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paura

Il testimone si inventa un lutto per non testimoniare: la paura, a Roma.

carminati

È una storia che lascia spazio a molte riflessioni quella di Filippo Maria Macchi, l’imprenditore romano che nel 2014 era ricorso a Massimo Carminati per farsi prestare trentamila euro. Aveva tra le mani un affare di oro in arrivo dall’Africa (che poi sfumò) e pensò che un prestito “facile” dalla criminalità potesse essere la strada più semplice. Ma non fu così. E oggi Macchi, chiamato a testimoniare, si dimostra impaurito come ci si aspetterebbe in una storia di mafia del profondo sud di qualche decennio fa; e invece accade a Roma, nella capitale in cui il processo Mafia Capitale viene usato per scagliarsi addosso a qualche candidato sindaco ma in realtà scompare dalla cronaca. Così Macchi prima si inventa un lutto (mai esistito) e poi portato a forza davanti al magistrato nega di avere mai ricevuto le minacce. E attenzione: se non si riesce a dimostrare minacce e intimidazioni cade l’accusa di mafia, che è proprio l’obiettivo degli avvocati di Carminati e compagnia. Quando il pm ha fatto ascoltare in aula le parole che Macchi aveva pronunciato al maresciallo dei Ros che l’aveva contattato per testimoniare («Marescià, sappiamo che queste sono persone che si sò rivalse e che si rivalgono contro chi gli si rivolge contro…») l’imprenditore ha provato a balbettare una scusa, una mezza frase. E invece è la mafia con tutti i suoi effetti. A Roma.

Di cosa avere paura. Questo è il punto.

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Ogni tanto mi accorgo di essermi abituato alla paura. Non è un’abitudine figlia di eroismo, tutt’altro: qualcosa che assomiglia a un’impermeabilizzazione, il chiudere tutti i pori perché non ci entri polvere malata. Una cosa così. È che poi, a vivere con i pori stretti, ti accorgi di avere anestetizzato un po’ tutti i sensi; e succede a tutti nella vita di provare a liofilizzare la testa e il cuore per legittima (ma eccessiva) difesa.

Dopo un trauma, che sia delusione o paura, si finisce per soffiarsi intorno, farsi bolla, e alla fine ti dimentichi davvero di cosa avevi paura, cosa ti aveva fatto male. Ecco, stasera, a provare a cercarmi la paura tra i capelli, prenderla per una zampa e guardarla dopo così tanti anni mi accorgo che non ha più quasi niente della paura di dieci anni fa. Non sembra nemmeno parente. Non le somiglia nemmeno. Perché lì dove prima spaventava il criminale oggi ho più un senso di nausea (spaventata) per il corrotto, piuttosto del corruttore. Perché per comodità e omologazione questa divisione di buoni nettamente buoni e cattivi naturalmente cattivi continuiamo a piantumare la steppa grigia dove crescono i pericolosi per davvero: gli esecutori di una mafia che è banalizzazione dell’etica, asciugamento della linfa sociale, professionisti del cedere alla posizione dominante.

Riconoscere la paura quindi senza confonderla con i suoi sfaccettati effetti: la disperazione, il pessimismo, l’esaurirsi, il piegarsi su se stessi, l’aspettare solo come tempo e senza più speranza, il progettare a brevissimo raggio. Tutti effetti. Perché la radice di tutto, quella, invece, non riusciamo nemmeno più a vederla. Ecco: ho paura di abituarmi alla paura come se fosse un undicesimo dito, uno stato naturale. Quello no. Abituarsi alla paura no. Davvero. No. La paura della paura, potendo, non concediamola a nessuno.

Ridefinire il coraggio

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Forse bisognerebbe provare a ripartire da Mark Twain, lo scrittore statunitense dei primi del ‘900, e la sua definizione: “Il coraggio è la capacità di resistere alla paura, di dominare la paura: non è l’assenza di paura.” In tempi in cui il terrore si è fatto “sistema” conviene spendere qualche pensiero sulla ridefinizione del “coraggio” che, in questi ultimi giorni dopo i cadaveri di Parigi, continua a rimbalzare nei diversi articoli di cronaca e negli editoriali.

