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omicidio

Domenico Leotta arrestato.

20130202_leotta-arrestoDomenico Leotta è accusato della strage di Pegli dalla pentita Giuseppina Pesce, nipote del boss Giuseppe Pesce. La donna si è pentita per «amore dei figli» dopo essere stata arrestata nell’operazione All Inside, nell’aprile 2010. Sei mesi dopo Giuseppina Pesce ha deciso di collaborare con i magistrati della dda di Reggio Calabria, raccontando la storia e le attività criminali del suo clan. Tra i ricordi della Pesce anche il triplice omicidio di Maria Teresa Gallucci, 37 anni, di sua madre Nicolina Celano, 72 e della cugina Marilena Bracalia, 22. La pentita ha fornito agli inquirenti tutti i retroscena di quel massacro e ha indicato proprio in Domenico Leotta il killer che, partito da Rosarno, raggiunse Pegli per compiere la missione di morte. Il motivo della strage sarebbe stato il riequilibrio mafioso nella zona, ma ci sarebbero stati anche motivi legati all’onore per presunti legami extraconiugali di una delle donne. Subito dopo la strage fu arrestato in Calabria Francesco Alviano, un ragazzo di 20 anni, figlio di Maria Teresa Gallucci. Il giovane fu accusato da un pentito di ‘ndrangheta, Francesco Facchinetti. I magistrati contestarono ad Alviano i tre omicidi commessi per lavare col sangue la relazione di sua madre Maria Teresa Gallucci, vedova da quindici anni, con Francesco Arcuri, proprietario di una boutique nel centro di Rosarno. A novembre del 1993, un anno prima della strage di Pegli, l’uomo fu ucciso all’interno del suo negozio con nove colpi al basso ventre. Maria Teresa si aspettava forse che lo stesso killer raggiungesse anche lei e quindi scappò da Rosarno per rifugiarsi a Pegli dalla madre. Dopo tre notti d’isolamento Francesco Alviano fu scagionato. Di quel triplice delitto non si seppe più nulla sino a quando Giuseppina Pesce non aprì la mente ai ricordi indicando in Domenico Leotta l’autore della strage. Con lui – secondo le dichiarazioni della pentita – avrebbe agito Francesco Di Marte, altro esponente del clan di Rosarno.

Oggi Domenico Leotta è stato arrestato concludendo così la sua fastidiosa latitanza. Fastidiosa non solo per la giustizia ma per il pudore. E’ una buona notizia, una mezza buona notizia, di quelle buone notizie che sarebbe meglio che non fossero state possibili eliminandone le cause piuttosto che gli effetti. Ma è una dolce sera per la memoria e l’impegno.

E i latitanti, in Italia, si arrestano anche con il Governo vacante, per dire.

Cosa c’entra Lea Garofalo con la lista di La Russa in Lombardia

lea-garofalo-carlo-coscoTra i candidati per le regionali in Lombardia della lista “Fratelli d’Italia” (quella della Meloni e di Crosetto, del PDL etico, per intendersi) c’è Maira Cacucci.

Maira era l’avvocato dei Cosco nel processo per l’omicidio di Lea Garofalo. Maira è quella che in Aula disse:

“Una (possibilità) potrebbe essere quella della partenza di Lea Garofalo. D’altro canto, aveva manifestato più volte l’intenzione di andarsene. Ma è una teoria che non ha alcun supporto. Sullo stesso piano, invece, sono la tesi del pm, che accusa i sei imputati, e la possibilità che Lea Garofalo sia stata sì uccisa ma da altri, magari da quel fratello che era capace di tutto e dal quale lei si sentiva vessata. Entrambe queste tesi sono suffragate solo da indizi, non c’è alcuna prova”. Un accenno anche alla Costituzione: “In quel testo così importante per la nostra società si sancisce la non colpevolezza di un individuo fino a che si arriva oltre ogni ragionevole dubbio”.

Carlo Cosco è quel simpatico omicida che in Aula mi salutò così. il corpo di Lea è stato ritrovato non molto tempo fa. I Cosco sono stati condannati.

