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romanzo

La disperazione è un fiume

Fiume Adda, nei pressi di Sondrio. C’è questa storia che è un romanzo da tenere sullo scaffale per tutto quello che ci racconta, una storia che sfugge ai giornali ma che è una fotografia, densissima, di come si fa piccolo l’uomo di fronte al dolore e di come manchino perfino le parole per raccontarlo.

Il primo settembre scorso sul quel tratto di fiume è annegata Hafsa, una ragazzina di quindici anni che stava attraversando il fiume per raggiungere una spiaggetta a nuoto insieme a alcuni amici. Le ricerche delle forze dell’ordine e dei vigili del fuoco si sono concluse da giorni, niente di fatto, nessun corpo è stato trovato. Chissà dov’è finito, con questa prepotenza del fiume, raccontano quelli che qui ci abitano da generazioni e che conoscono bene i pericoli di quell’acqua così infida. Hanno perfino svuotato il bacino di Ardenno ma della ragazza non c’è alcuna traccia.

Il padre di Hafsa quel maledetto primo settembre era in Marocco e da quando è tornato è tutti giorni lì, in riva al fiume. Arriva con la sua auto, parcheggia e cammina per ore, sul bordo e nell’acqua. L’immagine di lui che cammina controcorrente con l’acqua che gli arriva alla vita è la fotografia della disperanza che cerca sollievo anche solo decidendo di non arrendersi, perfino di fronte all’ineluttabile. È la sindone di un genitore che torna tutti i giorni a fare i conti con il suo dolore.

“Ho contattato i carabinieri per dire loro che io continuo a cercarla” ha detto il papà a La Provincia di Sondrio. “Devo ringraziare i ricercatori, che sicuramente hanno fatto un buon lavoro, ma non sono riusciti a trovare mia figlia. E io non posso smettere di cercarla. Mi sto dando da fare per trovarla e spero che ci sia qualcuno che con buona volontà voglia mettersi a disposizione per aiutarmi. Io mi avvicino al fiume, a volte ci entro anche, rimanendo vicino alla riva. So nuotare bene e non voglio correre rischi, ma spero di trovare Hafsa, che magari è incagliata da qualche parte. O spero di essere lì quando il fiume la restituirà. Non posso rimanere a casa ad aspettare”.

Si tuffa ogni giorno, nel suo dolore.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

«Io mi sento di dire grazie a Giulio per questo romanzo (per gli altri due, per i suoi spettacoli per il blog che leggo come un quotidiano) e di suggerirlo, portarlo nelle scuole, perché è un dono d’amore»: Marco Radessi recensisce Carnaio

