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rassegna stampa politica

Intervista per Byoblu: un incidente a sera tarda può capitare a tutti

Una mia intervista per Byoblu.

di Valerio Valentini
“Attore, scrittore, regista e politico italiano, nato a Milano il 26 giugno 1977”. C’è scritto più o meno così sulla prima riga della pagina di Wikipedia dedicata a Giulio Cavalli. Non c’è scritto che vive sotto scorta da 4 anni. Oggi ha particolarmente bisogno di non essere lasciato solo. L’ho intervistato per il blog.

“Possiamo anche non interessarci degli ‘ndranghetisti, ma loro sicuramente si interesseranno di noi”. Più volte ti ho sentito ripetere questa frase: che significato ha avuto nella tua esperienza di uomo e di artista?

Noi dobbiamo riuscire a sgretolare il muro dell’indifferenza. E per farlo credo che l’impegno sia quello di stimolare e allenare il muscolo della curiosità collettiva. Accendere l’acquolina in bocca sul tema mafie e antimafia anche alla “signora Maria” sotto casa, al bar, dal panettiere. Perché gli uomini di ‘ndrangheta conoscono e studiano le mozioni o gli ordini del giorno o i PGT (piano di governo del territorio, ndr) dei piccoli comuni più attentamente degli onesti? Perché utilizzano gli spazi lasciati liberi dalle collusioni, certo, e dall’inettitudine civica. Quindi interessiamoci di loro perché inevitabilmente loro si interessano di noi, per favore. Questo è il richiamo.

Un regista lombardo che denuncia la ‘ndrangheta: all’inizio qualcuno pensava a uno scherzo, dal momento che nella coscienza popolare la mafia calabrese era una faccenda del Sud. Eppure è dal 1979 che la ‘ndrangheta ammazza affiliati ribelli nei ristoranti del milanese come se si trattasse di gangster di Chicago, e nel decennio 1973-1983 furono più di cento i sequestri effettuati dalla criminalità organizzata in Lombardia. Perché, secondo te, c’è voluto tanto per comprendere che la mafia era arrivata anche al nord?

Per una questione politica e culturale. Politicamente, l’atteggiamento degli ultimi anni più in voga era il negazionismo a tutti i costi. La politica lombarda (almeno quella imperante) è vissuta sulla retorica dell’eccellenza in tutti i campi. La Lombardia come punto più alto dell’imprenditoria, della sanità, dell’organizzazione e della sicurezza. Riconoscere il problema delle mafie in fondo costringeva gli amministratori a rivedere dalle fondamenta il proprio “teorema lombardo”. Dal punto di vista culturale la Lombardia è la culla del federalismo. Ma non solo il federalismo bieco e secessionista della Lega quanto più un federalismo delle responsabilità per cui siamo tranquilli se la nostra città è tranquilla o addirittura ci basta che il nostro quartiere sia in sicurezza. Perso quindi il dovere di solidarietà evidentemente si sono create le pieghe culturali per un tranquillo pascolo delle famiglie mafiose. Anzi, negli ultimi vent’anni ci hanno fatto credere che la solidarietà (soprattutto qui in Lombardia) è un vezzo umanitario che non possiamo permetterci, una debolezza che mette a rischio i nostri figli. E così la vera secessione è stato l’egoismo civile.

Dal 2008 vivi sotto scorta: evidentemente un’esperienza molto difficile. Eppure, recentemente, è accaduto qualcosa che ha peggiorato di molto la tua situazione. Vuoi raccontarci cos’è successo?

Ho spiegato tutto nel mio blog. In realtà di minacce me ne arrivano molte e molto spesso personalmente. Ora, però, ci sono dei nomi e dei cognomi dichiarati apertamente in un video. Quindi c’è un reato chiaro: o minacce, o calunnia e procurato allarme. E soprattutto c’è da chiedersi cosa possa spingere un imprenditore a rilasciare un’intervista così disperata e disperante. Mi auguro che le istituzioni diano la risposta.

