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Arte

Giulio cavalli intervistato da La Provincia di Como sullo spettacolo ‘A casa loro’

Giulio Cavalli: «Violenza sui migranti, la colpa collettiva»

Sara Cerrato

L’attualità più drammatica e discussa irromperà, questa sera, martedì 28 novembre, sul palco del Teatro Sociale di Como. Alle 20.30, per il ciclo Prosa Off, va in scena “A casa loro”, un monologo teatrale che Giulio Cavalli, giornalista, scrittore, autore e attore teatrale, ha scritto con Nello Scavo, giornalista di “Avvenire”, nonché reporter internazionale e cronista giudiziario. 

Lo spettacolo è stato scelto anche come primo step dell’abbonamento Under30, pensato per il pubblico tra i 18 e i 30 anni, con spettacoli eterogenei, attorno ai quali sono costruite serate ad hoc. In questo caso, l’appuntamento collaterale si terrà alle 18.30, in collaborazione con FuoriFuoco, collettivo giornalistico composto da ragazze e ragazzi under30 di Como e provincia. Essi presenteranno un proprio lavoro di indagine sul tema della migrazione, nel nostro territorio. (I biglietti per lo spettacolo costano 20 euro più prevendita. Info: 031/270170 e www.teatosocialecomo.it). Con Giulio Cavalli, da sempre impegnato in un teatro che dia voce ai temi dell’oggi, anticipiamo i temi del monologo.

Cavalli, lo spettacolo che la vedrà in scena, stasera, con il chitarrista Federico Rama, tratta il tema delle migrazioni. Da che punto di vista?

Abbiamo scelto di concentrarci sulle condizioni in cui vengono detenuti, illegalmente (lo sanciscono tutte le organizzazioni internazionali), i migranti in Libia. È la famosa “esternalizzazione delle frontiere” che è tornata in voga anche ultimamente con gli accordi tra Italia e Tunisia e successivamente, tra Italia e Albania. A me e a Nello interessava raccontare cosa significhi veramente “a casa loro”, per avere contezza che si tratta di violenza sistemica compiuta da persone pagate e addestrate da noi e dall’Unione europea. La colpa è collettiva.

Tutto si basa su un’inchiesta giornalistica.

Sì. Noi abbiamo scelto di non dare un giudizio ad una vicenda che è pre – politica. Credo che chiunque possa essere d’accordo sul fatto che questi migranti abbiano il diritto a non essere imprigionati, a non essere vittime di torture e violenze, a non essere uccisi. Persone di sensibilità politica diversa, anche contrapposta, non possono non riconoscere come ingiusta questa situazione, che nega i diritti fondamentali dell’uomo. 

Che tipo di linguaggio avete utilizzato?

Alla base c’è il preziosissimo lavoro di Nello Scavo che propone un giornalismo di qualità che vuole essere testimonianza. Inoltre tra i materiali per la costruzione del monologo abbiamo inserito le voci di molti migranti che Nello ha incontrato. Il registro linguistico è quello del teatro civile. 

Possiamo considerare il tema divisivo?

In realtà, no, almeno per quanto riguarda lo spettacolo. Questo allestimento ha infatti preso una piega inaspettata. Abbiamo avuto il privilegio di “costruire” un circuito teatrale che non esiste e che passa dalle sale comunali alle chiese. Il pubblico è eterogeneo e proviene da mondi diversi che difficilmente, altrimenti, si toccherebbero. Proprio perché proponiamo una questione “pre – politica”, come dicevo, suscitiamo reazioni concordi. Mi è capitato di parlare con gente che non vuole sentir neppure parlare di migranti, non li vuole qui. Eppure tutti comprendono che l’orrore dei campi di detenzione deve finire. Si pretende che l’Italia faccia la sua parte per il salvataggio di queste persone, Mi sembra una vittoria. Eppure questa semplice constatazione viene un po’ furbescamente nascosta dalla politica. 