GIULIO CAVALLI – CARNAIO FANDANGO EDITORE

A DF il pescatore Giovanni Ventimiglia trova un morto all’attaccatura del pontile e poi Fitto, il cane della Lilly, ne annusa un altro sulla spiaggia. In breve, la superficie del mare è un sipario orizzontale che si apre e sfonda del tutto paratie e quinte e sputa sul palcoscenico del paese cadaveri tutti simili per dimensioni e colore della pelle. I corpi occupano ogni spazio calpestabile di DF: nel parlare quotidiano diventano ‘quelli’, per restare separati dagli indigeni.
La città è in preda ad un’invasione di pelle e organi umani: maschi giovani e ugualmente muscolosi rendono necessaria la reazione delle autorità cittadine (sindaco, medico, parroco, commissario). Roma se ne frega delle richieste di aiuto e si decide per l’azione pensata e costruita in casa. Come liberarsi di questi morti? Come trasformare l’operazione di ripristino della normalità in una dimostrazione di ‘città del fare mica del parlare’ e in un tornaconto elettorale? L’imprenditore fatto in casa ha pronto il progetto. E’ necessario governare il tempo, ripristinare la misura giusta, borghese della città (parole della Lilly, mica…). Sì, la trovata c’è ed è geniale. Grazie al sindaco, proprio ‘uno di noi’, e al buon cuore dell’imprenditore locale che finanzia l’impresa, questa comunità di morti restituirà, a costo zero di manodopera, il paese ai ‘vivi’ che li ha (r)accolti, consegnando alla parola tolleranza il più atroce e delirante – ma non per questo incredibile – dei significati. Inizia così – per accelerazioni narrative e immagini iperboliche ben salde sotto il controllo preciso e puntuale dell’autore – l’unico finale possibile per questo paese che ha scelto l’isolamento. .
Il ritmo sostenuto della scrittura e l’acuta vitalità della storia di Giulio Cavalli, rende impietoso il ritratto di DF. Immagini crude e roventi come lapilli ci rimbalzano sotto il naso fino a ustionarci: lasciano il segno e mettono in moto la domanda: ma qual è il limite, a che punto si fermeranno? Fino a quanto oltre è disposto a spingersi il paese (che poi sono i vivi: persone, cittadini, autorità comunali e clericali…) per darsi ragione e autogratificarsi?
A un terzo della lettura mi sono chiesto qual è il gancio che mi tiene appeso a questo libro, al litorale, ai personaggi e al succedersi di fatti tanto deliranti e rocamboleschi. Cosa mi porta a calpestare questi cadaveri e perché non mi sento in un racconto di fantascienza?
Ho proseguito la lettura e la mia memoria ha ‘riportato a galla’ il ricordo dei trecentosessantotto morti e i venti dispersi di Lampedusa; tutti gli altri ‘futuri mancati’, mutati in semplici addendi da sommare; il blocco delle partenze nei ‘porti sicuri’ dell’Africa (aspetto che qualche genio in divisa organizzi, da papà, una colonia estiva per i bambini, in nome della lotta alla povertà (o ai poveri?); i porti chiusi, qui non sbarca più nessuno; Mimmo Lucano; la nave Diciotti della guardia costiera non può attraccare; barche, gommoni ed esseri umani usati come voto di scambio di una battaglia erlettoralnavale, fino alle frittelle solo per bambini italiani regalate al luna park e ‘mica prendiamo una di Palermo’ Altro che DF, Giulio! Ancora un paio di alzate di genio, riusciamo ad andare oltre.
Poi vado ad un incontro sul decreto sicurezza e sento che a gennaio febbraio 2017 gli sbarchi sono stati 9448 (nell’anno 119.000); negli stessi mesi del 2018, 4731 (nell’anno 23.000); nello stesso periodo 2019, 215 e penso a ‘quelli’ fermi nelle zone sicure della Libia. Sento che con cinque milioni circa di immigrati regolari che qui lavorano, pagano le tasse e lasciano alla fine un bel gruzzolo nelle casse dell’Inps, il problemone del momento è stato per settimane come evitare lo sbarco di 47 migranti dalla Sea Watch.
Allora ho detto ok, Carnaio di sicuro non è fantascienza.
Non so se il termine ‘narrativa civile’ sia già in uso, ma questo romanzo (con tema diverso da ‘Santamamma e ‘mio padre in una scatola di scarpe’) gli appartiene, proprio per il filo che lo lega a questi giorni, che ormai sono anni, di crudeltà e legnosità mentale verso un problema che nessun mare, paratia o interesse elettorale trasformato in interesse per gli italiani, (af)fondato sulla paura e la miseria, può fermare.
La mareggiata è pericolosa, mortale, trascina in fondo anche col mare basso.
Io mi sento di dire grazie a Giulio per questo romanzo (per gli altri due, per i suoi spettacoli per il blog che leggo come un quotidiano) e di suggerirlo, portarlo nelle scuole, perché è un dono d’amore, per la sua scrittura esilarante e puntuale, mai ‘scontata’ e senza ‘sconti intellettuali’, dalla schienadritta come il suo teatro. Sono quei momenti in cui mi capita di respirare il profumo di quella pulizia e trasparenza ormai rari che a me personalmente scalda il cuore, tiene allenata la memoria e mi offre la possibilità di un’informazione senza sconti e pelosità.

Marco Radessi

Sempre a proposito di #Carnaio

Ne ho parlato in diretta su Facebook, rispondendo alle vostre domande. Il romanzo è in libreria dall’8 novembre. E io ne sono molto felice. Ecco qua.

Il colloquio di lavoro

(Ripensavo a un testo per questo primo maggio e per questo lavoro piuttosto deteriorato e mi è venuto in mente un capitolo del mio romanzo Santamamma. Ora, non è mai bello autocitare un romanzo, suona sempre come mossa promozionale, eppure è una scena che contiene molte delle cose che ho vissuto io che sono di quella generazione a cavallo tra il “lavoro” come lo intendevano i nostri genitori e poi il “lavoro” come sarebbe diventato. Eccolo qui)

«Carlo Gatti»

«Sì, buongiorno. Eccomi.»