Per le figlie di Giovanni

Chi era Giovanni Sali lo potete rileggere qui. E la sottoscrizione vale proprio la pena di essere rilanciata:

La sottoscrizione per due borse di studio o due borse lavoro, lanciate per le figlie di Giovanni Sali, il carabiniere di Cavenago d’Adda barbaramente trucidato la sera del 3 novembre scorso: la volontà di lanciare una sottoscrizione pubblica è stata resa pubblica dall’Associazione Industriali del Lodigiano e ha trovato un aperto sostegno da parte del nostro giornale. Sono invitati a partecipare alla raccolta i privati cittadini, le imprese, gli enti, le istituzioni e tutti coloro che volessero farsene partecipi. Gli estremi della banca sulla quale far transitare i contributi volontari sono i seguenti:

IBAN IT87R0503520300325570525925

Veneto Banca scpa Filiale di Lodi via Volturno 41 26900 Lodi.

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Una precisazione

Tanto per capirsi. Leggo che avrei messo in collegamento la morte di Giovanni Sali con “calabresi nel quartiere”. Falso. Una bufala che nasce da un copia e incolla di discorsi molto diversi. E mi spiace, perché le ipotesi si costruiscono con le indagini e non con le interviste e opinioni scritte un po’ maldestramente.

Smentisco caterogicamente.

Se un tuo custode muore di passaggio

Faccio una premessa. Secca: tutto questo essere prosaici su scorte e scortati mi ha sempre provocato la pelle d’oca. Più  che altro perché l’umanità delle scorte è sempre sporca e sconcertante: non ha poesia, non ha eroismi ma è sudore, rabbia, grattarsi, sopportarsi poco e male per tutto il tempo costretti a passare insieme e l’abitudine alla paura che diventa un vestito che stringe sul cavallo e sembra uno di quei vestiti da cerimonia che odi appena indossi.

Insomma forse questo articolo sarebbe meglio non scriverlo nemmeno e andare tutti a dormire con un dolore a cui avremmo dovuto fare l’abitudine in tutta questa mareggiata di tristezze di rimbalzo.

Potrei anche scrivere che Giovanni era un eroe o un amico del cuore. Oggi che è rimasto ucciso amazzato per terra a Lodi sarebbe un trofeo da cacciatori di sensazioni.

Semplicemente, e tragicamente banale, sarebbe da dire che oggi è rimasto morto ammazzato un uomo che ha passato qualche mezza giornata a tenere gli occhi aperti per passeggiare con gli occhi bassi io, i miei figli, e tutti queli che ci dovevano costruire una passeggiata. Giovanni Sali ha prestato servizio per la mia tutela come fanno quotidianamente in molti di Lodi e provincia. Gente che non ama i flash, che non sta lì a pensare alle posture buone per i giornali ma che pensa semplicemente di tornare a casa anche questa sera e la prossima.

Gente che mi vede grattarmi, incazzarmi, ridere, piangere, amare, disperare, avere fame, sete, sonno o avere il dubbio di cosa avere. Gente che convive nel senso che vive “con”. Persone con una dignità che fissa i paletti della professione e si mette la vita e le proprie nevrosi in tasca per provare a gestire e difendere le mie. Gente che cambia posizione tra pubblico o privato, che studia gli spigoli degli spazi, che interroga le facce, che si impegna a sparire appena un dolore o una gioia ha uno angolo appuntito e diventa quindi “personale2 eppure “in servizio”. Carabinieri che sono gli argini di una quotidianità in sicurezza. Niente di poetico, per carità: uomini che in punta di piedi sono le tue sentinelle, in punta di piedi, sulla propria pistola.

La morte di Giovanni è un infarto di questo ecosistema di conviventi che mi difendono per difendersi e rimangono silenziosi ai margini per avere la misura dei confini.

E importa poco che sia lui. Siamo noi. Un pezzo di quello stagno malato che ci portiamo in giro fingendoci sani.

E mancherà. Giovanni. A tutti.