Il terrorismo non ci chiede di essere coraggiosi nel senso più brutale del termine come sventolato dai soliti avvoltoi che a destra e a sinistra cercano di capitalizzare in voti lo smarrimento, come necrofili mai sazi. Il coraggio muscoloso e bruto è il migliore regalo che si possa fare al terrorismo e ai suoi adepti: contrapporre bestialità a bestialità, fare la guerra alla guerra con la guerra significherebbe accettare la discesa in un campo in cui non contano i valori civili di una democrazia ma piuttosto l’affilatura delle armi e la predisposizione all’orrore. Il terrorismo gioca a farci diventare mostruosi per normalizzare la propria natura, il terrorismo ci vorrebbe sadici per confermare il ritratto che vuole imporre di noi. Per questo le uscite infelici dei Salvini o dei filofascisti di turno non sono nient’altro che il lievito (sbagliato) di una guerra che chiede di essere sgonfiata, prima che combattuta.

E allora che forma ha il coraggio che ci servirebbe? Forse dovrebbe essere, come scriveva Twain, un coraggio che non dissimuli la paura ma che ne prenda pienamente coscienza: coscienza di un mondo in cui la contrapposizione è molto più complessa di come appare e entrambi le parte non sono esenti da colpe. Non è il “cattivissimo ISIS” contro il “buon Occidente”: questa guerra è tra l’assembramento criminale di criminali (islamici in gran parte ma certamente favoriti da criminali pratiche occidentali) che sfidano un sistema politico ed economico in cui noi siamo semplicemente la “terra di mezzo”. Insieme al cordoglio ufficiale e istituzionale di questi giorni è facile trovare anche gli articoli che ci dicono di come l’ISIS sia stato armato dai suoi stessi nemici e, a volte, anche usato dallo stesso Occidente che vorrebbe combattere. Li armiamo per combatterli, insomma, non solo con gli strumenti militari che a molti Paesi del G20 fa comodo vendere ma anche con una libertà d’azione che per un certo periodo è stata concessa al califfato in nome di qualche “liberazione” comoda per interessi petroliferi.

Per questo oggi avere “solo” paura è il miglior regalo che possiamo fare alle parti in guerra […]

(continua qui)

Adesso è il momento di fare ciò che ti piace.

Adesso è il momento di fare ciò che ti piace. Non aspettare lunedì, non aspettare domani. Non fare allungare davanti a te la carovana di sogni calpestati. Non aspettare.
Non frenarti per paura o viltà. Non posporre la vita con altra morte, e non aspettare niente dalla sorte che non sia più della tua tenacia e della tua energia.
Se il tuo sogno è bello, dagli forma come il torrente scava le sponde; come il vento che vive e si trasforma.
E perché tutto risulti come tu vuoi, detta tu stesso le tue regole e converti il tuo autunno in primavera.

(Ivan Malinowski) (clic)

Non c’è brivido, non c’è eccitazione, non c’è sfida: solo la paura raggelante

Una riflessione da prendere in considerazione di Domenico Perrone, figlio di Roberto ex boss che gestiva il clan Polverino oggi pentito, sulle fiction tv e in generale sui rischi nel rappresentare la criminalità organizzata:

«Vi posso assicurare che, dal vivo, è tutta un’altra storia. Non c’è brivido, non c’è eccitazione, non c’è sfida: solo la paura raggelante di essere arrestati, traditi o ammazzati, e anche quando sei pieno pieno di soldi, non hai mai pace». Sul piccolo e grande schermo, questo contrappasso, invece, emerge raramente.
Non è mostrando l’inferno – è il suo ragionamento – che si combattono i peccati. «Perché c’è anche chi all’inferno vuole andare coscientemente». E allora che fare? «Mostrare che fine fanno i camorristi, in un cimitero o in un carcere sorvegliati a vista per il resto della loro vita».
Poi si ferma, e si corregge: «Anzi, nemmeno questo: le fiction le farei su chi a Scampia si alza al mattino e va a lavorare perché ci vuole molto più coraggio per essere onesti, in quei luoghi, che per premere il grilletto o vendere la droga».