«Titolo di studio?»

«Maturità classica.»

«E basta?»

«Già, sì.»

«Strano, una maturità classica senza università…»

«Ho preferito cominciare a lavorare.»

«Sì. Ma non ha cominciato a lavorare visto che è qui per il colloquio.»

«Ho fatto il benzinaio.»

«Con la maturità classica. Un po’ pochino, eh. Chissà come saranno stati fieri i suoi genitori.»

«Lavoro estivo. Una cosetta così.»

«Ma qui c’è scritto settembre aprile.»

«Intendevo estivo nell’interpretazione. Anche se d’inverno.»

«Ah, nell’interpretazione, pensa te. Speriamo che non interpreti anche di fare finta di lavorare, ahinoi.»

L’ufficio aveva piante finte in tutti gli angoli. Smorte comunque. Almeno una spolverata, pensavo, almeno quella ci vorrebbe. Lui rigirava una penna. Lo insegnano a tutti gli ingiacchettati: tenere qualcosa tra le mani evita la fatica di pensare dove metterle. Trucchetto curioso per chi dovrebbe ribaltare l’economia del mondo, ma tant’è. I colloqui di lavoro hanno tutti un filo comune: la recitazione da parte dell’esaminato di un bisogno ma non troppo, di un entusiasmo ma non troppo, di competenze ma non troppo, di umiltà ma non troppo, di troppa buona educazione e una combinazione d’abiti che non vedi l’ora di dismettere. L’esaminatore, invece, sfoggia l’abilità di esaminare ma non troppo, annusa che tu sia brillante ma che non possa fare ombra, gioca al caporale e tu la truppa e poi diventa servo se entra il capo. Al decimo colloquio di lavoro potresti farne la regia in un teatro da mille posti, disegnarne la radiografia. Che messinscena.

«Suona. Anche.»

«Suonavo. Ho studiato pianoforte fin da piccolo. E violoncello.»

«La mia figlia più piccola va a danza. Le maestre dicono che sia portata. Vedremo un po’. Quindi ha suonato alla Scala?»

«Alla Scala c’è una stagione sinfonica. Non concerti solisti.»

«Ho capito, ho capito. Suonava così. Per passione…»

«Ho studiato. Frequentavo anche il conservatorio.»

«Ah, è diplomato! Allora un giorno la invito a vedere mia figlia ballare così mi dice.»

«Non mi sono diplomato. Mi sono fermato al nono anno.»

«Gatti, Gatti… non è riuscito a finirne una…»

«Ho avuto un lutto in famiglia.»

«Oh, mi spiace.»

Almeno un limite di potabilità, me lo ero imposto. Almeno non farsi sbavare addosso. E il lutto è un jolly: funziona a scuola per l’interrogazione e funziona anche qui. Del resto sono tutti maestrini, questi qui.

«Le spiego. Lei sa di cosa ci occupiamo?»

«Ho preso alcune informazioni. Consulenza aziendale specializzata in logistica, mobilità e ottimizzazione.»

«Ha sfogliato il depliant. Almeno quello l’ha finito.»

«Mi informo sempre. Amo sapere con chi sto andando a parlare.»

«Va bene Gatti, adesso non esageriamo. Quello è il mio lavoro. Comunque: esistiamo dal 1949 e il fondatore era un piccolo padroncino che si occupava di consegne e spedizioni nella zona fino poi a coprire tutto il territorio nazionale. Quando l’azienda è passata di mano al figlio, il signor Monti che poi è quello che la pagherebbe se io decido che lei può andare bene, abbiamo deciso di internazionalizzare l’impresa e oggi siamo tra i leader in Europa nella consulenza per le più importanti aziende logistiche. Trattiamo bancali e container che partono dall’Islanda e viaggiano fino alla Nuova Zelanda. Spedizioni che fanno il giro del mondo. Mi segue?»

È forte questa cosa degli incravattati che ripetono manfrine sulla storia dell’azienda com’è scritta sui volantini. È la recita di natale che si ripropone nella versione adulta, solo che qui a noi tocca fare i parenti commossi.