Crede che ci sia qualche speranza, perché le cose possano cambiare in meglio?

Le vicende a cui assistiamo non fanno ben sperare. Io confido però nella attuazione rigorosa delle convenzioni internazionali.

Il teatro è importante per mettere sotto gli occhi dello spettatore fatti che si vorrebbero ignorare?

Il teatro è sempre una voce importante anche se non è la sede per cambiare il corso degli eventi. Quello spetta, ovviamente, alla politica. 

Un’ultima domanda sul suo ultimo libro, in uscita: “I mangiafemmine”. Un romanzo sul tema, purtroppo, attuale del femminicidio?

Non ho scritto sul femminicidio in senso stretto. Come già in “Carnaio” mi interessava mostrare come sia facile scivolare nell’orrore. È un romanzo iperrealista e disturbante che vuole costringere a pensare.

https://www.laprovinciadicomo.it/stories/premium/cultura-e-spettacoli/giulio-cavalli-violenza-sui-migranti-colpa-collettiva-o_1845167_11/

Su “I mangiafemmine” Concita De Gregorio per la Repubblica

E’ uscito il nuovo libro di Giulio Cavalli, autore di “Carnaio”. (“Carnaio”, nel 2019, ha vinto il Campiello Giuria dei letterati, è molto tradotto per l’estero. Cavalli, 1977, vive sotto scorta per il suo impegno contro le mafie). Il nuovo libro s’intitola “I mangiafemmine”, l’ho letto in una sera. Anche questo è ambientato in un tempo e in un luogo immaginari, un leggerissimo futuro. Valerio Corti, candidato ultraconservatore, è in campagna elettorale mentre il paese è devastato da un’epidemia di violenza contro le donne, a migliaia morte ammazzate.

Il candidato premier lo trova un fatto di natura. Pensa difatti che sia ora di abbattere ipocrisie e teoremi fallaci. Se si vuole costruire una Patria che si regga sulla famiglia la donna deve accettare il suo posto nel mondo e non rompere l’ordine naturale delle cose. Il rispetto della donna – dice – non consiste nell’illuderla di poter accedere a ruoli che non le competono. La missione della donna è il dolore. Le donne soppresse dai loro mariti sono un argine al populismo di genere che ha intossicato il vivere civile. L’omicidio è una legittima difesa di uomini che si sentono scavalcati, traditi, lasciati, oppressi sviliti e malserviti.

E’ ora di un grande movimento specista che ripristini la verità storica: il capo famiglia ha l’obbligo, con tutti i mezzi, di proteggere se stesso e i propri figli dalle isterie. Corti è dunque pronto a sostenere la riforma più rivoluzionaria della storia recente. Visto che il femminicidio è strutturale, ineliminabile la soluzione è solo una: legalizzarlo. Il problema, difatti, non sono gli uomini che stuprano e uccidono ma tutti quelli che temono di aver prima o poi bisogno di farlo. E ora: votate.

Fahrenheit Rai Radio 3 – IL LIBRO DEL GIORNO | GIULIO CAVALLI, I MANGIAFEMMINE

A un passo dalle elezioni, la placida vittoria di Valerio Corti – uomo forte dei Conservatori – è minata da una vera e propria epidemia di donne, di donne ammazzate a casa, dai mariti, dagli amanti, dagli ex fidanzati, donne fatte a pezzi da compagni devoti. Ma il candidato premier non intende occuparsene, perché le donne sono sempre morte, perché le donne per bene, normali, le madri di famiglia, le fidanzate discrete non corrono rischi. Oltre ogni strategia politica però pare che la strada della sua incoronazione a presidente del consiglio sia lastricata di sangue, con l’opinione pubblica che chiede conto e le poche voci delle attiviste che gridano al massacro. Ma c’è davvero un’epidemia di donne? C’è davvero un problema? E che cosa succede quando la politica, un’intera classe politica, uno Stato, il problema non sono in grado di risolverlo?