Non voglio imparare ad avere paura

Oggi a Roma c’era il caldo torrido. Il caldo torrido che entra di gran lena nella scena delle parole precostituite come fioreamore o pioggiatorrenziale o macabrascoperta. In realtà forse non era nemmeno torrido ma sono piuttosto abbastanza torrido io ogni volta che tiro la testa fuori dalla porta di casa con tutte queste notizie di morti ammazzati che mi dovrebbero ammazzare e alla fine non riesco nemmeno a farci il callo. Sarò pavido, o forse, semplicemente fatico a diventare abitudinario.

Ho percorso qualche metro, lo ammetto, qualche metro, dal confine della proprietà privata di me stesso e quel limite da cui poi devo consegnarmi alla protezione del mio stato. Roba da film russo, se ci pensate, scritto così. Ma a viverla non ha il sapore dello spionaggio, no, quanto piuttosto il peso dell’obbligo della lista della spesa: mi sento come uno di quei pensionati che ogni mercoledì esce con il foglietto scritto dalla moglie e non può fallire nemmeno un prodotto per sopravvivere, solo che c’è la mia vita, in fondo, nella mia lista della spesa, eh.

Ora vi racconto quanto gli spaventati cronici vedono l’epica nelle cose inutili. Almeno per togliersi di dosso il mito, che proprio mi è insopportabile per anarchia naturale, il mito. Oggi esco dal recinto naturale non bonificato e noto un’auto che avevo notato ieri, l’altro ieri, l’altro altro ieri e l’altro l’altro l’altro ieri: notare le auto parcheggiate fuori casa è una malattia. Una mania. Una stortura da perditempo con tanto tempo a disposizione per coltivare le storture. Lo scrivo senza poesia: avere paura ti trasforma in un maniaco dei particolari, in un ossessionato guardaspalle di te stesso e in un sospettoso cronico.

Rischio tutti i giorni di diventare una persona peggiore. Mi salvano i miei figli, i miei amori e l’obbligo di concimare l’orto dei miei sorrisi. Io non voglio imparare ad avere paura, non voglio convincermi che sia una convivenza forzata nella gioia e nel dolore, no. Non voglio nemmeno spendere centimetri di occhi per memorizzare i colori del parcheggio sotto casa. Voglio sorridere come questa sera in cui mi ripenso a centellinare le targhe come i brontoloni, quelli tutto il pomeriggio appesi alle reti dei cantieri. Sono vivo, smutandando il mito gonfiabile con incollata la mia faccia.

Solo una lettera d’amore

giulio cavalli 15 giugno-784459Hanno cercato di convincermi in tanti, per prima la vita, che bisogna attrezzarsi per essere sempre pronti alla difesa in quella posa tutta innaturale dove le spiegazioni sono sempre pronte in vasetto nel frigorifero per giustificarsi: spiegare le azioni prima che succedano, mi dicono, perché la vita pubblica è un gioco di  misure che premia gli ammennicoli e i lambicchi e conviene fare così, con le fragilità ben nascoste dentro le mutande e nel portamonete.

Pensavo qualche giorno fa, perso in un parcheggio sotterraneo come un lombrico, che nella vita ho fatto le mie cose migliori quando non ho avuto modo o tempo di imbavagliare le mie fragilità: mi sono sentito un buon padre mentre mi commuovevo sull’orlo della favola in cui si addormentano i miei figli, sono stato un buon figlio quando non sono riuscito a trattenere la gratitudine e sono un amico sincero quando confesso di non riuscire. E’ un peccato mortale essere umano, in pubblico poi, mi dicono, è un peccato mortale non seguire il copione che dovresti imparare per essere confortante senza preoccuparsi di essere credibile.