«Noi ci occupiamo che la spedizione avvenga con tutti i crismi: velocità, cortesia, qualità e produttività, soprattutto. Produttività. Abbiamo due divisioni: slancio e controllo. La figura che cerchiamo è per il reparto di slancio.»

«Sì. Di slancio. Che sarebbe?»

«Molto semplice. Il cliente x dice che deve spedire il bancale y da Roma a Berlino. Lei ha i numeri telefonici dei camionisti che collaborano con noi e il nostro sistema le fornisce un’indicazione di prezzo che noi chiamiamo cuneo. Il suo lavoro è di trovare velocemente quale dei nostri trasportatori è disposto a fare la tratta al prezzo più basso. Sulla differenza tra il cuneo e il prezzo che lei è riuscito ad ottenere le spetta una provvigione del 2,5% fino a un abbassamento del 25%, una provvigione del 5% fino al 50% e addirittura del 10% se il cuneo supera il cinquanta. Sembra difficile ma è molto semplice: quel viaggio dovrebbe costare 10.000 euro ma lei riesce a venderlo a un camionista a 5000 e con una telefonata si  è guadagnato 500 euro puliti. Mica male, eh?»

«Eh.»

«Già.»

«Ma perché slancio?»

«Il nome? Perché questo nome?»

«Sì. Una curiosità.»

«Mi sembra facile. Iniettiamo soldi nel mondo del lavoro, creiamo economia, spostiamo merci, accontentiamo clienti e lavoratori. Se al camionista non arrivasse quella telefonata avrebbe il camion fermo in giardino per farci giocare il figlioletto con il clacson e la leva del cambio. Il suo lavoro è tenere tutte queste persone in circolo, con tutti i loro talenti.»

Qui sorrise con trentadue canini. Era evidente che aveva trovato una formula diversa dalla consuetudine intirizzente e ne era entusiasta. L’avrebbe raccontata ai colleghi, agli amici del golf e alla mogliettina simulatamente fiera che l’avrebbe ascoltato mentre sceglieva il sushi. Da noi, in quegli anni lì, il sushi era un marziano con il salotto aperto solo agli eletti.

«Ma lei capisce, signor Gatti, che la responsabilità del ruolo e il prestigio dell’azienda ci impone di scegliere persone con i giusti talenti.»

Daje, con i talenti. Mi venne in mente zio Paperone. Con i sacchi di talenti.

«Per questo ho bisogno di sapere tutto di lei e di protocollo le farò anche delle domande personali. Dobbiamo avere la certezza di affidare il nostro slancio a persone che insieme a noi vogliano cambiare il mondo, aperte a sfide nuove e capaci di interagire con il futuro dandogli del tu.»

«Ovvio.»

«Mi dica Gatti, perché è interessato ad entrare nel mondo della logistica e della grande distribuzione?»

«Perché amo la mobilità. Ecco.»

«Cioè?»

«Credo che il commercio sia la più alta realizzazione delle capacità umane e essere partecipe di un’organizzazione che riesce a dare del tu a tutti i continenti sia una bella sfida.»

«Perfetto. Molto bravo. Ha già capito il nostro spirito. Siamo esploratori, noi. Ha intenzione di farsi una famiglia?»

«Certamente. Pur rispettando la mia autonomia.»

«Appunto. Perché qui non si può fermare il mondo per un anniversario, lei mi capisce. Questo non è un lavoro…»

«È una missione.»

«Una missione. Esattamente. Vuole avere figli?»

«Per ora no. Una famiglia mi basterebbe. Vorrei prima concentrarmi sulla realizzazione personale

«È molto maturo per essere un musicista della domenica, Gatti. Anche se ha letto il greco e latino.»

«La ringrazio.»

«Qui c’è gente che si è presentata in braghe di tela come lei e ora si porta a casa dodici, quindici, diciotto milioni al mese. Ma bisogna crederci, essere all’altezza dei propri sogni, come dice il nostro capo tutti gli anni alla cena di natale. Mi dica Gatti, ma lei è all’altezza dei suoi sogni?»

«Oh certo.»