“Gliela faremo pagare, ma senza fretta. Un anno o dieci anni non è un problema”: più o meno in questo termini è stata formulata la minaccia nei tuoi confronti. Come va interpretata questa micidiale “pazienza” della ‘ndrangheta?

È la frase che più di tutte mi ha colpito e ha colpito alcuni investigatori con cui ho avuto modo di parlare in questo giorni. Se Gasparetto (l’imprenditore che ha lanciato l’allarme, ndr) avesse voluto cercare uno scoop avrebbe potuto favoleggiare di un attentato in pompa magna; invece il non avere fretta (ricordo in una telefonata qualcuno che, parlando di me, disse “un incidente a sera tarda può capitare a tutti”) è nel DNA delle ‘ndrine. Poco rumore. È finita l’era dei gesti eclatanti: conta solo il risultato.

Concretamente, da oggi come cambia (se cambia) la tua vita dopo quest’ulteriore esplicita minaccia?

Credo che i dispositivi della mia sicurezza rientrino in un patto tra me, la mia famiglia e lo Stato. Non amo mai parlarne e sentirne parlare.

Vivendo sulla tua pelle quest’esperienza, ti senti di indicare qualche provvedimento che ritieni opportuno le istituzioni prendano per migliorare le condizioni di collaboratori di giustizia, scrittori e giornalisti minacciati dalla mafia?

Difendere chi si espone è il modo migliore per lo Stato di dimostrarsi credibile. Non sempre ne è stato all’altezza.

In più occasioni hai affermato che il tuo impegno politico (consigliere regionale dal 2010 nelle file dell’IDV, poi passato a Sel) è in qualche modo complementare all’impegno di regista. Ti sei immediatamente impegnato per fondare “Expo No Crime”, l’ente interistituzionale che si occupa di vigilare sul rispetto della legalità in occasione della grande esposizione universale che si svolgerà a Milano. Quale minaccia rappresenta l’Expo 2015 in termini di infiltrazioni mafiose? E quali misure ritieni opportuno applicare per limitarle al massimo?

Hanno scritto un documento importante pochi giorni fa a Milano: il comitato presieduto da Dalla Chiesa direi che ha scritto un “bigino dell’antimafia” che porta soluzioni fattibili e concrete. Poi le leggi bisogna scriverle, usarle e osarle. Al di là delle leggi però la domanda vera è: abbiamo una classe dirigente con lo spessore etico e morale per affrontare la sfida EXPO?

Il tuo coraggio, la tua caparbietà, appaiono eroici. Eppure Giovanni Falcone diceva che non è con l’eroismo degli inermi cittadini che si può sconfiggere la mafia, ma con l’impegno costante delle forze migliori delle istituzioni. Cosa dobbiamo pretendere che faccia lo Stato, per vincere questa battaglia che tu hai deciso di combattere?

Niente eroismi. Ognuno faccia la propria parte. Senza indifferenti. L’articolo 4 della Costituzione: Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.

Nicola Gratteri, magistrato di Reggio Calabria da vent’anni in prima linea contro la ‘ndrangheta, sostiene che è nella scuola che si può vincere questa battaglia. E tu hai scelto l’arte per combatterla. Fa davvero così paura la cultura ai boss?

Io non credo che si vinca solo con la parola. Ma sicuramente la cultura svolge un ruolo importante: nell’alfabetizzazione della mafia, nell’educazione all’antimafia, nella costruzione di una lettura collettiva del fenomeno. E la scuola è il luogo che ha questo dovere perché, non dimentichiamolo, dovrebbe essere lo Stato ad assumersene l’onere. Non attori e scrittori.

E tutti noi, semplici cittadini troppo spesso abituati – anche noi – a demandare agli altri il compito di essere eroi, cosa possiamo fare?

Convincerci che è una battaglia bellissima. Difendere la propria terra nel senso più intenso della parola, creare una rete solidale che sia un’associazione civica di stampo costituzionale.