 

Il diavolo e un angelo sul marciapiede di Milano

La politica della paura negli scorsi anni voleva militalizzare le periferie, se l’era presa con i negozi di kebab o di money transfert, aveva messo il coprifuoco proprio dove abito io. Perché, si sa, è lì che alligna il male. Ora ha già cambiato idea. Alza il tiro, con quella grevità becera che non aiuta a leggere il territorio. Paragona Milano a Scampia, comparazione indegna che non spiega né risolve nulla. Perché l’omicidio di lunedì scorso ci dice ben altro.

Quello che abbiamo scoperto è che nessuno è davvero al riparo. Si può morire a qualunque ora del giorno, dappertutto. Si può morire nel centro di una metropoli, quale è Milano, o, come è accaduto in Alta Savoia, sulle amene rive di un lago alpino. Il Diavolo abita ovunque. Anche qui. Esco dal bar. A pochi metri dal luogo del delitto una libreria espone un’intera vetrina di gialli scandinavi. Fettucce di plastica gialla, quelle che delimitano le scene dei delitti, ornano la vetrina con involontario pessimo gusto. Fanno tenerezza questi omicidi di carta, concilianti, indolori, consolatori, completamente avulsi dal mondo vero che fingono di raccontare. Pochi passi più in là, al numero 3 di via Muratori, il sangue è stato lavato, restano a terra pallidi cerchi fatti col gesso dalla scientifica. “Chi è stato?” mi viene chiesto. Non lo so, insisto. Scerbanenco comunque non avrebbe dubbi: i milanesi ammazzano al sabato. Ieri era lunedì, è sicuramente gente che viene da fuori. Poi lo vedo. Un fiore, legato con un nastro sull’archetto metallico. Un piccolo anonimo gesto di pietà, per le vittime e per la bambina sopravissuta, vittima anch’essa. Quello che cercavo (dove c’è il Diavolo c’è sempre un Angelo): il segno che Milano, anche se di corsa, non sa essere indifferente. Mai. (Gianni Biondillo su Nazione Indiana)

Due parole a De Corato

Sull’emergenza criminalità che ogni volta accende le speculazioni politiche non ho potuto esimermi dal rispondere alle bassezze intellettuali di De Corato e la sua banda. Qui il video:

‘Ndrangheta in Lombardia: operazione “Ulisse”. Facciamo il punto.

L’omertà

Il dato sconfortante che emerge dallo sviluppo delle inchieste Infinito e Crimine, e che ha portato oggi all’esecuzione di 37 ordinanze di custodia cautelare volte a smantellare le cosche di ‘ndrangheta radicate tra Milano e Monza, è sempre lo stesso: l’omertà degli imprenditori vittime di estorsione e usura. Piuttosto a dare un contributo fondamentale alle indagini, da quanto trapela da ambienti investigativi, è arrivato da un nuovo pentito. Si tratta di Michael Panaija, 37enne arrestato l’11 aprile 2011 perché ritenuto uno dei responsabili dell’omicidio di Carmelo Novella, il capo della “Provincia” lombarda (l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta in Lombardia) ucciso il 14 luglio 2008 a San Vittore Olona perché voleva la scissione dalle cosche calabresi. A farne il nome come uno dei presunti esecutori era stato il collaboratore di giustizia Antonino Belnome. Era stato lui a snocciolare il suo e i nomi di altre 18 persone arrestate nel 2011 perché avrebbero avuto un ruolo – come mandanti, come esecutori, come fiancheggiatori, o come basisti – nell’omicidio Novella e in altri tre omicidi commessi nell’ambito delle guerre interne alla ‘ndrangheta per il predominio sul territorio e come ritorsione per i fatti di sangue. Si tratta dell’omicidio di Rocco Cristello, avvenuto il 27 marzo 2008 a Verano Brianza; di quello di Antonio Tedesco, ucciso il 27 aprile 2009 a Bregano, il cui corpo è stato trovato mummificato sotto due metri di calce e terra in un maneggio (è stato riconosciuto da una catena d’oro) ; e di quello di Rocco Stagno, fratello del più potente Antonio Stagno, avvenuto il 29 marzo 2010 in un cascinale a Bernate Ticino, il cui cadavere invece non è ancora stato trovato. Ora Panaija risulta aver svelato dettagli sulla reazione delle cosche lombarde dopo il maxi blitz che a Milano, nel luglio 2010, aveva portato all’arresto di oltre 170 persone, 110 delle quali già condannate con rito abbreviato. Le cosche di Giussano e Seregno avrebbero proseguito sia i traffici di droga, sia le estorsioni e lo strozzinaggio di piccoli imprenditori locali, soprattutto di origine calabrese. Oggi in manette sono finiti Ulisse Panetta, il presunto boss proprio della locale di Giussano, e alcuni appartenenti alle famiglie Cristello e Corigliano. L’inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Cecilia Vassena. Le ordinanze sono firmate dal gip Andrea Ghinetti.