«Perché qui ha il dovere di sognare. Non so se mi capisce. Questo non è un lavoro, come dirle, è l’affiliazione a un sogno. Qui non ci sono orari e domeniche perché i nostri collaboratori hanno bisogno di venire in ufficio, hanno bisogno di ribassare il cuneo e sentono la necessità di dimostrare al mondo che è possibile spostare un bancale di mille chilometri a metà del prezzo che la società ci vorrebbe imporre. È un fuoco che senti dentro».

«Capisco bene.»

«Capisce, va bene, ma lei ce l’ha il fuoco? Me lo faccia vedere! Ce l’ha il fuoco dentro?»

Sai che forse ci credono davvero questi a quello che dicono? Francesco una volta mi disse che sì, che secondo lui succede che a forza di riempire di polpettone il tacchino qualche tacchino si convince di essere polpettone. Lui aveva suo padre che vendeva porte blindate, le porte blindate più blindate tra le porte blindate, e quando a casa di Francesco gli zingari gli sono entrati in casa per rubargli pochi spicci, le mozzarelle e cagargli sul divano anche quella volta lì suo papà disse che dovevano essere una banda di professionisti, rapinatori da musei e ministeri, se erano riusciti a debellare la sua porta blindata.

«Io ce l’ho il fuoco. Me lo sento che brucia.»

«Perché questo è il punto di partenza essenziale. Senza quello io e lei non facciamo neanche questo appuntamento, altrimenti. Perché è lei che vuole venire con noi. Ma come lei ce ne sono migliaia. E bisogna scegliere bene chi ci prendiamo in famiglia.»

«Certamente. La sua è una bella responsabilità, mi immagino.»

«Lo può dire forte, Gatti! Lo può scrivere mille volte sulla lavagna! Ma lei cosa vuole fare da grande?»

«Essere in squadra per una grande impresa

«Molto bene.»

«Grazie.»

«Guardi questo test, guardi qui. Deve mettere una croce. È alla guida di un treno e c’è una biforcazione. Se continua sulla sua direzione troverà sei persone sui binari e inevitabilmente sarò costretto a ucciderli però può azionare lo scambio e decidere di prendere l’altra biforcazione dove sui binari c’è un uomo solo. Da che parte va, lei, Gatti?»

«Non è facile.»

«Non c’è tempo Gatti! Non ha troppo tempo! Non si può spegnere lo slancio!»

«Ne uccido uno solo, forse.»

«Ma è colpa sua, così!»

«Beh, non credo che se uccido gli altri sei mi facciano patrono del paese…»

«Sa qual è la risposta giusta?»

«No.»

«La risposta giusta anche se non c’è il quadretto della risposta giusta?»

«Mi dica.»

«La strada più breve. La più breve è la risposta giusta.»

«Ah, ok.»

«Ha qualche domanda?»

«Niente in particolare. Volevo chiedere, nel caso in cui io possa andare bene, l’inquadramento. Lo stipendio.»

«Le do un consiglio Gatti. Al di là di questo nostro incontro e che poi venga o no a lavorare con noi. Le do un consiglio. Parlare di soldi a un colloquio di lavoro è terribilmente inelegante».

«Sì, questo lo so».

«Però ci è ricascato. Pensi lei se io dovessi essere così rozzo da raccontarle che dispendio di soldi, tempo e energie è per noi fornirle una postazione, occuparci del telefono, le cuffie, il computer, i programmi, il suo armadietto, il badge, la mensa. Pensi quanto mi costa impiegare qualche collega esperto, di quelli che hanno lo slancio dentro, per spiegarle come funziona. Pensi a uno della nostra squadra che piuttosto che iniettare economia deve istruire uno appena arrivato. Gliene ho parlato? Forse mi ha sentito che le faccio pesare il fatto che qui da noi sapere sviolinare il pianoforte conta come il due di picche quando briscola è bastoni? È cambiato il mondo per voi giovani. Io vi invidio. Avete di fronte un futuro aperto a tutte le possibilità: la domanda che dovete fare non è «quanto mi pagate» ma «quanto valgo, io?». Io non le do niente, io non voglio essere come una volta il padrone della sua vita, io sono qui perché lei mi dica quanto guadagnerà. Sono io che glielo chiedo. Quanto guadagnerà Gatti?»

«C’è un rimborso spese?»