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‘L’innocenza di Giulio’: una bugia bipartisan

Con l’Agenzia Parlamentare per l’Informazione ho scambiato due battute sul mio libro ‘L’innocenza di Giulio’. Perché (per fortuna) un libro può ancora dire di più, di politica, di un comunicato stampa. E provare ad essere letteratura, insieme.

(AGENPARL) – Roma, 08 ago – “Io ho 34 anni e a quelli della mia età la storia di Andreotti non l’ha raccontata nessuno. Quello che abbiamo carpito da politici e intellettuali sono analisi sempre molto strumentali. Mi piaceva partire dai fatti: dalla bugia bipartisan sull’innocenza di Andreotti. Questo dimostra che il nostro Paese non riesce ad avere un atteggiamento critico rispetto alle bugie, quindi dopo un po’ che vengono ripetute si accettano come verità”. Così Giulio Cavalli, autore del libro “L’innocenza di Giulio” (ed. Chiarelettere) spiega l’idea di raccontare la vicenda del noto politico italiano. Cavalli è consigliere di Sel alla Regione Lombardia e autore di diversi testi teatrali che si occupano di denunciare pagine ancora avvolte da una zona d’ombra della nostra storia.
C’è un aspetto della vicenda andreottiana che ha catturato la tua attenzione?

Andreotti è una persona che mente, ma non solo dal punto di vista giudiziario, dal punto di vista della politica e della memoria storica si è seduto con gli uomini di mafia. Ha trattato con gli uomini di mafia, ha trattato finchè ci è riuscito, mollata perchè la mafia non accettava più di essere soggiogata. Ha saputo di omicidi che stavano per essere eseguiti e non ha fatto nulla. Ha utilizzato Cosa Nostra per gestire il consenso e organizzare il voto su alcuni territori. Oggi alcuni miei coetanei considerano Andreotti uno statista.

Nel libro c’è un’elencazione delle persone che sono venute in contatto con il politico Giulio Andreotti, spesso personaggi dal passato discutibile. Quello che vedi oggi intorno a te somiglia un po’ al passato?

Si perchè nonostante la vicenda Andreotti, non abbiamo imparato a distinguere i confini tra politica e opportunità. A me non interessa che Giulio Andreotti sia colpevole in Cassazione, a me interessa che questo Paese possa coltivare una generazione che sappia giudicare l’inopportunità e la non tollerabilità di fare politica per persone come Andreotti e molti altri. Quello dell’opportunità è un principio che non deve passare attraverso i tre gradi di giudizio, è lo spirito critico di una cittadinanza che ha il dovere di interessarsi alla politica e di controllare i suoi politici, altrimenti come diceva Pericle sono dei cittadini inutili al vivere civile.

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Ma ti candidi alle primarie?

Ma la domanda è un’altra. E soprattutto le risposte da costuire. Ho provato a raccontarlo ad Affari Italiani in questa intervista:

Giulio Cavalli ad Affaritaliani.it: “Candidato alle primarie? Non lo escludo”. Poi attacca Tabacci, avverte Civati e…

(intervista di Fabio Massa)

Giulio Cavalli, consigliere regionale di Sel, in un’intervista ad Affaritaliani.it di fatto si candida alle primarie che dovranno scegliere lo sfidante di Albertini, il successore di Roberto Formigoni alla guida di una Regione Lombardia sempre più in bilico: “Non smentisco e non lo escludo”. Poi stronca un’alleanza con l’Udc: “Noi che ci battiamo per i diritti civili non possiamo pensare di trovare sintesi con chi ha invece un’idea completamente  diversa su alcuni punti fondamentali”. Albertini? “Non mi preoccupo delle candidature degli altri, ma di avere delle idee e di fare proposte migliori”. L’esempio di Pisapia è replicabile in Regione? “Credo che sia difficile nell’organizzazione e nella costruzione del progetto politico. Però Milano e l’amministrazione Pisapia ci dà spunti”. Tabacci? “Mi stupisce che una persona che è parlamentare ed assessore abbia così tanto tempo da fare analisi politiche sulla Regione. Detto questo, Bruno Tabacci mi ricorda tantissimo quelli che fingono di contestare un sistema e poi invece hanno come progetto politico quello di cambiare gli interpreti e promettere che saranno un po’ più etici”. Civati? “Io non credo che Civati appoggi Renzi. Ma se così fosse l’avvicinamento sarebbe difficilissimo”

Il potere formigoniano è finito o sta finendo?
Si sta sgretolando talmente rumorosamente che anche la Lega Nord non può fare finta di non sentire.