E’ successo che mi sono innamorato: innamorato dell’ebrezza di essere almeno un secondo all’altezza delle parole che scrivo, innamorato di spiegare le idee come una tovaglia aperta per una tavolata con le persone più vicine senza preoccuparsi della spendibilità pubblica, innamorato della mia incoscienza dei sogni che mi è stata sempre così fedele da volerla come compagna di vita, innamorato del profumo sulle isole in cui mi sento a casa senza architettare come travestirle. Non importa che capelli ha, come si chiama, da dove viene e dove vogliamo andare. Sono fiero di essermi innamorato dei miei sogni più imprudenti.

Hanno cercato di convincermi in tanti, per prima la vita, che un personaggio pubblico deve avere la grana fotografica dei film che riguardi cento volte di seguito per come è come te lo aspetti. Ho sprecato tempo sotto il palco a nascondere il filo del microfono perdendomi la gioia della mia inquietudine bambina poco prima della scena, ho finto in politica di provare un certo misurato sdegno per personaggi che sono un conato di disgusto, ho perso tempo a nascondere la mia paura, una paura fottuta, davanti alla miopia delle reazioni delle minacce più che delle minacce stesse, ho perso tempo ad ascoltare lezioni di anaffettività che voleva essere marketing della comunicazione, ho creduto per qualche anno che la misura giusta fosse un compromesso tra le linee che mi disegnavano altri.

Vedi cara, pensavo di avere perso la fantasia di pensarmi leggero (con una scorta leggera, se proprio è obbligatoria) o di credere davvero che gli affetti sono i nodi che non stringono ma sciolgono tutto il resto. Ho creduto esaurita l’immaginazione di portarmi la verità come unica spiegazione possibile e non conta se qualche volta sai per certo che sarà perdente: giochiamo ad un altro gioco, e ci invidiano così.

Ho perso le mie ore migliori ad ascoltare chi mi voleva convincere che il cinismo è una buona armatura e adesso mi prendo i miei anni con le mie rughe e la mia penna fragile. Non ci può essere arte dove va di moda vergognarsi della felicità. Non importa che capelli ha, come si chiama, da dove viene e dove vogliamo andare. Sono fiero di essermi innamorato dei miei sogni più imprudenti.

Queste ragazzine si sono rivolte a lui e gli hanno detto: “Voteremo per toglierle l’incarico.” Oggi non ha più l’incarico.


Spesso giro il mondo, per fare discorsi, e la gente mi fa domande sulle sfide, sui miei momenti, sui miei rimpianti. 1998: Mamma single, di 4 bambini, tre mesi dopo la nascita del mio quarto figlio andai a lavorare, come assistente ricercatrice, nella Liberia del nord. Come parte del contratto, il villaggio ci forniva un alloggio. Mi diedero un alloggio con una madre single e sua figlia.

La ragazza era l’unica ragazza di tutto il villaggio che era arrivata alla prima superiore. Era lo zimbello della comunità. Altre donne dicevano a sua madre: “Tu e tua figlia morirete povere”. Dopo due settimane di lavoro in quel villaggio, fu tempo di rientrare. La madre venne da me, in ginocchio, e mi disse: “Leymah, prendi mia figlia. Voglio che diventiun’infermiera”. Poverissima, vivevo a casa con i miei genitori, non potevo permettermelo.Con le lacrime agli occhi, dissi “No”.

Due mesi dopo, visitai un altro villaggio per lo stesso incarico e mi chiesero di vivere con il capo del villaggio. Il capo delle donne del villaggio aveva una bambina, come me, la pelle chiara, sporca da capo a piedi. Se ne andava in giro tutto il giorno in mutande. Quando chiesi: “Chi è quella?” mi disse: “Quella è Wei. Il suo nome significa maiale. Sua madre è morta dandola alla luce, e nessuno sa chi sia il padre”. Per due settimane, diventò la mia compagna, dormiva con me. Le comprai vestiti usati e le comprai la sua prima bambola. La sera prima di partire, venne in camera da me e disse: “Leymah non lasciarmi qui. Voglio venire con te. Voglio andare a scuola.” Poverissima, senza soldi, in casa con i miei genitori, ancora una volta dissi: “No”. Due mesi dopo, entrambi i villaggi furono coinvolti in un’altra guerra. Ad oggi, non ho idea di dove siano quelle due ragazze.

