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2015

Quel patrimonio storico di fiducia polverizzato dalle banche italiane

61zxBx-tlcL._SX320_BO1,204,203,200_Cari banchieri andatevi rileggere la storia. Imparerete che voi esistete solo perché sussiste la fiducia. È la stessa parola «credito» a testimoniarlo: si tratta del participio passato del verbo latino «credere», verbo che non vuol dire solo «ritenere» o «avere la persuasione che una cosa sia tale quale appare in sé stessa o quale ci è detta da altri», come recita il vocabolario Treccani.
In latino nella forma intransitiva che regge il dativo, credere significa «dare credito a, aver fiducia in, fidarsi di». Capito? Credito vuol dire «fidarsi di» (è la stessa radice della parola credenza, in questo caso però significava che bisognava aver fiducia che i cibi in essa conservati non fossero stati nel frattempo avvelenati). Istituto di credito letteralmente vorrebbe dire istituto del quale fidarsi, al quale accordare la propria. Una parolina, fiducia, che rincorre piuttosto spesso in questi giorni calamitosi per le banche italiane.

Cari banchieri, fareste bene a ricordare le vostre radici. La finanza moderna è nata proprio qui, in Italia, negli stessi luoghi dove opera l’Etruria, una delle banche che avete mandato a rotoli. Hanno cominciato i genovesi, ma poi sono stati i toscani a inventarsi la banca come la conosciamo oggi: i Ricciardi a Lucca nel 1100, i Bonsignori a Siena nel 1200, i Bardi e i Peruzzi prima e i Medici poi a Firenze tra 1300 e 1400. Piemontesi ed emiliani andavano in giro per tutta Europa a esercitare il prestito su pegno. Li chiamavano «lombardi» perché tutti gli italiani erano identificati con i lombardi, pure se non lo erano e arrivavano da altri posti. Tutti si fidavano di loro, anche se li disprezzavano (tra XV e XVI secolo gli ebrei avrebbero via via sostituito i lombardi, sia nella funzione di prestatori, sia nell’esecrazione generale).
Tutto il ramificatissimo sistema finanziario messo in piedi dagli italiani tra medioevo e prima età moderna si basava solo ed esclusivamente sul concetto di fiducia. Si davano i propri soldi al banchiere perché ci si fidava di lui, il banchiere prestava soldi al cliente perché era ragionevolmente certo che gli sarebbero stati restituiti (li prestava facendo finta di cambiare, per aggirare i divieti ecclesiastici sull’usura, da ciò cambiale).
Il banchiere è onesto per definizione e le sue scritture fanno testo in tribunale: su questa base le transazioni avvengono a voce – la «ditta di banco», da cui ditta – l’unica registrazione scritta è quella effettuata dal banchiere e in caso di contestazioni legali assume valore di prova. Il sistema regge per qualche centinaio d’anni e la parola dei mercanti e dei banchieri italiani diventa addirittura sinonimo di affidabilità e onestà.

Alessandro Marzo Magno ripercorre la memoria storica delle banche italiane, che erano ben altra cosa rispetto ad oggi. Vale la pena leggerlo qui. E forse varrebbe la pena leggere anche il suo bel libro L’invenzione dei soldi. Quando la finanza parlava italiano

A proposito di ENI. (Per fortuna c’è Valigia Blu)

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Per tutti quelli che hanno considerato una decina di tweet perfettamente a tempo dell’ENI (mentre Report parlava dell’azienda) un “bel dibattito” ecco che Valigia Blu, al solito, si mette pancia a terra ad analizzare i contenuti piuttosto che il “costume” in un articolo da leggere e conservare:

Noi abbiamo deciso di porre al centro del nostro lavoro la complessità degli argomenti che non possono di certo ridursi a #EnivsReport. La vicenda del blocco OPL 245, ad esempio, non nasce con Report e non è un “litigio” tra un programma d’inchiesta giornalistica e un colosso petrolifero. La partita inizia molto prima, circa 20 anni fa, e si è giocata (e si continua a giocare) su più campi: in Nigeria, negli Stati Uniti, a Parigi, a Londra, a Napoli e a Milano. Tanti sono anche i soggetti coinvolti in una storia intricata tra rapporti di affari, di amicizia e potere. Una questione complessa, affrontata negli anni passati da alcuni dei migliori giornalisti italiani d’inchiesta, dove per ora non c’è un’unica verità accertata da verificare con un lavoro di fact-checking, ma piuttosto un lavoro di analisi che tenga conto di tutte le questioni emerse in questi anni per provare a mappare e comprendere i contesti in cui si dipana. Un lavoro, il nostro, che non vuole e non può essere un’inchiesta, ma che cerca appunto di approfondire, tramite l’utilizzo di documenti ufficiali e articoli dettagliati, i passaggi compressi dal racconto televisivo o trasformati in comunicati stampa da un’azienda direttamente interessata:

Il resto è qui.

Ma i 180 milioni di euro che la Lega ha preso (e speso indebitamente) da Roma ladrona?

(Un pezzo di Francesco Giurato e Antonio Pitoni per Il Fatto Quotidiano)

Dalla Lega Lombarda alla Lega Nord, transitando dalla prima alla seconda repubblica a suon di miliardi (di lire) prima e milioni (di euro) poi generosamente elargiti dallo Stato. Dal 1988 al 2013sono finiti nelle casse del partito fondato da Umberto Bossi e oggi guidato da Matteo Salvini, dopo la parentesi di Roberto Maroni, 179 milioni 961 mila. L’equivalente di 348 miliardi 453 milioni 826 mila lire. Una cuccagna, sotto forma di finanziamento pubblico e rimborsi elettorali, durata oltre un quarto di secolo. Ma nonostante l’ingente flusso di denaro versato nei conti della Lega oggi il piatto piange. Ne sanno qualcosa i 71 dipendenti messi solo qualche mese fa gentilmente alla porta dal Carroccio. Sorte condivisa anche dai giornalisti de “La Padania”, storico organo ufficiale del partito, che ha chiuso i battenti a novembre dell’anno scorso non prima, però, di aver incassato oltre 60 milioni di euro in 17 anni. Insomma, almeno per ora, la crisi la pagano soprattutto i dipendenti. In attesa che la magistratura faccia piena luce anche su altre responsabilità. A cominciare da quelle relative allo scandalo della distrazione dei rimborsi elettorali, che l’ex amministratore della Lega Francesco Belsito avrebbe utilizzato in parte per acquistare diamanti, finanziare investimenti tra Cipro e la Tanzania  e per comprare, secondo l’accusa, perfino una laurea in Albania al figlio prediletto del Senatùr, Renzo Bossi, detto il Trota. Vicenda sulla quale pendono due procedimenti penali, uno a Milano e l’altro a Genova.

MANNA LOMBARDA Fondata nel 1982 da Umberto Bossi, è alle politiche del 1987 che la Lega Lombarda, precursore della Lega Nord, conquista i primi due seggi in Parlamento. E nel 1988, anno per altro di elezioni amministrative, inizia a beneficiare del finanziamento pubblico: 128 milioni di lire (66 mila euro). Un inizio soft prima del balzo oltre la soglia del miliardo già nel 1989, quando riesce a spedire anche due eurodeputati a Strasburgo: 1,03 miliardi del vecchio conio (536 mila euro) di cui 906 milioni proprio come rimborso per le spese elettorali sostenute per le elezioni europee. Somma che sale a 1,8 miliardi lire (962 mila euro) nel 1990, per poi scendere a 162 milioni (83 mila euro) nel 1991 alla vigilia di Mani Pulite. Nel 1992 la Lega Lombarda, diventata proprio in quell’anno Lega Nord, piazza in Parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori. E il finanziamento pubblico lievita a 2,7 miliardi di lire (1,4 milioni di euro) prima di schizzare, l’anno successivo, a 7,1 miliardi (3,7 milioni di euro). Siamo nel 1993: sulla scia degli scandali di tangentopoli, con un referendum plebiscitario (il 90,3% dei consensi) gli italiani abrogano il finanziamento pubblico ai partiti. Che si adoperano immediatamente per aggirare il verdetto popolare, introducendo il nuovo meccanismo del fondo per le spese elettorale (1.600 lire per ogni cittadino italiano) da spartirsi in base ai voti ottenuti. Un sistema che resterà in vigore fino al 1997 e che consentirà alla Lega di incassare 11,8 miliardi di lire (6,1 milioni di euro) nel 1994, anno di elezioni politiche che fruttano al Carroccio, grazie all’alleanza con Forza Italia, una pattuglia parlamentare di 117 deputati e 60 senatori. Nel 1995 entrano in cassa 3,7 miliardi (1,9 milioni di euro) e altri 10 miliardi (5,2 milioni di euro) nel 1996.