A che punto è l’elaborazione di un’alternativa di centrosinistra per il futuro postformigoniano?
La Lombardia è lo specchio della situazione nazionale. Nel senso che dobbiamo chiarirci che cosa è il centro sinistra. Secondo me noi stiamo sprecando delle energie a raccontare e ad osservare la caduta di Formigoni, e a tendere l’orecchio sui tempi dettati della Lega, quando tutte quelle energie dovremmo usarle per raccontare la nostra alternativa. Ma è ovvio che per raccontare un’alternativa ci deve essere una coalizione che faccia sintesi. Noi che ci battiamo per i diritti civili non possiamo pensare di trovare sintesi con chi ha invece un’idea completamente diversa su alcuni punti fondamentali.

A chi si riferisce?
All’Udc, senza dubbio. Io dico che bisogna decidere quali sono le nostre priorità. Io non cito spesso Vendola, ma questa volta Nichi l’ha detto con una chiarezza disarmante: il vero rischio qui è che si faccia una grande filosofia e poi dal punto di vista politico, la grande coalizione abbia il sapore della cicuta. Penso che anche nella nostra Regione il vero rischio sia quello.

Intanto il centrodestra ha già qualche nome in campo. C’è Albertini, o un leghista…
Il giochetto del centrodestra sarà semplice. Non lo chiameranno più modello Formigoni ma modello Lombardia, e continueranno nella retorica dell’eccellenza.

Un commento sulla candidatura di Albertini.
Non mi preoccupo delle candidature degli altri, ma di avere delle idee e di fare proposte migliori.

E’ preoccupato che a sinistra non ci siano ancora molte idee?
Io penso che ci sia tutto lo spessore politico per partorirle, queste idee. Bisogna però che ci sia uno scatto in avanti. E questo potrebbe essere una proposta concreta: primarie che siano contemporanee con quelle nazionali. Così si darebbe il via a un percorso di sintesi nazionale con ricaduta sul regionale.

In campo c’è, ad oggi, il solo Civati.
Io sono molto amico di Pippo e ne condivido molte idee. Siamo assolutamente convergenti sull’idea di governo e anche sono molto vicino alla sua idea di Partito Democratico. Sono molto meno convinto di alcuni pezzi che gli stanno intorno.

Facciamo qualche nome: Gori, Renzi?
Io non credo che Civati appoggi Renzi.

Ma se così fosse?
Se così fosse l’avvicinamento sarebbe molto molto difficile su alcuni temi.

L’altra candidatura che non è in campo, ma che potrebbe essere, è quella di Bruno Tabacci…
Mi stupisce che una persona che è parlamentare ed assessore abbia così tanto tempo da fare analisi politiche sulla Regione. Detto questo, Bruno Tabacci mi ricorda tantissimo quelli che fingono di contestare un sistema e poi invece hanno come progetto politico quello di cambiare gli interpreti e promettere che saranno un po’ più etici. La mia idea è un po’ più eversiva dal punto di vista della progettazione politica.

Un’idea eversiva che potrebbe posto in una candidatura vera e propria?
Sicuramente come Sel una persona che possa fare sintesi della nostra idea ci sia sicuramente.

Sarà lei?
Rispondo con la frase che è molto in voga ultimamente: non smentisco e non lo escludo.

Di fatto lei è molto vicino a candidarsi. Le prime tre cose che se fosse presidente della Regione cambierebbe.
Ripensare la Sanità, non più ospedalocentrica, con un riequilibrio dei finanziamenti pubblico-privato e più controlli. Ripensare l’Ambiente: tutto ciò che è infrastruttura, nel momento in cui è strettamente necessario, ha bisogno di infrastrutture sociali intorno. Terzo: fare in modo che la Lombardia non sia una lobby antisociale ma estremamente sociale, per i cittadini. Poi c’è il problema del lavoro: bisogna ripensare alle start up e all’imprenditoria giovanile.