La mia intervista è qui:

https://www.raiplaysound.it/audio/2023/11/Fahrenheit-del-24112023-5a523ebe-3458-4fa6-bf15-af814d586c78.html

L’intervento su La Stampa: Cavalli, noi uomini lupi. Dicono: “Non generalizzare”. Ma essere maschi da anni significa “sapersi imporre”

Ma chi è il lupo? Dicono, non generalizzare. Io sicuramente sono un lupo. Spieghiamoci. Sono nato nel tempo in cui la mascolinità si pesava nella capacità di imporre le proprie decisioni. Non è governare, è comandare. Genitori compiaciuti perché «il mio figliolo decide se il giro di amicizie esce questa sera, decide dove andare». Cose minime, sembravano. «Ha carattere», dicevano i professori. Nascere maschi a cavallo degli anni Ottanta in Italia è qualcosa che ha a che fare con la capacità di imporsi. Nessun sinonimo: imporre agli altri il proprio volere, per i quarantenni di oggi, è sinonimo di autorità, di pene lungo e abilità nell’ orientare le scelte.

L’autorità può essere scalfita solo da una variabile. Se un maschio mette in discussione la tua decisione è semplicemente un confronto, magari anche acceso. Se una femmina non accetta la tua decisione è un affronto. Le donne al fianco degli uomini servono per confermare e cristallizzare l’autorità, perfino l‘autorevolezza, in certi ambiti. Il nostro mondo è pieno di donne invidiabili per la capacità di stare al proprio posto, solo che il posto delle donne è uno spazio senza fisica: le donne che stanno al loro posto sono le donne che coincidono con l’ombra dell’uomo che accompagnano come scelta di vita. È il famoso passo indietro dove l’indietro è il perimetro dell’ombra.

Io sicuramente sono un lupo perché sono cresciuto nell’epoca in cui non fare apprezzamenti sulla prosperità delle forme di una donna era considerata una vigliaccheria al confine con l’omosessualità. Sia chiaro, non ho vissuto in mezzo a un’orda barbara di omofobi sessisti. Semplicemente l’apprezzamento verso l’altro sesso ha avuto sempre a che fare con la dichiarata volontà di possedere, che era un passo obbligatorio. Si tratta di una conformazione a cui non dai peso, che molti del gruppo considerano semplicemente un topos maschile, quasi atavico, che vede la dominazione come una declinazione del possesso. Nessuno di noi, quando ero adolescente, avrebbe mai pensato possibile ribellarsi a quella modalità. Non era questione di accettazione immorale, direi – ora – che fosse qualcosa che c’entrava con la fatica di scrivere un altro vocabolario della mascolinità.

Le chat, ad esempio. Le chat che escono ciclicamente sui giornali per denunciare i casi di “Me Too” sono molto simili alle chat in cui sono iscritto. Ho frequentato gli spogliatoi e conosco benissimo la grana animale che impedisce a un calciatore di dichiararsi qualsiasi altra cosa rispetto al maschio rovente. Anche in questo caso non si tratta di un’accolita di assassini pronti ad ammazzare o a stuprare ma si tratta di conversazioni private che se diventassero pubbliche distruggerebbero la credibilità degli iscritti. Loro – anzi, non mi condono – noi diremmo che si stava scherzando fingendo di non sapere che scherzando si partoriscono parole che generano realtà. Ho prevaricato una donna utilizzando il mio essere maschio, per di più privilegiato per mestiere e per posizione? Sì, certo. Qualche volta me ne sono accorto e molto più spesso mi sarà sfuggito. Ho scambiato il controllo come cura? Ovvio che sì. Troppo comodo per rinunciarci. Sono un lupo che è stato in grado di porsi dei limiti ma che potrebbe descrivere – come descrivo per mestiere – qualsiasi abuso perché ne conosco i meccanismi nativi da oppressore. Perfino scrivere delle vittime dallo scranno del potenziale carnefice è un privilegio.