Le estorsioni e i nomi

Le accuse per i 37 indagati arrestati stamani dai carabinieri del Ros a Milano e provincia sono di associazione mafiosa, porto e detenzione illegale di armi (Kalashnikov, mitragliette Uzi, bombe a mano), usura ed estorsione, aggravati dalle finalita’ mafiose. I provvedimenti di custodia cautelare scaturiscono da diversi filoni investigativi avviati dal Ros a seguito dell’indagine ‘Crimine’ che ha portato nell’aprile 2011 all’arresto di 11 affiliati alle ‘ndrine di Seregno e Giussano. Tra questi c’erano anche gli autori dell’omicidio di Rocco Cristello, Carmelo Novella, Antonio Tedesco e Rocco Stagno, tutti commessi in Lombardia tra il 2008 e il 2010 nell’ambito delle faide tra le cosche Gallace e Novella di Guardavalle (Catanzaro). Le indagini hanno svelato le attivita’ delle cosche al Nord: traffico di droga, usura ed estorsioni. Numerosi gli episodi di questo tipo raccolti dai militari. A partire dal 2007, quando le vittime dell’estorsione furono i titolari della concessionaria di auto ‘Selagip 2000′ di Giussano, a cui venne chiesto il pagamento di 500mila euro dopo minacce, telefonate minatorie, attentati incendiari, e l’esplosione di colpi di pistola contro le vetrine. E’ del 2010, invece, quella nei confronti di Domenicantonio Fratea, imprenditore nel settore immobiliare e titolare di una bar a Giussano. A lui vennero chiesti 80mila euro con la medesima modalita’ intimidatoria. La lista prosegue con Roberto Gioffre’, titolare di una sala giochi che alla fine del 2010 fu costretto a rinunciare a un credito di 70mila euro, che vantava nei confronti di alcuni affiliati, dopo numerose minacce. Infine, Stefano Sironi, imprenditore edile di Giussano, costretto a riconoscere interessi esorbitanti sulle somme prestate dalla cosca.

Il ruolo di Ulisse Panetta a Giussano

Dall’agosto 2010, in seguito al maxi blitz delle operazioni Infinito e Crimine che il mese prima avevano portato all’arresto di circa 300 persone in Lombardia e in Calabria, è Ulisse Panetta ad assumere il comando dell’associazione mafiosa facente capo alla locale di Giussano in qualità di vice di Michael Panaija, arrestato l’11 aprile 2011. Lo scrive il gip Andrea Ghinetti nell’ordinanza di arresto che oggi ha colpito lo stesso Panetta e altre 36 persone. Dall’agosto 2010, si riassume nel capo di imputazione, Panetta fa carriera. Già “in possesso della dote del vangelo, dapprima ‘contabile’ e ‘mastro di giornata’, quindi, dopo l’arresto di Belnome, ‘capo società’, diventa il “capo e organizzatore” della locale di Giussano. Di conseguenza, “sovrintende alla gestione dell’armamento in dotazione della locale, comprensivo di armi corte, lunghe, esplosivo e munizionamento, parte del quale è stato a lui sequestrato nel febbraio 2012, alla scelta del luogo di occultamento ed alla individuazione delle persone deputate di volta in volta a servirsene. Mantiene i contatti con gli esponenti delle famiglie di riferimento in Calabria, mandando e ricevendo ‘ambasciate’. Provvede a mantenere i contatti con le famiglie degli arrestati della locale sia a seguito degli arresti del luglio 2010, sia di quelli dell’aprile 2011. Partecipa ai summit sopra indicati nel corso dei quali vengono conferiti a lui stesso e ad altri doti e cariche. Partecipa alla pianificazione delle attività criminali della locale percependone anche parte dei proventi”. Antonino Belnome è il pentito che per primo ha fatto luce sull’omicidio di Carmelo Novella, ex capo della “Lombardia”, l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta nella regione.