Il modello Pisapia può essere replicato in Regione Lombardia?
Credo che sia difficile nell’organizzazione e nella costruzione del progetto politico. Però Milano e l’amministrazione Pisapia ci dà spunti e indicazioni politiche che possono essere riutilizzate.

Come il fatto che a Milano il Pd ha perso le primarie e ha vinto le elezioni?
Nelle elezioni di Milano si è riusciti a parlare a della gente che della politica era disamorata. A Milano si è raccontato come la responsabilità di governo è difficile, che molto spesso chiede delle capacità diplomatiche e di mediazione, ma che può anche sfuggire al compromesso a tutti i costi.

Come è successo con il Dalai Lama?

Brescia che si incarta sulla discarica di amianto

La situazione di Brescia dal punto di vista ambientale e di gestione del territorio è un bigino indispensabile per una modello di gestione regionale credibile (e possibilmente vincente) del dopo Formigoni. Brescia ha le carte in regola per essere la summa di tutto ciò che non si deve fare e per ridefinire il termine di saturazione ambientale. Ne avevamo già discusso qui e in commissione ambiente con il Comitato contro le nocività che ha dimostrato come ormai i cittadini abbiano gli strumenti e la voglia per essere più tecnici dei tecnici nelle analisi delle criticità. La discarica di amianto di via Brocchi sarebbe il colpo al cuore di una situazione che era già insostenibile anni fa. Eppure le soluzioni nel breve termine sono possibili: ieri sono stato in Piazza della Loggia con i membri del comitato e la stampa per provare una volta per tutte a fare chiarezza e richiamare tutti alla responsabilità. Ne ha scritto bene Alessandra Troncana sul Corriere della Sera:

In gergo si chiama ordinanza contingibile urgente. In pratica si tratta di un escamotage con cui il sindaco Adriano Paroli, cui spetta tutelare la salute pubblica, potrebbe ottenere dalla Regione la sospensione dell’autorizzazione alla discarica di via Brocchi, giusto il tempo di appurare l’accumulo di criticità dell’area. E’ la proposta che i vertici del Sel hanno lanciato giovedì 24 maggio sotto la Loggia, nel corso di un incontro con cittadini e membri del Comitato contro le nocività. Come ha detto il consigliere regionale Giulio Cavalli, «Mentre aspettiamo gli esiti delle analisi sulla quantità di Pcb e diossina che infestano San Polo (questione di giorni e l’Arpa le renderà note, ndr) è l’unica cosa che si potrebbe fare per fermare, anche solo poche settimane, questo scempio ambientale». La Giunta non potrebbe fare nulla di più, dal momento che l’autorizzazione alla costruzione del sito spetta al Pirellone. Intanto, la questione sarà discussa nel prossimo consiglio comunale, previsto mercoledì 30 maggio. Lidia Bontempi, del Comitato, non esclude che si riprenda lo sciopero della fame: «Già, perché il problema di via Brocchi figura al sedicesimo posto nell’ordine del giorno. Niente di più facile che della discarica non si parli nemmeno mercoledì. Vedremo che fare».