RIMBORSI D’ORO L’anno successivo, nuovo maquillage per il sistema di calcolo dei finanziamenti elettorali. Arriva «la contribuzione volontaria ai movimenti o partiti politici», che lascia ai contribuenti la possibilità di destinare il 4 per mille dell’Irpef(Imposta sul reddito delle persone fisiche) al finanziamento di partiti e movimenti politici fino ad un massimo di 110 miliardi di lire (56,8 milioni di euro). Non solo, per il 1997, una norma transitoria ingrossa forfetariamente a 160 miliardi di lire (82,6 milioni di euro) la torta per l’anno in corso. E, proprio per il ’97, per la Lega arrivano 14,8 miliardi di lire (7,6 milioni di euro) che scendono però a 10,6 (5,5 milioni di euro) iscritti a bilancio nel 1998. Un campanello d’allarme che suggerisce ai partiti l’ennesimoblitz normativo che, puntualmente, arriva nel 1999: via il 4 per mille, arrivano i rimborsi elettorali (che entreranno in vigore dal 2001). In pratica, il totale ripristino del vecchio finanziamento pubblico abolito dal referendum del 1993 sotto mentite spoglie: contributo fisso di 4.000 lire per abitante e ben 5 diversi fondi (per le elezioni della Camera, del Senato, del Parlamento Europeo, dei Consigli regionali, e per i referendum) ai quali i partiti potranno attingere. Con un paletto: l’erogazione si interrompe in caso di fine anticipata della legislatura.

ELEZIONI, CHE CUCCAGNA Intanto, sempre nel 1999, per la Lega arriva un assegno da 7,6 miliardi di lire (3,9 milioni di euro), cui se ne aggiungono altri due da 8,7 miliardi (4,5 milioni di euro) nel 2000 e nel 2001. E’ l’ultimo anno della lira che, dal 2002, lascia il posto all’euro. E, come per effetto dell’inflazione, il contributo pubblico si adegua alla nuova valuta: da 4.000 lire a 5 euro, un euro per ogni voto ottenuto per ogni anno di legislatura, da corrispondere in 5 rate annuali. E per la Lega, tornata di nuovo al governo nel 2001, è un’escalation senza sosta: 3,6 milioni di euro nel 2002, 4,2 nel 2003, 6,5 nel 2004 e 8,9 nel 2005. Una corsa che non si arresta nemmeno nel 2006, quando il centrodestra viene battuto alle politiche per la seconda volta dal centrosinistra guidato da Romano Prodi: nonostante la sconfitta, il Carroccio incassa 9,5 milioni e altri 9,6 nel 2007. Niente a confronto della cuccagna che inizierà nel 2008, quando nelle casse delle camicie verdi finiscono la bellezza di 17,1 milioni di euro.