Il bunker

Una botola nascosta nel pavimento della cucina, con un perfetto meccanismo di apertura telecomandata. Un bunker in piena regola per scappare ai blitz della forze dell’ordine, identico a quelli di ‘ndranghetisti latitanti dell’Aspromonte. La novita’ e’ che il nascondiglio si trovava nel profondo Nord, a Giussano, piccolo comune della Brianza. Per la precisione in via Boito 23, dove il boss Antonio Stagno, di 44 anni, originario di Giussano e attualmente detenuto nel carcere di Opera per altri motivi, aveva la sua residenza. Si tratta di un vero e proprio bunker con una parete mobile che si aziona con un telecomando – ha spiegato il pm della Dda di Milano, Alessandra Dolci – come quelli che siamo soliti trovare in realta’ come San Luca o Plati’. Per gli investigatori e’ un dato molto importante perche’ dimostra l’ulteriore passo in avanti della ‘ndrangheta al Nord, ormai cosi’ a proprio agio da esportare tecniche ritenute esclusiva delle zone d’origine. Il procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, Ilda Boccassini, ha aggiunto che questo e’ momento di cambiamento per le ‘ndrine, con i giovani che stanno prendendo il posto degli ”anziani”. Nonostante cio’, pero’, resistono le tradizioni come quella dei bunker, di cui i calabresi sono considerati esperti costruttori.

Le minacce: i coltelli al ristorante

Rocco mi punto’ contro anche un coltello, il coltello da tavola del ristorante”. Cosi’ una delle ‘vittime’ delle estorsioni messe in atto dalle cosche della ‘ndrangheta di Giussano e Seregno, in Brianza, smantellate oggi con l’operazione ‘Ulisse’ condotta dai carabinieri del Ros, ha raccontato agli inquirenti della Dda di Milano l’ ‘umiliazione’ che subi’ quando nella sala di un locale venne preso anche a ”pugni e schiaffi al volto da parte di quasi tutti i commensali”, tra cui il presunto boss del clan di Seregno, Rocco Cristello, uno dei 37 arrestati. Nelle oltre 230 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, viene riportato anche il ‘capitolo’ della ”estorsione nei confronti di Gioffre’ Roberto”, ovvero le ”modalita’ estorsive attraverso le quali i due maggiori esponenti della locale di Seregno, ovvero Cristello Rocco e Formica Claudio (rispettivamente capo locale e capo societa’) si ‘appropriarono’ del locale chiamato ‘Casino’ Royale’ di Paina di Giussano, piu’ volte emerso nell’indagine ‘Infinito’ come luogo abituale di appuntamento degli affiliati”. La ‘vittima’ dell’estorsione, l’imprenditore Roberto Gioffre’, ha spiegato nella sua denuncia e nelle sommarie informazioni ai pm di aver dovuto incontrare nel 2009 in un ristorante di Seregno i presunti boss per cercare di ‘resistere’ alle vessazioni. ”Gioffre’ – scrive il gip Andrea Ghinetti – si reco’ all’appuntamento accompagnato dal fratello Francesco, consigliere comunale a Seregno”.