Qui si arriva alla fatidica domanda: quindi vuoi dire che tutti gli uomini sono colpevoli per i femminicidi che accadono? Non cado nella trappola della generalizzazione utile allo scontro politico. Rispondo per me: io sì, io sono colpevole. Sono colpevole per la mala educazione che ho ricevuto, sono colpevole per l’istruzione che mi ha raccontato i maschi come artefici del proprio destino e solo di rimbalzo delle donne. Sono colpevole del concime che rende Filippo Turetta un bravo ragazzo dove la bravura sta solo nel mitigare i propri istinti più osceni. Anch’io per una vita ho trascinato fuori scena i comportamenti (miei e degli altri) al di là del dibattito sociale come se esistesse un “osceno” riservato ai maschi in cui nascondere il loro residuo tossico. Non arrivo ad ammazzare, per carità. Ma il germe è lo stesso.

Qualcuno dirà: «Si autodenuncia per giustificarsi». E anche questo è vero. Se dovessi scegliere un ruolo mi piacerebbe essere un testimone di giustizia di quest’epoca che le donne le uccide ma anche – e soprattutto – le logora. Quindi aspettiamo la grande rivoluzione culturale? Non so, non mi convince. Io – parlo di me, solo di me per non trasformare un pensiero in un paradigma – vedo i miei tre figli maschi enormemente migliori di me su questo punto. Ritengono inimmaginabili le lordure che a noi tocca nascondere. Ma soprattutto ci sono le donne. Lasciare spazio forse è già una prima soluzione.

https://www.lastampa.it/cronaca/2023/11/23/news/cavalli_noi_uomini_lupi_dicono_non_generalizzare_ma_essere_maschi_da_anni_significa_sapersi_imporre-13881243/

Federico Colombo su “I mangiafemmine” per Gay.it

“Nel nuovo romanzo di Giulio Cavalli, le donne muoiono incessantemente, muoiono una dopo l’altra, tutte per mano dei propri compagni. È un’epidemia inarrestabile, una di quelle di fronte alle quali tutti voltano la testa dall’altra parte. La politica, soprattutto. Sono soprattutto i politici – rappresentati dal presidente Valerio Corti, un conservatore – a non curarsi del problema, a lasciare inascoltate le urla delle sopravvissute che chiedono venga loro assicurata almeno l’illusione di una prospettiva di vita. Qui, alla sua prova più difficile e più amara, Cavalli mira il cuore del problema: cosa possiamo noi, tuttə noi, di fronte a un eccidio di questo tipo, quando lo Stato rimane con le mani in mano e anzi perpetra schemi misogini e patriarcali?”

Federico Colombo su “I mangiafemmine” per Gay.it

Universo letterario recensisce #IMangiafemmine

Giulio Cavalli (Milano, 1977) è un noto scrittore di romanzi e pièce teatrali, attivista per i diritti civili e, dal 2007, vive sotto scorta per la sua continua lotta contro le mafie. Giornalista d’inchiesta e autore di diversi libri dello stesso genere, ha pubblicato numerosi romanzi editi da Fandango fra cui Carnaio (2018), Disperanza (2020) e Nuovissimo Testamento (2021). È con Carnaioche, nel 2019, Cavalli vincerà il Premio Selezione Campiello – Giuria dei Letterati.

Le sue opere sono spesso delle critiche dissacranti della nostra società, polarizzando delle opinioni che l’autore vede, in embrione, ben presenti nel nostro mondo. Con I Mangiafemmine, pubblicato da Fandango libri, Cavalli torna nel fittizio paese di DF, specchio di una società in cui nessuno ha la volontà di specchiarsi, ma i cui semi sono ben presenti fra di noi.