Avanti veloce, 2004: al culmine del nostro attivismo, il ministro per la parità della Liberia mi chiamò e disse: “Leymah, ho una bimba di nove anni per te. Voglio che la porti a casaperché non abbiamo case sicure”. La storia di questa ragazzina: Era stata violentata dal nonno paterno, tutti i giorni, per sei mesi. Venne da me tutta gonfia, molto pallida. Tutte le sere tornavo dal lavoro e mi sdraiavo sul pavimento freddo. Lei si sdraiava accanto a me e diceva: “Zia, voglio stare bene. Voglio andare a scuola.”

2010: Una giovane donna, di fronte al Presidente Sirleaf, testimonia di come lei e i suoi fratelli vivessero insieme, il loro padre e la loro madre morti durante la guerra. Lei ha 19 anni; il suo sogno è andare all’università per poterli aiutare. È molto atletica. E succede chesi candida per una borsa di studio. Una borsa di studio completa. La ottiene. Il suo sogno di andare a scuola, il suo desidero di ricevere un’istruzione, alla fine si avvera. Va a scuola il primo giorno. Il direttore degli sport, responsabile per averla inserita nel programma le chiede di uscire dall’aula. E nei 3 anni successivi, il suo destino sarà avere relazioni sessuali con lui ogni giorno, come favore per averla fatta entrare a scuola.

Globalmente, abbiamo delle regole, strumenti internazionali, dirigenti che lavorano. Grandi persone hanno preso impegni — proteggeremo i nostri figli dal bisogno e dalla paura. Le Nazioni Unite hanno la Convenzione Internazionale sui diritti dell’infanzia. Paesi come gli Stati Uniti hanno la legge No Child Left Behind [Nessun bambino lasciato indietro]. Altri paesi fanno cose diverse. Uno degli obiettivi di sviluppo del millennio chiamato Three si focalizza sulle bambine. Tutti questi grandi lavori di grandi persone con lo scopo di portare i giovani dove vogliamo che vadano globalmente, credo abbiano fallito.

In Liberia, per esempio, il tasso di gravidanza tra le adolescenti è di 3 ogni 10 ragazze. La prostituzione tra le adolescenti è al suo massimo. In una comunità, ci dicono, ti alzi la mattina e vedi preservativi usati come se fossero carte di caramelle. Le ragazze di appena 12 anni si prostituiscono per meno di un dollaro a notte. È scoraggiante, è triste. E poi qualcuno mi ha chiesto, poco prima che parlassi a TED, qualche giorno fa: “Dov’è la speranza?”

Diversi anni fa, alcuni amici decisero che era arrivato il momento di colmare il vuoto tra la nostra generazione e la generazione delle giovani donne. Non è sufficiente dire di avere due premi Nobel nella Repubblica di Liberia, se le vostre ragazzine sono del tutto abbandonate,senza speranza, o sembrano senza speranza. Abbiamo creato uno spazio chiamato Young Girls Transformative Project [Progetto di Trasformazione per le Ragazze]. Andiamo nelle comunità rurali e tutto quello che facciamo, come è stato fatto in questa sala, è creare lo spazio. Quando queste ragazze si siedono, si dà spazio alla loro intelligenza, alla loro passione, al loro impegno, alla loro determinazione, si dà spazio a delle grandi leader.Finora abbiamo lavorato con più di 300 di loro. E alcune di queste ragazze che sono entrate nella stanza molto timide hanno fatto passi da gigante, da giovani madri, per tornare nel mondo e promuovere i diritti di altre giovani donne.