Appena entrati nel locale, Gioffre’ venne aggredito da Rocco Cristello che gli grido’: ”tu sei un pezzo di m…”. L’imprenditore disse agli uomini del clan che non avrebbe consegnato i ”50 mila euro” richiesti e per tutta risposta venne preso a ”pugni e schiaffi” al tavolo del ristorante. Poi il coltello puntato contro che fece reagire il fratello di Gioffre’, consigliere comunale. Cristello Rocco a quel punto, ha raccontato Gioffre’, ”lancio’ un’occhiata eloquente a mio fratello dicendogli ‘Franco, fatti i cazzi tuoi’, frase che fece desistere mio fratello”. L’importo totale ”di denaro” estorto a Gioffre’, sintetizza il gip, ”ammonta a 70 mila euro”. E’ questo l’unico dei 4 episodi di usura ed estorsione riportati nell’ordinanza nel quale la ‘vittima’ ha denunciato le vessazioni subite dai clan della ‘ndrangheta. Negli altri casi, invece, come si legge nell’ordinanza, gli imprenditori si limitavano al massimo a pronunciare al telefono, intercettati, frasi come ”mi hanno condannato a morte mi hanno detto (…) sono un morto che cammina”. Uno dei pentiti ‘chiave’ delle indagini di ‘ndrangheta degli ultimi mesi in Lombardia, Antonino Belnome, ha spiegato a verbale ai pm della Dda di Milano che ”la scelta delle persone da sottoporre ad estorsione nel territorio lombardo ricadeva quasi sempre (…) su imprenditori di origine calabrese in quanto maggiormente inclini per mentalita’ a sottostare alle richieste estorsive senza coinvolgere le forze dell’ordine”. Non solo, spiega ancora il gip riportando le parole di Belnome, ”le vittime, di solito e per risalente consuetudine, si rivolgono ad esponenti della criminalita’ organizzata del paese d’origine perche’ svolgano un ruolo di mediazione (e non gratis, ovviamente)”.

Il politico che nega

Francesco Gioffre’, consigliere comunale di Seregno (Milano), con un atteggiamento ”vicino alla connivenza”, tento’ ”di minimizzare” con le sue dichiarazioni agli inquirenti le minacce subite dal fratello Roberto, vittima di estorsione da parte della cosca della ‘ndrangheta dei Cristello. Lo scrive il gip di Milano, Andrea Ghinetti, nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 37 persone, eseguita oggi da carabinieri del Ros e del comando provinciale. ”Un discorso a parte – scrive il gip – meritano le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, opaco fratello della vittima ed unica ‘voce fuori dal coro’ il quale, sentito a s. i.t. (sommarie informazioni testimoniali, ndr) il 26 aprile 2011, pur ammettendo di conoscere i fratelli Rocco e Francesco Cristello (che sostiene di avere aiutato per una pratica presso il comune nel quale egli stesso e’ consigliere comunale), ha tentato in ogni modo di minimizzare la portata dei fatti giungendo quasi a prendere le difese dei Cristello, sino al punto di dirsi estremamente stupito nell’apprendere la notizia del loro arresto del luglio del 2010”, nell’ambito del maxi-blitz ‘Infinito’. ”E’ di tutta evidenza – si legge ancora nell’ordinanza – alla luce delle risultanze investigative sopra esposte, che le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, nella parte in cui contrastano con quelle del fratello Roberto, non possono ritenersi credibili ma debbono al contrario essere inquadrate nel medesimo clima di intimidazione del quale e’ stato vittima anche Roberto Gioffre’, che ha evidentemente portato i due fratelli a reagire in modo diametralmente opposto”. Mentre uno dei due fratelli Roberto ”ha scelto di denunciare i fatti con rischio personale che lo ha portato a temere talmente tanto per se’ e per i suoi familiari da decidere di lasciare il Paese per trasferirsi all’estero, il politico locale Gioffre’ Francesco ha fatto una scelta diversa, vicino alla connivenza, piu’ in linea con quella gia’ riscontrata in altri casi oggetto della presente misura cautelare”

 

Loro abitano qui

La notizia così nuda e cruda sembra la solita notizia da omicidio. Nemmeno troppo interessante visto che la vittima è albanese e i morti ammazzati se sono albanesi sono meno interessanti, si sa. Poi il luogo dell’omicidio è Casorate Primo, in provincia di Pavia, e capite che il nome non aiuta per aprirci una mitologia.

Però Sali Kutelli (si chiama così l’albanese morto ammazzato) è stato ucciso a colpi di pistola, quella sera del 14 gennaio, mentre camminava nella via principale del paese. Ha cominciato a correre. Correva lui e quelli dietro con la pistola che l’hanno ammazzato come si ammazzano i cani per strada appena scende la sera sull’attenzione, la paura e nel cielo. E un morto ammazzato nella via del centro non è proprio un morto ammazzato da finire nel cassonetto delle storie di cui non occuparsi, forse.