CARROCCIO AL VERDE E’ l’effetto moltiplicatore di un decreto voluto dal governo Berlusconi in base al quale l’erogazione dei rimborsi elettorali è dovuta per tutti i 5 anni di legislatura, anche in caso discioglimento anticipato delle Camere. Proprio a partire dal 2008, quindi, i partiti iniziano a percepire un doppio rimborso, incassando contemporaneamente i ratei annuali della XV e della XVI legislatura. Nel 2009 il partito di Bossi sale così a 18,4 milioni per toccare il record storico con i 22,5 milioni del 2010. Anno in cui, sempre il governo Berlusconi, abrogherà il precedente decreto ponendo fine allo scandalo del doppio rimborso. E anche i conti della Lega ne risentiranno: 17,6 milioni nel 2011. La cuccagna finisce nel 2012 quando il governo Monti taglia il fondo per i rimborsi elettorali del 50%. Poi la spallata finale inferta dall’esecutivo di Enrico Letta che fissa al 2017 l’ultimo anno di erogazione dei rimborsi elettorali prima della definitiva scomparsa. Per il Carroccio c’è ancora tempo per incassare 8,8 milioni nel 2012 e 6,5 nel 2013. Mentre “La Padania” chiude i battenti e i dipendenti finiscono in cassa integrazione.

FINANZIAMENTI E RIMBORSI ELETTORALI ALLA LEGA NORD

(1988-2013)

1988 € 66.249,25 (128.276.429 lire)
1989 € 536.646,25 (1.039.092.041 lire)
1990 € 962.919,55 (1.864.472.246 lire)
1991 € 83.903,87 (162.460.547 lire)
1992 € 1.416.991,83 (2.743.678.776 lire)
1993 € 3.707.939,87 (7.179.572.723 lire)
1994 € 6.125.180,49 (11.860.003.225 lire)
1995 € 1.915.697,39 (3.709.307.393 lire)
1996 € 5.207.659,00 (10.083.433.932 lire)
1997 € 7.648.834,36 (14.810.208.519 lire)
1998 € 5.518.448,11 (10.685.205.533 lire)
1999 € 3.947.619,62 (7.643.657.442 lire)
2000 € 4.539.118,41 (8.788.958.807 lire)
2001 € 4.511.422,19 (8.735.332.610)
2002 € 3.693.849,60
2003 € 4.284.061,62
2004 € 6.515.891,41
2005 € 8.918.628,37
2006 € 9.533.054,95
2007 € 9.605.470,43
2008 € 17.184.833,91
2009 € 18.498.092,86
2010 € 22.506.486.93
2011 € 17.613.520,09
2012 € 8.884.218,85
2013 € 6.534.643,57

TOTALE 179.961.382,78

E intanto Cicchitto (sì proprio lui…)

cicchitto-ncd-prende-distanze-berlusconi-salvini.pngEra ovvio che avvenisse e, segnatelo, sarà sempre peggio: se al governo nazionale decidi di affidarti alla stampella del NCD (partito ormai esistente solo sulla carta intestata del Parlamento, più che vivo davvero in giro) inevitabilmente le ricadute sulle amministrative possono fomentare contraccolpi pericolosi. Così oggi Fabrizio Cicchitto (parlamentare NCD, quindi uomo di maggioranza e di governo nazionale) comincia la sua opera di lenta erosione con un intervento sull’Huffington Post che suona come un avvertimento:

«Lasciamo oggi da parte i disastri in corso nel centrodestra e vediamo alcune cose che riguardano Renzi, il suo partito e le scelte politiche in vista delle elezioni. Allora quasi ovunque Sel e Sinistra Italiana presentano liste non distinte ma contrarie frontalmente al Pd. In compenso però la minoranza dem pone ovunque preclusioni ad intese con Ncd e le forze di centro.

Non a caso Sala, che è in campagna elettorale interna al Pd, sembra subito accettare questa preclusione ma si tratta di una linea doppiamente suicida per Renzi al quale infatti sarebbe inibito allearsi negli enti locali con le forze politiche che invece sono decisive per la maggioranza del suo governo e per portarlo fino al 2018. Ora capiamo che questa sia la linea della minoranza dem – che in effetti vorrebbe vedere Renzi appeso a un lampione – ma non possiamo credere che questa possa essere la linea della maggioranza di quel partito.»

E questo è solo l’inizio. Vedrete.

Le parole chiare di Pierfrancesco Majorino

Un’intervista al candidato alle primarie Pierfrancesco Majorino che vale la pena leggere:

Intervista_Repubblica_2015_12_23-320x320Sarebbe il candidato ideale di Sel, se il partito non le chiedesse di fare spazio a Balzani.