Umberto Ambrosoli e Giulio Cavalli si tuffano nell’epopea di Andreotti

da ILCITTADINO

«Il processo Andreotti racconta che, in questo Paese, ripetere una bugia infinite volte funziona»: questa l’amara tesi di fondo di Giulio Cavalli, attore e regista teatrale, nonché scrittore e consigliere della Regione Lombardia nelle file di Sinistra ecologia e libertà, che ha presentato mercoledì sera a San Giuliano la sua ultima fatica, il libro “L’innocenza di Giulio”. In una serata organizzata dalla sezione locale di Sel e moderata da Valentina Draghi, esponente locale del partito di Nichi Vendola, il poliedrico autore lodigiano è intervenuto insieme a Umberto Ambrosoli, figlio dell’avvocato e giudice Giorgio Ambrosoli, ucciso nel 1979 mentre operava come liquidatore della banca di Michele Sindona, personaggio legato allo storico esponente della Dc.Argomento del libro, l’irrazionale normalità con cui il processo Andreotti, giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa e dichiarato nel 2003 prescritto per aver commesso il reato fino alla primavera del 1980, è stato mediaticamente celebrato alla stregua di un’assoluzione, senza lasciare strascichi degni di nota nell’opinione pubblica del nostro paese. Tutto questo nonostante, come affermato da Cavalli, «una lettura politica della vicenda ci dice che egli ha usato la mafia per motivi di consenso elettorale». Tuttavia il testo, e la sua presentazione, non si sviluppa tanto sul terreno storico, ma rimane invece ancorato ad una prospettiva di tipo politico: posto che «il metodo Andreotti è un metodo in cui poche persone si mettono d’accordo per perseguire il proprio guadagno personale ai danni di quello pubblico», ne deriva che «è importante raccontare la vicenda Andreotti per riconoscere gli “andreottismi” contemporanei, per capire le dinamiche andreottiane che vengono usate quotidianamente ancora oggi». Solo in questo modo si può porre rimedio al grande vulnus che ha permesso il passaggio sotto silenzio delle vicissitudini giudiziarie dell’anziano senatore a vita, ovvero «l’aver dimenticato di insegnare alle giovani generazioni ad essere curiose, a porre le domande giuste». Il provocatorio auspicio di Cavalli è che, per facilitare la presa di coscienza della responsabilità collettiva verso il bene comune, gli argomenti legati alla vita politica diventino “pop”, abituale oggetto delle usuali conversazioni quotidiane. «L’analisi di quegli anni – è l’auspicio di Umberto Ambrosoli – non deve procurare un senso di ingiustizia e frustrazione, ma bensì farci aprire gli occhi, renderci più partecipi. Questa è la sfida che Giulio Andreotti ci consegna. Perché storie come questa siano mattoni con i quali poter costruire un argine che permetta di tenere fuori una simile concezione del potere dal futuro del Paese».

Riccardo Schiavo

BRINDISI: LA PAURA FEROCE (intervista di Cadoinpiedi)

Il momento del dolore dovrebbe essere un momento molto silenzioso in cui un Paese si stringe. Solo successivamente arrivano indagini e analisi. I tempi, invece, sono stati confusi: gli analisti avevano fretta di intervenire e dare un cappello a questa storia

Sabato mattina l’esplosione di Brindisi. La paura, la morte, un Paese intero che rivive sentimenti andati. Oggi, a tre giorni di distanza, che analisi si può fare su quanto accaduto, anche alla luce del caos mediatico… ?

Immediatamente dopo il fatto di Brindisi si è accesa una paura feroce. E si è accesa per l’età della vittima e dei feriti, e poi perché è inevitabile che la scuola abbia un valore simbolico, poiché è il luogo della formazione e delle speranze per il futuro (anche se ci sarebbe poi da aprire una discussione proprio sulla scuola, tanto bistrattata negli ultimi anni e oggi diventata improvvisamente monumento dell’Italia migliore).
Quando si accende questa paura feroce si avverte un bisogno immediato di rassicurazioni, a volte anche spettacolari. Purché immediate.Personalmente credo che questa caccia al colpevole, che cammina su ipotesi basate su poco o niente, non sia del tutto etica e rispettosa.
A mio avviso il momento del dolore dovrebbe essere un momento molto silenzioso. Un momento in cui un intero popolo, un intero Paese si stringe. Solo successivamente arriva il momento delle indagini, e ancora dopo il momento delle analisi. Mi sembra, invece, che in questo caso i tempi si siano un po’ confusi: gli analisti avevano fretta di intervenire, gli opinionisti avevano fretta di dire la loro opinione. E si è cercato di mettere il cappello a questa storia.
Lo stesso giorno dell’esplosione ho visto anche alcune manifestazioni in piazza, a cui ho partecipato, in cui anche la politica credo abbia cercato di strumentalizzare il tutto, quasi a voler rivendicare la paternità del dolore delle persone che avevano deciso di scendere in strada per ricordare. Non dobbiamo dimenticare che in questi casi esiste solo una bandiera: quella della civiltà.

