziamenti, su cassa integrazione e sulla pandemia come occasione per snellire con poco rispetto dei diritti. Eppure è un tema enorme, qualcosa che meriterebbe anche una certa attenzione da certa politica. Oppure viene troppo comodo, come sempre, prendersela con i furbetti da pochi spicci. È più comodo, funziona.

Buon mercoledì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

A Lodi la mafia non esiste (ennesima puntata)

Giornata della legalità, il procuratore di Lodi Vincenzo Russo non ha avuto esitazioni nel confermare la presenza della mafia e della ‘ndrangheta nel Lodigiano: «Anche nel nostro territorio, ad un imprenditore, è stata recapitata una testa di maiale tagliata con in bocca un proiettile, dunque una minaccia chiara della cosca». «Quello che può fare ciascuno di noi per combattere la ‘ndrangheta è rispettare le regole che è chiamato a rispettare» ha esortato il sostituto procuratore di Reggio Calabria Alessandra Cerreti.

Ma questa volta ne parlano i procuratori. Ed è una buona notizia.

Cavalli: «Mafia, i lodigiani si sveglino»

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Cavalli: «Mafia, i lodigiani si sveglino»
(29 settembre 2013 da ILCITTADINO)

Ha voluto togliersi qualche sassolino dalla scarpa Giulio Cavalli, l’attore, regista, scrittore e politico impegnato contro la criminalità organizzata, in occasione dell’incontro al Circolo Arci 1°Maggio di Lodi Vecchio, venerdì sera per la presentazione del libro «L’innocenza di Giulio» (edito da Chiarelettere) in cui Cavalli tira le fila del processo Andreotti. Sulla scia del blitz contro la mafia che ha portato ad arresti e denunce anche nel Lodigiano, lo scrittore ha fatto tra l’altro nomi e cognomi di indagati del territorio, ha raccontato numerosi episodi che sono indiscutibilmente sintomo di come il Lodigiano sia un territorio inquinato dalla criminalità organizzata (basti pensare alle vicende legate a “Italia 90”). «Qualcuno mi dovrà delle scuse, dicevano che a Lodi non esisteva la mafia, che io ero un visionario. Oggi sono qui mentre due collaboratori di giustizia, di cui uno è Luigi Bonaventura (ospitato il 5 maggio scorso all’Arci di Lodi Vecchio per raccontare le sua storia, n.d.r.) stanno raccontando al magistrato il piano che avrebbe dovuto uccidermi. Il problema è di avere intorno una città che si accorge di quello che succede e prova a chiedere spiegazioni, occorre fare un patto sociale: chi non vede la mafia non è in grado di gestire il nostro territorio, oppure è un colluso». Cavalli cita molti esempi: «Ricordo con molto fastidio Lodi che accoglie un imprenditore che si compra numerosi bar del centro, e non si capisce come abbia costruito una ricchezza così velocemente. Arricchirsi non è reato, ma un po’ di attenzione e sensibilità degli atteggiamenti istituzionali nei confronti di figure che non appaiono limpide è obbligatorio». Cavalli ha poi lanciato un appello a istituzioni e cittadini: «L’impegno è prendere una posizione chiara contro le infiltrazioni mafiose. Occorre non essere indifferenti, sapendo che decidere di scendere in battaglia non significa riconoscere di essere un territorio inquinato, ma dichiarare da che parte stare». Cavalli ha anche chiesto che gli amministratori pubblici rispettino il confine «tra mediazione e compromesso».

Sonia Battaglia

Domani torno a Cosa Nostra

Domani sera sarò all’Arci di Lodivecchio, alle ore 21, in via Giosuè Carducci. Nel lodigiano, insomma: a casa mia. Mi ero ripromesso di non fare più nulla per due motivi: perché nel lodigiano troppe cose devono ancora essere spiegate (e indagate) su ciò che mi è successo e come è stato gestito e perché nonostante la mia ostinazione non amo vivere un territorio che mi ha ferito e con cui fatico a fare pace.

Domani però torno con alcune novità: torno con un’indagine aperta sulle convergenti versioni di due diversi collaboratori di giustizia (avete letto bene: almeno due) su di me e la mia eliminazione. E questa certo non è una grande notizia ma è l’inizio di molte cose, sicuro. E poi torno con arresti eccellenti e molto lodigiani: i nomi che escono dall’ordinanza (ovviamente sono ipotesi, eh, non do la soddisfazione di farmi anche querelare oltre che minacciare) sono molto più lodigiani di quello che “timidamente” è stato scritto. Sono a Lodivecchio, a Tavazzano e sono anche i proprietari a Lodi di un’edicola proprio in Piazza e ex proprietari di una nota pasticceria di Corso Roma nonché di un panificio pasticceria (vi ricordate quando dicevo che l’omicidio del carabiniere Sali era avvenuto in un quartiere “ricco” di criminalità organizzata e tutti si erano straniti? Beh, è proprio lì a 100 passi, per dire). Insomma è vero che il giudizio di un GIP è solo l’inizio di un iter giudiziario che deve decidere colpevoli o no ma l’inopportunità di certi atteggiamenti è un fatto che può anche essere giudicato moralmente e i fratelli Catanzaro (che compaiono nell’ordinanza) hanno un modus operandi che dovrebbe aprire domande. Subito. Urgentemente. E senza paura.