«Sono duecentocinquantamila lire di anticipo di provvigioni per i primi sei mesi. Volendo vedere c’è anche un milione di computer sulla sua scrivania, ottocentomila lire di media di bolletta telefonica per ogni collaboratore, la cancelleria e soprattuto questa azienda che vede, che il proprietario ha voluto bella e accogliente più di casa sua.»

«Ho capito. Mi è tutto chiaro.»

«Lei mi piace Gatti. Glielo confesso perché mi piace. Magari mi sbaglio anche se in tutta la carriera non mi sono sbagliato mai ma sento il suo fuoco. Mi prendo il rischio, via: se vuole domani ci vediamo alle 7 e iniziamo. Non lo dica a nessuno che l’ho deciso così su due piedi ma ogni tanto voglio fidarmi del mio istinto. Forse si è perso un po’ con la musica e la scuola ma le posso raccontare di un collega che non sapeva nemmeno parlare in italiano e ora è un caporeparto con la Golf aziendale e uno stipendio da favola. Non le dico il nome solo perché sarebbe inelegante ma lei ha quella luce negli occhi. Se lo prende qui da noi il diploma, si laurea in slancio. Eh?”

«Domani però non posso. Domani.»

«E perché?»

«Ho avuto un lutto.»

«Mi dispiace tanto.»

«Però vi chiamo. Vi chiamo io.»

«Va bene Gatti. Va bene. L’aspettiamo. Come una famiglia!»

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/05/01/il-colloquio-di-lavoro/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Ebbene sì, sto scrivendo il mio nuovo romanzo

Devo ammettere che tra l’altro sono anche a buon punto e non mi capita spesso quando scrivo qualcosa che non deve stare entro determinati caratteri, quando mi metto in mente di raccontare senza  vincoli.

Sto scrivendo il mio nuovo romanzo e ogni volta che scrivo un mio libro, soprattutto i romanzi, mi vengono tutti dei tic, delle fissazioni che quando mi guardo da fuori mi faccio quasi tenerezza.

Come adesso. Che sono sulla mia scrivania, dovrei decidere di andare o dormire oppure davvero di finire il capitolo e invece sono qui, a scrivere di niente sul blog.

Niente. Tutto qui.

«Santa Mamma, un libro che non ti aspetti»: la recensione di Articolo21

(di Salvo Ognibene, fonte)

Forse è meglio che mi presenti ma non sono mai stato forte, vi confesso, né con gli inizi e ancora meno con i finali: solitamente finisco dentro qualcosa da cui mi sfilo vigliaccamente nel modo più indolore possibile. Cerco il protagonismo e poi ne soffro. Ogni volta ci ricasco. Deve essere per questa mia ossessione di scrivermi un inizio. Sono Carlo Gatti e sono nato con un buco” Ecco chi è il protagonista di “Santa Mamma”. Un bambino adottato all’età di tre anni che, alla soglia dei 70 anni, racconta la sua storia  con un’indole poetica e narrativa che solo la penna di Giulio Cavalli poteva raccontare. In Santa Mamma ci ricorda il valore degli affetti e non nasconde le debolezze dell’uomo che ogni tanto viene sopraffatto dal peso di una società troppo egoista per vedere al di là del proprio naso.

Un romanzo legato a storie del presente che segue “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015) e “L’innocenza di Giulio. Andreotti e la mafia” (Chiarelettere, 2012). Un libro sull’essere figli e genitori, sull’importanza della scuola e delle insegnanti che ci mettono il cuore, l’anima e la testa. Una storia che stupisce, intima a tal punto da far provare vergogna a chi legge e dove non manca uno schiaffo all’antimafia che “non scende il naso”, che non incide. Restituisce dignità a chi immancabilmente fa bene il proprio lavoro, anche quello del clown Exupéry, che per il solo fatto di far bene il suo mestiere (far ridere la gente) si ritrova a vivere sotto scorta.

Impossibile non notare le diverse coincidenze biografiche tra il protagonista del romanzo ed il suo autore: dalla data del giorno di nascita fino a giungere ad una vita sottoscorta. Dettagli che in una storia densa e avvolgente come questa cadono in secondo piano ma che lasciano il segno.

A Giulio Cavalli il riconoscimento di aver saputo raccontare una storia difficile e che lo toglie da quell’imbarazzo di chi non vorrebbe scrivere un libro perchè “ogni lettore annoiato su una storia che è costata sangue e cuore è una doppia dannazione e io, scusatemi, sono troppo fragile per correre questo doppio rischio”.