Una giovane donna che ho incontrato, madre adolescente di 4 bambini, che non aveva mai pensato di finire le superiori, si è diplomata con successo; non aveva mai pensato di andare all’università, si è iscritta all’università. Un giorno mi ha detto: “Il mio desiderio è finire l’università ed essere in grado di crescere i miei figli”. Al momento non riesce a trovare il denaro per andare a scuola. Vende acqua, vende bibite e vende ricariche del telefono. Potreste pensare che, quei soldi, li investe nella propria istruzione. Si chiama Juanita. Prende quei soldi e cerca madri single, nella sua comunità da rimandare a scuola.Dice: “Leymah, il mio desiderio è avere un’istruzione. E se non posso avere un’istruzionequando vedo le mie sorelle con un’istruzione, il mio desiderio si è avverato. Desidero una vita migliore. Desidero cibo per i miei bambini. Desidero che si metta fine agli abusi sessuali e allo sfruttamento nelle scuole.” Questo è il sogno della Ragazza Africana.

Diversi anni fa, c’era una ragazza africana il cui figlio desiderava un pezzo di ciambellaperché aveva molta fame. Furiosa, frustrata, molto preoccupata per le condizioni della sua società e dei suoi figli, questa ragazza ha dato il via a un movimento, un movimento di donne comuni che si sono riunite per la pace. Io esaudirò il desiderio. Questo è il desiderio di un’altra Ragazza Africana. Ho fallito nell’esaudire il desiderio di quelle due ragazze. Ho fallito. Questi erano i pensieri che passavano per la mente di questa giovane donna — ho fallito, ho fallito, ho fallito. Quindi farò questo. Le donne si sono esposte, per protestare contro un feroce dittatore, parlando con coraggio. Non solo il desiderio di un pezzo di ciambella è diventato realtà, il desiderio di pace è diventato realtà. Questa giovane donnadesiderava anche andare a scuola. È andata a scuola. Questa giovane donna desiderava altre cose, che si sono avverate.

Oggi, questa giovane donna sono io, sono un premio Nobel. Ora sto intraprendendo un percorso per esaudire il desiderio, delle bambine africane con le mie limitate capacità — il desiderio di ricevere un’istruzione. Abbiamo creato una fondazione. Diamo borse di studio complete di 4 anni a ragazze di villaggi che mostrano un potenziale.

Non ho molto da chiedervi. Sono stata anche in zone degli Stati Uniti, e so che anche le ragazze di questo paese hanno dei sogni, il sogno di una vita migliore, da qualche parte nel Bronx, sogni di una vita migliore da qualche parte nel centro di Los Angeles, sogni di una vita migliore da qualche parte nel Texas, sogni di una vita migliore da qualche parte a New York, sogni di una vita migliore da qualche parte nel New Jersey.

Volete accompagnarmi nell’aiutare quella ragazza, che sia una ragazza africana o una ragazza americana o una ragazza giapponese, a esaudire il suo desiderio, a esaudire il suo sogno, a realizzare il suo sogno? Perché tutti questi grandi innovatori, questi inventori con cui abbiamo parlato e che abbiamo visto in questi ultimi giorni sono anche loro seduti in un angolo in diverse parti del mondo, e tutto quello che ci chiedono di fare è creare quello spazio per liberare l’intelligenza, liberare la passione, liberare tutte quelle belle cose che loro trattengono dentro di sé. Facciamo la strada insieme. Facciamola insieme.

Grazie.

(Applausi)

Chris Anderson: Grazie infinite. Oggi in Liberia, qual è il problema che più la preoccupa?

LG: Mi è stato chiesto di guidare l’Iniziativa di Riconciliazione Liberiana. In quanto parte del mio lavoro, faccio queste visite in diversi villaggi, nelle città — 13, 15 ore su strade sconnesse — e in nessuna delle comunità in cui sono stata mancavano le ragazze intelligenti. Purtroppo, la visione di un grande futuro, il sogno di un grande futuro, è solo un sogno, perché abbiamo tutti questi problemi. La gravidanza in età adolescenziale, è diffusissima.