La trama

Nel periodo delle elezioni nella fittizia città di DF, la vittoria dei Conservatoriguidata da Valerio Conti non sembra essere più una certezza: la città è in preda ad un delirio di violenza, una vera e propria epidemia di donne assassinate per strada, a casa dai mariti e dai compagni.

Il candidato premier non si interessa della questione: sostiene che, alla fine, le donne sono sempre morte. L’onere è al genere femminile: le brave donne non muoiono, non corrono rischi.

L’opinione pubblica è scissa: la classe politica non è in grado di affrontare il problema, e si rifiuta di ritenerlo tale. Le poche attiviste di DF gridano al massacro, e vengono ridotte al silenzio. Cavalli narra di un mondo i cui tentacoli si stanno lentamente insinuando nel nostro: cosa succede quanto un’intera classe politica volta le spalle al problema?

Il governo di DF propone una legge per “regolamentare l’attività venatoria”: legalizzare il femminicidio. Ed è così, che Cavalli dipinge l’orrore.

Un problema sociale: la storia di Frida

L’intera opera di Cavalli ha un obiettivo molto preciso: mostrare come, nella città di DF, la violenza di genere sia un problema radicato nella cultura che li rappresenta. Il romanzo parte immediatamente narrando la lenta discesa nella violenza maschilista di un uomo qualunque, Tullio Ravasi. Egli si «trasforma lentamente in un ratto», come sottolinea l’autore, e questa metamorfosi ha luogo in un momento preciso: nell’istante in cui osa violenza su una tirocinante sul posto di lavoro, costringendola ad un rapporto sessuale con la promessa di una futura assunzione.

Da qui, le prime pagine sono una spirale lenta e dolorosa con un unico epilogo possibile: Tullio ucciderà sua moglie Frida, casalinga che lui stesso aveva isolato dal mondo circostante. Ed è qui che iniziano le prime riflessioni: la storia di Tullio e Frida è una storia plausibile, che sembra tratta da uno dei nostri quotidiani.

Frida aveva un lavoro, una vita fuori da essa e una sua indipendenza economica ed emotiva. Tutto questo le è stato strappato da un marito-padrone che, attraverso una sottile manipolazione emotiva, l’ha spinta a lasciare tutto ciò che era suo e che la spingeva fuori, relegandola al ruolo di casalinga e moglie. Frida è una delle prime vittime di cui DF ci narra.

La cosa più spaventosa della storia di questa donna, che altri non è che un archetipo, è che non è stato solo il marito a spingerla: le violenze che Frida inizia a subire immediatamente dopo il matrimonio, dal controllo emotivo ed economico fino alle vessazioni psicologiche, vengono continuamente giustificate da tutte le persone attorno a Frida. Sua madre e le sue amiche le diranno che Tullio la ama, è così perché è stanco. Quando le suggerisce di lasciare il lavoro, non lo fa per una cultura del possesso, che a DF, specchio del nostro mondo, trionfa dolorosamente normalizzata: lo fa perché non vuole che si stanchi, perché tiene a lei.

Il problema fondamentale è che nessuno attorno a Frida la aiuta, bensì tutti sono portati a giudicare i comportamenti di possesso e controllo di Tullio come una forma di attenzione e di amore. Le dicono che dovrebbe essere grata. Talmente grata che Frida, dopo poche pagine, morirà uccisa non solo da suo marito, ma da una società patriarcale e maschilista attorno a lei, che ha ignorato i sintomi di quella che è una malattia pervasiva: la cultura del possesso.

Questo è il punto centrale della prima storia a cui assistiamo: Frida aveva provato a chiedere aiuto ai suoi genitori, alle sue amiche, ma era stata rimandata indietro dal suo aguzzino con il suggerimento di essere meno pesante. Ed è questo che continueranno a ripetere di lei, dopo il suo brutale omicidio: aveva esasperato suo marito, lui tornava a casa e vedeva una moglie «dal muso buio, eternamente insoddisfatta e ingrata».