«La rete che mi sostiene è fatta da gente del Pd, di Sel, dei comitati, senza tessera, e non certo dei salotti. Per me è un’emozione avere il sostegno di Massimo Recalcati come di Gianluca, operatore sociale di Quarto Oggiaro. Se parliamo di Sel, due dei sette assessori pro-Sala sono proprio di Sel».

Quanti continuano a chiederle di ritirarsi?

«È da mesi che mi propongono di tutto per non farmi candidare. Ma io vado avanti con decisione. Per altro, se mi ritirassi io non ci sarebbe comunque soltanto Balzani, ma si presenterebbe l’ex vicesindaco Ada Lucia De Cesaris. Quello che non capisco è questa idea delle primarie anti-Sala, invece che per un progetto».

Ma non è che, come sostengono i maligni, non si ritira perché ha fatto un accordo con Sala?

«È assurdo solo pensarlo: io mi candido per batterlo, non per fare accordi. Semmai a Sala dico che non può cavarsela con due battute su Expo, visto che i vertici della società sono stati pesantemente coinvolti dalle inchieste. Se perderò darò una mano al centrosinistra e al vincitore, chiunque sia. Ma se vinco mi aspetto la stessa correttezza dagli altri».

Il resto è qui.

Le parole chiare di Giuseppe Sala

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Il candidato sindaco alle primarie del centrosinistra Giuseppe Sala in un’intervista ha dichiarato che non accetterà in campagna elettorale finanziamenti da aziende che hanno lavorato a Expo e che non ci sarà nessun allargamento a NCD.

Siamo agli inizi, per ora sono promesse e basta. Ma sono intelligenti. Volevo dirvelo. Io che di certo non sono un suo fan.

A proposito di Bruno Caccia.

header_Caccia-300x225Non si può che essere felici per la (bella) svolta che hanno preso le indagini sull’omicidio di Bruno Caccia e anche se sono passati troppi anni (ma con una vittima di mafia sono troppi anche i primi cinque minuti, se ci pensate) credo che questo risultato sia una soddisfazione per la famiglia, per gli ex colleghi e per i tanti che ne ricordano quotidianamente il nome. E sono proprio tanti, a partire dai meravigliosi ragazzi che abitano tutti i giorni con l’impegno e il lavoro Cascina Caccia. Se passate dalle loro parti passateli a salutare e a vedere che bella forma ha preso quel cascinale che apparteneva all’immondo mandante di quell’omicidio. Bruno Caccia è stato tra i primi a vedere l’odiosa ‘ndrangheta (ne ho scritto per Fanpage qui) e che se ne parli può solo fare bene a questa nazione. Certo l’arresto di ieri è solo il primo passo, come raccontavo oggi agli amici di RadioPopolare (il podcast è qui).

E per questo il mio buongiorno stamattina per Left l’abbiamo voluto dedicare a lui e al suo sorriso, qui.

Il romanzo civile di Giulio Cavalli e le scelte che sono scelte (di Salvo Ognibene)

12122542_868262876576517_1348074369069251953_nQui ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero, abitare in mezzo non è possibile. Può succedere che tu non te ne accorga, ma sei già o sporco di bianco o sporco di nero.” E’ la quarta di copertina di “Mio padre in una scatola di scarpe” di Giulio Cavalli edito da Rizzoli. Un “romanzo civile” che a tratti ricorda “passione di Michele” di Giuseppe Fava. La narrazione, il ritmo delle parole, la scrittura elegante e mai banale sono solo alcuni dei punti di contatto. Poi sì, il nome del protagonista è uguale per entrambi ma la similitudine esiste nel ricordo di chi scrive e che a tratti si manifesta nelle pagine del libro. Michele Landa è il nome del protagonista. Un nome, che potrebbe essere anche un altro, se all’origine della storia narrata con il solito piglio da cantastorie da Giulio Cavalli, non vi fosse la realtà. Quella di tutti i giorni e quella vissuta da una persona perbene che vuole godersi la pensione, la famiglia e l’orto di casa, a Mondragone. Quella vita che ti toglie gli amici, che cambiano o volano via, e che ti regala la dolcezza di una compagna e di una famiglia normale.