Poi mettici che i due che lo rincorrevano oggi hanno un nome:  Giuseppe Trimboli, 28 anni, e Alessandro Notarangelo, 39 anni, residenti a Casorate Primo. Anche loro. Omicidio in casa loro. Come i cani che pisciano per tenersi il territorio. Le indagini condotte dai carabinieri di Pavia, e coordinate dal sostituto procuratore Paolo Mazza e dal procuratore capo Gustavo Cioppa dicono che si tratta di problemi di droga: gestione dello spaccio nelle zone di Pavia e Milano. E l’albanese con la droga qui in Lombardia quasi te lo aspetti. C’è gente che ci ha costruito una carriera politica, anche.

Eppure Giuseppe Trimboli è proprio della famiglia Trimboli che spicca tra le famiglie che contano in questioni di ‘ndrangheta. La famiglia di Rocco Trimboli, “un irrinunciabile punto di riferimento per le collegate ‘ndrine piemontesi e lombarde”, dicono le carte che hanno portato al suo arresto.

E così albanesi, mafia e droga si mescolano e (finalmente) rendono tutto più difficile per chi si ostina a volere dividere i crimini e i criminali per ostentare controllo e infondere sicurezza. Anche perché la cocaina che vendeva Kutelli (c’è da scommetterci) era per lombardi lombardissimi. E così ci entrano anche gli indigeni: quelli del nord. Quelli che non hanno visto e sentito lo sparo. Quelli che ci abitano vicino, al Trimboli di “quei Trimboli lì che in Calabria fanno i mafiosi”.

E invece il morto ammazzato è qui. Loro abitano qui. Vivono qui. Lavorano qui. E’ una notizia nostra. Per intendersi.

E’ un episodio isolato, aveva detto il sindaco.

 

L’odio di Carlo Cosco, i suoi “fratelli”, Lea Garofalo e l’orgogliosa Denise

Depositate le motivazioni del processo per l’uccisione di Lea Garofalo. Ci torneremo. Sicuro. Intanto il bel pezzo scritto da Giovanna Trinchella per Il Fatto Quotidiano. E le parole che scolpiscono una colte per tutte il vergognoso spessore criminale di Cosco e i suoi fratelli:

L’unica cosa certa è che Lea Garofalo è stata uccisa per “odio”. Massacrata da “criminali di mestiere e per scelta di vita”. Il suo corpo, dissolto in cinquanta litri di acido, non è mai stato trovato ma quella “donna fragile, sofferente, infelice” è morta assassinata “al di là di ogni ragionevole dubbio”. I giudici della I corte d’Assise di Milano, che il 30 marzo scorso hanno mandato in galera per sempre sei uomini tra cui l’ex compagno della vittima Carlo Cosco, non hanno potuto concedere nessuna attenuante a chi, come scrive la presidente Anna Introni nelle motivazioni della sentenza, ha dimostrato solo “disprezzo della vita e dei più nobili sentimenti famigliari”.

E’ stato un processo difficile quello contro “imputati imperterriti e imperturbabili”, silenti tranne quando hanno scelto di parlare per dire “menzogne”. E’ più che un percorso giudiziario il film della vita di questa donna, che iniziò una collaborazione da testimone di giustizia solo per dare una chance di vita migliore alla figlia Denise, assomiglia a un romanzo. Una vita difficile ricostruita dai giudici con parole che entrano raramente in atti giudiziari: “Lea, orfana di padre dall’età di nove mesi, sin dalla prima infanzia respira e vive in un ambiente socio famigliare caratterizzato da povertà culturale, con elevati profili di illegalità patologici ed improntato a valori educativi deviati, la nonna le insegna che il sangue si lava con il sangue tanto da compiacersi dell’onore mostrato dall’altro suo figlio che aveva cercato di vendicare la morte del fratello con il sangue divenendo irrilevante che lo stesso fosse rimasto ucciso nell’ambito delle vendette incrociate”.