E l’informazione non ha fatto un gran lavoro, cercando di sbattere subito il mostro in prima pagina…

Sì, credo di sì. Non abbiamo visto un’informazione elegante e intellettualmente onesta. Del resto questo è un Paese che ha sempre cercato in qualche modo di delegare tutto, nel bene e nel male. Ci sono sempre stati gli eroi, che sono i protagonisti che incarnano lo spirito salvifico, e poi i cattivi che devono essere riconoscibili e il più possibilmente lontani dalla nostra quotidianità per poterci comunque permettere di sentirci sicuri.

da CADOINPIEDI

Perugia. Il video dell’incontro su ‘Giustizia e Potere’ con Giulio Cavalli e Giancarlo Caselli

IJF2012 / EVENTI / SALA NOTARI INCONTRO CON / 29 APRILE 2012

Giustizia e potere con: Gian Carlo Caselli,Giulio Cavalli

Due libri, L’innocenza di Giulio (Chiarelettere) e Assalto alla Giustizia (Editore Melampo), per capire se l’Italia possa essere un paese normale, “senza più quello stravolgimento dei valori che arriva a presentare come trasgressione il controllo di legalità”. Per capire come mai, finora, ogni stagione politica abbia avuto la propria “innocenza di Giulio”, in cui il potere riesce ad assolvere se stesso anche quando gli indizi e le prove dicono che è colpevole.

Il Fatto Quotidiano sulla campagna #preferenzepulite

Lombardia, appello alle “preferenze pulite” contro il voto mafioso

A pochi giorni dalle elezioni amministrative, i consiglieri regionali Civati (Pd) e Cavalli (Sel) esortano i cittadini a sostenere i propri candidati. Per contrastare il consenso organizzato della criminalità. Gratteri: “La ‘ndrangheta fa politica al nord da decenni”

In Lombardia pochi cittadini esprimono preferenze nel voto amministrativo, mentre i gruppi mafiosi concentrano efficacemente il loro consenso sui candidati “amici”. Così due consiglieri regionali,Giuseppe Civati del Pd e Giulio Cavalli di Sel, in vista delle elezioni di maggio lanciano la campagna “Preferenze pulite” (anche su twitter) e invitano i cittadini a indicare sulla scheda “un cognome di cui fidarsi e a cui affidarsi”. Facendo propria una battaglia lanciata da Nando dalla Chiesa, che nel “decalogo antimafia” illustrato nel suo libro La convergenza mette al punto 8 “Spendi il tuo voto”. Perché, scrive il sociologo, “la mafia cede i suoi pacchetti di voti ai candidati in cambio naturalmente di favori, senza distinzione di partito, anzi in tutti i partiti. Così noi dobbiamo utilizzare il nostro voto in funzione antimafia”.

Il ragionamento parte dai numeri: nei piccoli centri possono bastare poche decine di voti per piazzare il proprio uomo in consiglio comunale, che poi tornerà utile quando si discuteranno appalti, licenze edilizie e altri potenziali business. Basti a pensare che in una grande metropoli come Milano l’ultimo degli eletti siede in consiglio con 461 voti. Il “porcellum mafioso”, insomma, “è garantito dagli argini troppo bassi”. Da qui l’appello perché “i candidati sindaci, la stampa, i partiti, la rete e la società civile alzino la voce sull’uso responsabile della preferenza da esprimere nel seggio”.