Da metà libro in poi le pagine tengono attaccato il lettore senza lasciarsi mollare mai. Cresce l’attenzione, i nomi iniziano ad avere un volto e sale anche il magone su per la pancia. E’ vivo e te lo porti dentro. Una brutta storia che regala bellezza e scelte che sono scelte. Cavalli racconta di un paese indifeso, dove perfino la Stato ha i colori ingrigiti di Mondragone, ricordandoci che le urla e i grandi gesti non fanno la rivoluzione ma che basta poco, pochissimo, interessandoci di quello che avviene anche fuori del giardino di casa per cambiare una piccola città o un grande paese.

Qui per acquistare il libro

https://www.giuliocavalli.net/bottega/?product=mio-padre-in-una-scatola-da-scarpe

Tutti amici degli amici di Renzi

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Lo so, l’ho già scritto ma lo ripeto. Perché ogni volta che qualcuno arriva al potere, alla presidenza del consiglio o comunque lì da quelle parti improvvisamente sembra che tutti quelli del suo paese, del suo rione, della sua cerchia di amici, con il suo stesso accento siano i migliori onnipresenti dappertutto?

Ma davvero non siamo ancora stanchi dei servi sciocchi dopo anni di prostituzione (a volte nel senso più pieno della parola) con Berlusconi; incapaci di riconoscere un’inquietante emersione di classe dirigente improvvisamente così prossima, vicina vicina da sembrare appena uscita da un’aperitivo consumato insieme prima di andarsene a casa?

Come esiste merito se partiamo dal presupposto che il migliore in qualche ruolo sia tra la microscopica cerchia dei conoscenti, in un cerchio così piccolo rispetto al Paese e al merito?

Ciondolano con questa collana di amici e aglio e vorrebbero essere incoronati saggi mentre sono megere travestite da brillanti paninari fuori tempo massimo.

La speranza senza speranza

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Che colore ha la speranza oggi? Me lo chiedevo stamattina seduto nei camerini di uno dei circhi storici d’Italia, insieme ad un’icona del teatro, del cinema e poi del circo. Discutevamo del pubblico che ormai raggiunge al massimo un divertimento amaro. Lei che aveva cominciato da bambina, come clown in miniatura con il nome d’arte di «Lacrima», e mi raccontava come fosse legge del teatro e del cinema e dello spettacolo tutto la cultura del lavoro. «Lavoro più degli altri, meglio degli altri, poi magari mi appoggio su un barlume di talento che mi è caduto in tasca per sorte e arrivo al risultato.  Come sarebbe tutto più semplice, ho pensato, se davvero ci fosse non dico la meritocrazia che ormai è parola talmente vuota da essere buona per una statuetta da presepe, ma almeno il lavoro, almeno quello», si pensava.

Perché ci avevano fatto credere che il modello capitalista funzionasse proprio perché premia il lavoro, ci avevano detto. L’hanno raccontato ai nostri genitori e anche ai nostri nonni prima di loro e si erano convinti davvero che un sistema che premiasse la fatica sarebbe stato alleno giusto. Giusto come sono giunte le cose perché ti danno di speranza di riuscire: un Paese giusto, un processo giusto, una rete sociale giusta, una pensione giusta, una sanità giusta, una giusta classe dirigente.

Risultato? Fallito. Perché davvero bighellonando in giro per l’Italia tra scuole e palcoscenici mi succede sempre più spesso di notare nel viso, quelli giovani, di chi ti chiede che occhi abbia la speranza, ecco, mi capita sempre più spesso di parlare di speranza come si parla di animali selvatici ad un bambino metropolitano. Con il gusto per lo sconosciuto e con tutta la fatica di cogliere la speranza per davvero.

Ma esattamente quando abbiamo perso la speranza? Dico, quando ci siamo accorti che continuavamo a citarla ma non ce n’era più in giro? Perché mi è rimasta questa domanda qui, fissa in testa, da stamattina al circo. Quando ci hanno rifilato questa speranza senza speranza, prodotta in serie come le possibilità che in realtà non sono possibili?