Si legge nell’ordinanza (a pagina 521) e in un bell’articolo di Cesare Giuzzi sul Corriere della Sera che:

Vale la pena di prernettere un breve excursus cronologico in ordine alia presenza sui territorio lodigiano dei fratelli CATANZARO
I fratelli CATANZARO Stefano ed Ignazio giungono al Nord provenienti da Palermo tra !a fine degli anni ’70 e i primi anni ’80 in stato “dichiarato” di poverta, tanto da usufruire dei sussidi comunali.

lnizialmente avviano un panificio, poi un bar nella centrale via Roma di Lodi ed infine, dopo aver ceduto tutte le attivita commerciali, si dedicano in via esclusiva aile costruzioni edili, per poi tornare ad occuparsi di attivita commerciali, mantenendo attivi entrambi i settori.
Nel1985, Catanzaro Stefano, in concorso con altre persone di origine palermitana viene arrestato per rapina nei confronti di un gioielliere di Lodi. Qualche anno prima era stato denunciato per un furto in un cantiere.

Evidentemente, dopo tali condotte penalmente rilevanti, sfociate in denunce per reati contro il patrimonio. Stefano CATANZARO inizia Ia ascesa economica operando ininterrottamente per un lungo periodo nel settore della edilizia ,fino ad assumere una posizione di spicco nella zona di Lodi e di Massalengo, luogo nel quale le irnprese edilizie individuali di Stefano ed lgnazio CATANZARO hanno costruito diverse unita abitative , co!tivando i rapporti con le banche del luogo.

Ad oggi sono tutti in attesa di giudizio, certo. Ma i dettagli intanto pongono dubbi, domande. Non spetta a noi dare risposte, ma ci spetta coltivare e custodire le domande. Almeno questo.

L’evento su facebook è qui.

Nel lodigiano il postino spara sempre tre volte

A Sant’Angelo Lodigiano nel difficile quartiere ‘Pilota’ tre spari nella notte in una palazzina in via Enrico Fermi. E diranno che è tutto tranne quello che pensano gli allarmisti. Peccato che lì dentro ci abitasse la parentela di Francesco Perspicace: nato a Caltagirone una cinquantina di anni fa ma esportato a Sant’Angelo Lodigiano da un bel pezzo con un’impresa di pulizie, una quota in “iniziative immobiliari” e una fedina penale di 16 anni di condanna per una sparatoria in via Faenza il 9 maggio 1998. Un’altra agenzia, la Ad Case, vede tra i soci Ferdinando Perspicace di Caltagirone e per non farsi mancare niente anche, in passato, Arturo Molluso, dell’ omonima famiglia originaria di Oppido Mamertina, in provincia di Reggio Calabria. Hanno messo le radici a San Donato i Molluso e sono considerati legati ai clan Cappelli-Pipicella e vicini ai Calaiò. Uno di loro, Pasquale Molluso, è socio della Gra immobiliare. Il trentaquattrenne Arturo, residente a Spino d’ Adda, è presente anche in altre agenzie, come la Mocasa, sede a Milano in via Riva di Trento. Nella stessa palazzina c’è anche un tale che (nonostante il cognome da Commissario Montalbano) era l’abituale a braccetto di Claudio Demma sfortunato patron di ITALIA 90 ultimamente caduto in disgrazia. Chissà, a pensare male, diceva Andreotti, ogni tanto ci si azzecca.

Il povero lodigiano Daccò e la sua banca (impopolare)

«La consultazione dell´Anagrafe tributaria ha evidenziato che Daccò, dal 2001, non ha mai dichiarato redditi imponibili in Italia né all’estero». E risiede a Londra dove i cittadini “non dom”, cioè i non residenti, non pagano le tasse. La figura dell´imprenditore Pierangelo Daccò emerge dalle carte dell´indagine milanese sull´ospedale San Raffaele. A lui viene contestato il reato di concorso in bancarotta, per aver distratto attraverso presunte false consulenze circa 3,5 milioni di euro. Una delle ipotesi degli inquirenti è che fosse un collettore di denaro, soprattutto contante, da girare ad alcuni referenti politici. Il suo nome è stato spesso accostato a quello del governatore della Regione Lombardia, Roberto Formigoni, non fosse altro che per la loro amicizia che, come ha confermato ieri lo stesso Formigoni in una intervista a la Repubblica, dura da vent´anni. Tra le banche preferite, per ragioni anagrafiche, vi è proprio la Popolare di Lodi (il nome di Erika Daccò è stato trovato nelle agende di Gianpiero Fiorani), ma la più importante è la Unicredit (80 rapporti). L´immobiliarista della famiglia è la moglie con 14 appartamenti in quel di Lodi e due case a Bordighera. Ma gli inquirenti sono pronti a scommettere che attraverso fiduciarie possieda il Residence Baia delle Ginestre a Teulada, alcune case ad Arzachena e una villa a Bonassola. Più una barca (e forse altre due), il Mi Amor, sul quale è stato fotografato con Formigoni. Su Repubblica la vergognosa storia di un’Italia e una Lombardia (e un lodigiano) che offende l’intelligenza, oltre che infrangere le regole.

Intanto Lodi brucia

Non bastavano i roghi nel campo del ciclo dei rifiuti (se ne sta occupando la DDA di Milano) adesso bruciano le auto sottoposte a sequestro. Tutto bene, al solito. C’è l’ombra del dolo dietro il rogo che all’alba di sabato ha distrutto sei automezzi nel cortile dell’autofficina Baggi in via Selvagraca a Lodi. I vigili del fuoco non hanno trovato traccia di un particolare innesco ma sembra che il focolaio sia stato unico. Carbonizzate utilitarie, berline e un furgone; alcune vetture erano sotto sequestro da parte dell’autorità giudiziaria. Il rogo, che i vigili del fuoco hanno spento dopo due ore di lavoro, ha provocato danni per decine di migliaia di euro.