Ed è per questa vita complicata che il pm di Milano Maurizio Tatangelo, ad apertura del processo, disse: “A questo processo vi appassionerete, è una vicenda umana tragica”. Perché non solo c’è un uomo che uccide la’ex compagna con l’aiuto dei parenti, ma una figlia che si costituisce parte civile contro il padre, l’assassino di sua madre: “La testimonianza di Denise Cosco, come già visto e come si vedrà soprattutto in seguito, è assai preziosa, Denise è il teste chiave – scrive il giudice Introini – e le sue dichiarazioni si pongono quali momenti fondamentale per la ricostruzione di alcuni eventi, di parecchi episodi, di tutto quanto successo che ha visto protagonisti i suoi genitori. La sofferenza di Denise unitamente ad altri nobili sentimenti manifestati nel corso delle sue deposizioni, quali il coraggio, il senso della conoscenza, della verità esimono dal commentare le sue dichiarazioni se non nei limiti in cui ciò risulti strettamente necessario per l’accertamento della verità (finalità cui deve tendere il processo penale)”.

Per il pubblico ministero, che aveva chiesto e ha ottenuto l’ergastolo per gli imputati, “quella di Lea Garofalo è stata una morte annunciata, da anni”. Forse da quando la donna, nel 1996, dopo l’arresto di Carlo Cosco, lo lascia. Di sicuro dal 2002 quando Lea, sfuggendo alla “mentalità mafiosa” in cui era cresciuta, decide di svelare tutto quello che sa di omicidi ed estorsioni. Fino al 2009 Lea e Denise fanno parte di un programma di protezione e vagano per l’Italia in una sorta di via Crucis. Ma in aprile del 2009 Lea, che aveva solo 37 anni, smette i panni della testimone, forse perché sente il fiato sul collo di Cosco (che ha saputo dove si trova da un carabiniere), e dopo tredici anni cerca un contatto con lui. Cosco però, affiliato a una cosca della ’ndrangheta di Crotone “chiede l’autorizzazione a due capi-cosca per uccidere la Garofalo”, vuole la sua “vendetta”. Il movente di quest’uomo , cui non veniva fatta vedere la figlia quando era detenuto, è tutto in questa riflessione: non solo “lo straziante dolore di un genitore che a causa delle scelte dell’altro non vede più la figlia, non sono solo sentimenti di rabbia, di odio, di vendetta che provano quei genitori ai quali per le scelte dell’altro genitore vengono privati della quotidianità dei figli, vengono privati della gioia di vederli crescere, è qualcosa di più è il disonore, l’umiliazione provata per essere stato lasciato da Lea nel momento del suo arresto e per non vedere più la figlia per una decisione unilaterale della moglie”.

Tra gli “impeterriti e imperturbabili” imputati – Carlo Cosco appunto, i fratelli Giuseppe e Vito, Rosario Curcio, Massimo Sabatino – c’è anche Carmine Venturino “al servizio stabile dei Cosco” che “non si è sottratto neppure all’ignobile compito di affiancare Denise ed intrattenere con la stessa una relazione sentimentale”. La “rara efferatezza”, la “fredda determinazione” di tutti non hanno risparmiato Lea e forse non avrebbero risparmiato Denise che consapevole delle responsabilità della sua famiglia per oltre un anno, e fino agli arresti degli assassini, ha dovuto vivere in una prigione di silenzio e paura: “Ho fatto finta di niente – aveva detto in aula la ragazzina nascosta dietro un paravento – come ho fatto finta di niente tutto l’anno successivo. Cosa dovevo fare? La stessa fine di mia madre?”. Lea, che con la figlia voleva scappare in Australia, scomparve fra il 24 e 25 novembre 2009; le telecamere del comune di Milano ripresero all’Arco della Pace di Milano i suoi ultimi istanti in vita. Alle 18,37 salì sull’auto guidata da Carlo Cosco. Fu portata in un appartamento, poi in un magazzino, interrogata, torturata. Tra il 26 e il 28 novembre fu dissolta nell’acido. Denise, difesa dall’avvocato Enza Rando, ora vive sotto protezione, (lontana da nonna e zia materne, anch’esse parti civili nel processo), ma “orgogliosa testimone di giustizia”.

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