Ciò che fa veramente spavento, come sottolinea implicitamente Cavalli, è che DF non è altri che quello specchio malato in cui la nostra società non vuole guardarsi.

Tullio è descritto fin dall’inizio come un uomo perfettamente normale, quasi banale. Ma nella storia umana abbiamo spesso assistito alla banalità del male, ed è proprio questo il punto della storia di Tullio: l’uomo femminicida non è un mostro, qualcosa di altro dall’uomo in quanto specie. Egli è fin troppo umano:è il prodotto di una società patriarcale e maschilista, che ha validato la cultura del possesso secondo cui l’uomo possiede la donna come se fosse un oggetto. Ella non ha una sua libertà, non ha una sua autonomia ed una sua voce.

Si tratta di una cultura radicata nella società di DF, come nella nostra, e che passa attraverso i gesti di cui si è discusso in precedenza: Tullio voleva controllare Frida in tutti i suoi aspetti, relegandola solamente ad una casalinga pronta a obbedire ad ogni suo ordine. Quando ella è fuggita dal suo controllo, Tullio ha reagito seguendo il pattern che lo ha contraddistinto: le ha tolto la vita, non potendo accettare di non possederla più.

Mangiafemmine: una legge per legalizzare il femminicidio

La proposta dei Conservatori di Conti è chiara: equiparare l’attività venatoria con il femminicidioLegalizzarlo al fine di controllare il fenomeno, di regolarizzarlo attraverso dei criteri igienico-sanitari e delle liste di donne che possono essere cacciate. Perché, come è stato sottolineato in precedenza, le brave donne non muoiono: quelle che, secondo la legge, possono essere “abbattute” sono quelle che non rispondono ai dettami della brava moglie e casalinga. Le attiviste, le ribelli e tutte coloro che si rifiutano di essere equiparate ad un mero possesso.

Si tratta di un’ipotesi agghiacciante alle nostre orecchie, eppure a DF nessuno si oppone: solo Clementina Merlin, giornalista e attivista per i diritti femminili, reagisce sconvolta a questa proposta.

Quando ella cerca un dialogo con le persone accanto a lei, questi sembrano non considerare in alcun modo la gravità di quanto accaduto: una signora incinta in fila dal medico dichiara di non essere interessata alla questione poiché incinta, e le donne gravide sono escluse dalla possibilità di essere bersagliate, e per di più ella aspetta un maschio.

I partiti politici stessi minimizzano la questione, ed è proprio l’opposizione ad appoggiare questa proposta, giustificata su basi genetiche ed ormonali: in fondo, l’uomo uccide poiché geneticamente portato a farlo. A DF, l’uomo stupra perché è naturalmente portato alla prosecuzione della specie, non perché cresciuto da una società che non gli ha insegnato il consenso, facendogli credere di poter prendere da una donna ciò che più gli aggrada senza preoccuparsi dell’altra persona.

Egli la possiede come un oggetto, in tutti i suoi aspetti. E la legge sul femminicidio presentata a DF non è altri che l’atto estremo di una malattia che si è insinuata nella nostra società, di cui vediamo tutti i sintomi.

Il romanzo di Cavalli è una critica dissacrante alla nostra società e a quei retaggi culturali che la permeano. Egli ha estremizzato le conseguenze di qualcosa che, con dolore, bisogna ammettere che è già qui. Lo stile dell’autore è volutamente diretto: la violenza di DF arriva al lettore con rapidità e forza, impedendogli di non pensare alle terribili analogie che il mondo immaginario di Cavalli possiede con il nostro.

Si tratta di un libro che chiunque dovrebbe leggere: le parole di Cavalli sono evocative, e il lettore non può che porsi degli interrogativi su questo nostro mondo. Come sintetizza l’autore stesso:

Il problema non sono solo gli uomini che uccidono o che stuprano, il problema sono anche gli uomini che non uccidono e non stuprano, ma hanno il terrore di avere prima o poi bisogno di farlo.