E rimane il sorriso,  di chi, nonostante tutto, continua a farcela.

Leggetelo, vi farà bene.

La cognizione del buco: #Santamamma recensito su Gli Stati Generali

Una bella recensione di Silvia Bianchi (che ringrazio):

Santamamma di Giulio Cavalli è un racconto autobiografico di spietata sincerità.
Carlo è nato con un buco: adottato all’età di tre anni, cresce da coccolato figlio unico di una famiglia che s’era messa il cuore in pace sulla possibilità di diventare genitori (…), con il comandamento non scritto di essere grato, senza che fosse chiaro a chi. Nel piccolo paese immaginario di Tarrazza, borgo operaio lungo la via Emilia (sette chilometri e ottocentocinquanta metri dal primo semaforo di Lodi, che per noi era Boston), Carlo viene avviato precocemente allo studio del pianoforte e diventa un disciplinato enfant prodige, vincitore di concorsi e piccola celebrità locale, orgoglio dei suoi genitori adottivi. Ma la musica è per lui un’esperienza estraniante, che vive fuori da sé stesso (ho imparato a uscire scendendomi dal naso per sedermi poco distante a guardarmi), come un po’ tutta la sua vita: per soddisfare le aspettative degli adulti che lo circondano si iscrive al liceo classico, si lascia sedurre dalla sua insegnante di pianoforte, infine si trasferisce a Parma per frequentarvi il Conservatorio

E’ lì, lontano dai genitori, che avvengono le sue prime, timide ribellioni: lascia il pianoforte per il violoncello, a volte salta la scuola per suonare insieme agli amici del suo gruppo blues; finchè, giunto all’ultimo anno di liceo e di Conservatorio, decide di abbandonare gli studi musicali e si fa arrestare per aver dato un pugno a un poliziotto, gettando sua madre nello sconcerto (non è più lui, non so più cosa fare. Ma sarà malato?). L’episodio dell’arresto è un momento di svolta nella vita del protagonista: opponendosi all’arroganza dei poliziotti che si prendono gioco dei suoi pavidi compagni, Carlo per la prima volta dà voce allo scontento che lo abita e al quale non sa trovare un nome, cioè la rabbia per l’ingiustizia fondamentale, il torto radicale che ha subìto, il trauma dell’abbandono; smettendo di essere il figlio ubbidiente di sempre (adesso non faccio più il bravo, adesso basta) denuncia la sua verità esistenziale, il suo sentirsi fuori posto e si appropria, finalmente, della sua vita.

Così Carlo, sostenuto dal suo amico Francesco, rinuncia a una tranquilla sistemazione lavorativa e diventa il clown di un piccolo circo condotto da Tairo e Ana, una coppia di Belgrado che diventa quasi la sua famiglia elettiva. Qui avviene l’equivoco: durante uno spettacolo, Carlo coinvolge inconsapevolmente in una gag don Vito Corleone, boss mafioso latitante seduto tra il pubblico, che viene così riconosciuto e arrestato. Da quel giorno, Carlo deve vivere sotto scorta in un luogo protetto; riceve una medaglia al valore dal Presidente della Repubblica e si trova ben presto imprigionato nel ruolo dell’eroe antimafia, con tanto di agente. Viene invitato a lezioni e convegni, diventa il protagonista di un libro e di un film: vive insomma di nuovo un’esperienza alienante, che lo porta alla depressione (mi svegliavo al mattino con un cane nero che mi scoloriva il mondo). Nella metafora del clown, l’Autore ha trasfigurato la sua esperienza di autore e attore teatrale e nell’episodio della cattura casuale del latitante ha rappresentato il suo impegno civile contro la criminalità organizzata della sua regione; ma questi aspetti così salienti della sua vita pubblica diventano secondari nel dipanarsi della sua vicenda interiore, travasata nella storia del suo personaggio.