Quello che mi preoccupa è che io stessa ero una di loro e in qualche modo ora sono qui, e vorrei non essere l’unica ad essere qui. Cerco di fare in modo che altre ragazze siano con me. Tra 20 anni voglio guardarmi indietro e vedere un’altra ragazza liberiana, una ragazza del Ghana, una ragazza nigeriana, una ragazza etiope sul palco di TED. E forse, dico forse, dirà: “Grazie a quel premio Nobel oggi sono qui.” Sono preoccupata quando vedo che in loro non c’è speranza. Tuttavia non sono pessimista, perché so che non ci vuole molto per dare loro la carica.

CA: E in quest’ultimo anno, ci dica una cosa incoraggiante che ha visto accadere.

LG: Le posso parlare di molte cose incoraggianti che ho visto accadere. Ma nell’ultimo anno, siamo andate nel villaggio da cui proviene il presidente Sirleaf per lavorare per quelle ragazzine. E non c’erano neanche 25 ragazze alle scuole superiori. Tutte le ragazze andavano alle miniere d’oro, ed erano in prevalenza prostitute, che facevano altre cose.Abbiamo preso 50 di queste ragazze e abbiamo lavorato con loro. Eravamo all’inizio delle elezioni. Questo è un luogo dove le donne — anche le più anziane a malapena si siedono accanto agli uomini. Queste ragazze si sono riunite, hanno formato un gruppo e hanno lanciato una campagna per registrare gli elettori. È un villaggio molto rurale. Il tema che hanno usato è stato: “Anche le ragazze carine votano.” Sono riuscite a mobilitare le giovani donne.

Ma non hanno fatto solo questo, sono andate dai candidati a chiedere: “Cosa farete alle ragazze di questa comunità se vincerete?” E uno di loro che aveva già un incarico — perché la Liberia ha una delle più forti leggi contro lo stupro, e lui era uno di quelli che in parlamento si batteva per far revocare quella legge perché diceva che era barbara. Lo strupro non è una barbarie, la legge lo è, diceva. Quando le ragazze hanno iniziato a coinvolgerlo, lui era molto ostile nei loro confronti. Queste ragazzine si sono rivolte a lui e gli hanno detto: “Voteremo per toglierle l’incarico.” Oggi non ha più l’incarico.

(Applausi)

CA: Leymah, grazie. Grazie di essere venuta a TED.

LG: È stato un piacere. (CA: Grazie.)

(Applausi)

Una riflessione sulla colletta alimentare

Su La pentola d’oroNiente scava più distanza tra la ricchezza e la povertà della beneficenza, ma la beneficenza fatta per interposta persona, mica quella dei cinque euro messi in mano al Senegalese che vende i libri per strada: quello ti viene tanto vicino che puoi vedere le sue labbra spaccate, i suoi occhi stanchi, i suoi denti rosi dalla carie. E ti vengono i brividi, perché lo sai di avere un dente cariato pure tu, ma per andare dal dentista hai deciso di aspettare tempi migliori. Prende il tuo stesso treno, il Senegalese, perché come te abita fuori città, dove l’affitto costa meno. Nei giorni feriali avete più o meno lo stesso odore. Certe mattine daresti una mano per non incontrarlo mai più. Daresti un pacco di biscotti al giorno, per tutta la vita, per non incontrarlo mai più. Dedicato a tutti coloro che oggi, giornata nazionale della colletta alimentare, se la sono presa con iWu Ming pur di non ammettere che l’evento sia organizzato da CL e che non sia, quindi, pura emanazione della bontà sociale, cui affidare ciecamente la propria offerta apotropaica. Immagino facciate parte dell’85% di italiani che si dicono spaventati dal futuro. Ne faccio parte anch’io, in pieno. Ho anche paura dell’aereo, degli incendi, dei botti di capodanno, dell’autostrada e se sono da sola a casa anche il buio mi inquieta un po’. Ma la paura dei poveri è troppo vigliacca persino per me.