Anche a Milano “nelle ultime elezioni amministrative la criminalità organizzata ha avuto gioco facile nell’eleggere un consigliere all’interno delle istituzioni a cui fare riferimento e su cui esercitare le proprie pressioni”, affermano Civati e Cavalli in un comunicato. Nomi e cognomi “stanno nelle ultime operazioni contro le mafie”. E sono tanti. Per lo più non indagati, ma colti dagli investigatori in stretti rapporti con i boss. Per esempio Armando Vagliati, consigliere comunale del Pdl in assiduo contatto con Giulio Lampada, finito in carcere per associazione mafiosa. O quelli citati nelle fitte telefonate nelle quali Carlo Chiriaco, direttore dell’Asl di Pavia oggi sotto processo a Milano per concorso esterno, discuteva su quali cavalli puntare i voti a disposizione di presunti boss “lombardi” come Pino Neri e Cosimo Barranca. E tanti altri casi di consiglieri e assessori di comuni dell’hinterland di Milano che la ‘ndrangheta considera, a torto o a ragione, “a disposizione”.

L’operazione Crimine-Infinito del 13 luglio 2010 “ha messo in luce le connessioni delle cosche con 13 esponenti politici lombardi”, ricordava l’anno scorso Nicola Gratteri, procuratore aggiunto a reggio Calabria.”Sindaci, assessori, consiglieri comunali, provinciali e regionali, deputati e semplici candidati. I media ne hanno parlato per qualche giorno poi niente più”. L’iniziativa di Civati e Cavalli, dice a ilfattoquotidiano.it, va bene ma è “un palliativo”, perché “i candidati puliti possono anche essere specchietti per le allodole infilati tra faccendieri a sostegno di candidati sindaci collusi con la ‘ndrangheta”. Secondo Gratteri, meglio sarebbe “agire a monte, sulla scelta dei candidati, con una legge elettorale diversa e con le primarie”. Il magistrato conferma che il voto mafioso esiste in Lombardia, come in Piemonte e in Liguria, “da decenni”. Le locali di ‘ndrangheta si danno da fare ” a destra come a sinistra”. E’ vero, sono “minoranze, ma qualificate e organizzate in blocco, mentre la società civile va alle urne in ordine sparso”.

Se vedete la mia faccia alla stazione Termini

Non è il caldo o l’effetto della riforma elettorale di ABC, ma la mostra che la fotografa Fiorenza Stefani sta portando in giro per l’Italia (ne parla Repubblica qui): LA LEGALITÀ non è un’idea astratta: ha occhi, bocca e molte facce. Quelle di chi si è battuto e si batte contro la mafia, la camorra, la ‘ndrangheta: sono gli “sguardi liberi” che Fiorenza Stefani ha fotografato attraversando l’Italia dal nord al sud. E che adesso viaggiano per il paese con la mostra “Il mio sguardo libero. Volti per la legalità”, dedicata a Giuseppe D’Avanzo e premiata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano con una medaglia di rappresentanza. Da oggi al 30 aprile l’atrio della stazione Termini di Roma ospiterà quarantuno primi piani in bianco e nero di uomini e donne, noti e meno noti: dallo scrittore che denuncia in tutto il mondo le dinamiche con cui si arricchisce la camorra allo sconosciuto negoziante che decide di non farla arricchire più, e smette di pagare il pizzo. Inaugurata a Napoli lo scorso novembre, la mostra è arrivata a Roma con il patrocinio della Provincia di Roma e di GrandiStazioni. “È stato un lavoro realizzato a poco a poco – spiegava Fiorenza Stefani alla ‘prima’ napoletana – un filo azzurro attraversa la mostra e lega virtualmente la bellezza dei sorrisi che ho incontrato: l’idea che dietro ogni foto ci siano la stessa fiducia e speranza in un paese fatto di gente pulita che lavora per un altro mondo possibile». Sorrisi puliti che accoglieranno, nel prossimo mese, chi scenderà da un treno alla stazione Termini: basterà guardarsi attorno per scoprire quarantuno facce di un’Italia possibile, e migliore.

Le foto sono qui.

Quello che penso sulle indagini

L’ho raccontato oggi agli amici di Radio Onda D’Urto. Almeno per non correre il rischio di fare un favore a Formigoni incastrandosi sull’indagato di turno perdendo la visione complessiva. Qui il video dell’intervista.