Carlo ha toccato il fondo e diventa così inevitabile affrontare, finalmente, il suo buco: una telefonata che evoca la sua famiglia di origine è l’espediente narrativo che induce il protagonista a riflettere sulla sua condizione (dell’essere adottati c’è qualcosa che non sta scritto in nessun trattato di psicologia (…): non sapere di chi sei ti sparge dappertutto. (…) Noi, della nostra razza di bimbi appaltati, (…) nasciamo sporchi e passiamo tutta la vita con lo strofinaccio, (…) tutto il giorno, tutti i giorni, a cercare di candeggiare via un buco). Il suo io, muto e sofferente, si incarna nel racconto nella figura di Giuseppe, il suo fratello di sangue adottato in un’altra famiglia, che da dieci anni si rifiuta di parlare e per questo è stato rinchiuso in una clinica psichiatrica. Carlo viene contattato dal padre adottivo di Giuseppe; ma, prima di incontrarlo, decide di cercare la sua madre naturale.

Fino a quel momento Carlo ha sempre preferito non saperne, adagiandosi in un lutto confortevole e autoassolutorio, finendo per abitare sul marciapiede della mia vita. Ora però il bisogno di colmare il suo buco è diventato troppo grande: così, rintraccia l’indirizzo di lei e lo raggiunge, guidando una jeep in affitto (sbriciolando la diga con cui volevo fermare la mia storia). Ma, anche stavolta, la sua madre naturale è un’assenza (Suonai. Non rispose nessuno) e una delusione da risparmiarsi (lascia perdere. Lascia stare. Se posso darti un consiglio, non ne viene fuori niente di buono da questa storia, gli dice l’impiegata del Comune alla quale ha chiesto informazioni).

Non c’è possibile risarcimento che possa venire da fuori: Carlo deve trovare in sé stesso la forza di guarire. Il primo passo (l’inizio della cura del mio buco) lo ha fatto affrontando il suo passato, vivendo la rabbia verso la madre che lo ha abbandonato e scegliendo, a propria volta, di abbandonarla al suo destino; ora deve imparare a dialogare con il suo vero io, prigioniero del silenzio, personificato dal fratello Giuseppe. Carlo ne incontra prima i genitori – il padre rabbioso, la madre affranta, alter ego dei suoi – e poi va a visitarlo nella clinica in cui è ricoverato.

In un monologo struggente, Carlo racconta al fratello ritrovato la sofferenza per il buco che si porta dietro da sempre (il peccato originale di essere stato lasciato), che lo ha spinto a vivere una vita non sua, per senso di colpa; gli confessa di volergli bene e gli spiega il desiderio di condividere con lui il dolore che li accomuna, di scambiarsi le proprie schegge di vita, di incollarsi l’un l’altro. Giuseppe gli risponde con uno sguardo e all’improvviso tutto per Carlo cambia: uscito dalla stanza di mio fratello mi è tornato il mondo a colori. Decide di dimettersi da eroe, rinunciando alla scorta e al ruolo di simbolo dell’antimafia e torna dal fratello che ricomincia a parlare, rivelandogli un dolore identico al suo: da lì ha inizio la loro ricostruzione.

Il messaggio finale del libro è di pacificazione. Non è colpa nostra, Giuseppe, dice Carlo; e anche: io devo chiedere scusa a un milione di persone. Chissà se Carlo riuscirà a perdonare la madre naturale che lo ha abbandonato, così come ha perdonato quella adottiva che non lo ha saputo capire; di certo, alla fine della storia è consapevole di non essere il solo a convivere con un doloroso buco: ho maturato l’idea che davvero sia importante essere gentili con tutte le persone che incontriamo perché ognuno sta combattendo la sua battaglia personale.

Lo stile di Cavalli, brutale e funambolico, impedisce al lettore di prendere le distanze dalla storia e lo costringe a camminare sul filo con lui, sentendo la vertigine di quella voragine interiore squadernata in ogni pagina del racconto. Per questo, giunti all’ultima riga ci si sente stanchi e sollevati, turbati e insieme rinfrancati: come se, tenuti per mano da lui, ci fossimo avvicinati abbastanza per sbirciare dentro al nostro personale buco e avessimo imparato il sentiero per non caderci dentro

(fonte)

Gli ultimi. E diseguali.

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Sono i protagonisti del mio prossimo spettacolo. Così. Passavo di qui e avevo pensato di dirvelo. E ve ne parlerò con calma.

Anche perché intanto sto continuando compulsivamente a scrivere e finire il mio secondo romanzo. Nascerà tra poco.

E così, insomma. Era per dire. Anzi, per dirvi.
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