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I “sempreverdi” Santapaola a Catania

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(fonte) La pressione delle mani dello Stato questa volta ha piegato il cuore finanziario e patrimoniale di Cosa nostra catanese. Il colpo è stato assestato direttamente ai vertici della “famiglia”: l’entourage criminale è quello legato a Irene Santapaola, alla figlia di Salvatore Santapaola fratello – quest’ultimo – del capomafia Nitto deceduto nel 2003. Sedici persone sono finite nell’elenco di un’ordinanza di custodia cautelare e molte società sono state strappate al controllo del Clan Santapoala Ercolano. La Squadra Mobile di Catania sta eseguendo una serie di arresti e sequestri. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione mafiosa, furti e intestazione fittizia di beni. L’inchiesta coordinata dalla Dda di Catania ha radiografato i capi della piramide della cosca Santapoala Ercolano: in particolare hanno fotografato l’interessamento (ormai diventato abitudine) dei rappresentanti del gotha della famiglia a investire nel settore economico, attraverso la “ripulitura” in attività finanziare e commerciali del denaro sporco.

Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati (misura preventiva) diverse società che gestiscono impianti sportivi, nel settore della ristorazione, parcheggi e autolavaggi e anche uno stabilimento balneare. Il valore del patrimonio strappato al circuito mafioso ammonta a svariati milioni di euro.

Ancora una volta l’indagine ha portato alla luce tra le attività illecite poste in essere dalla famiglia mafiosa quello del “recupero crediti”, il creditore invece di rivolgersi ad avvocati che cercheranno di riottenere i debiti attraverso gli strumenti previsti dalla legge chiede “supporto” a boss o esponenti della criminalità organizzata che con i tradizionali mezzi di intimidazione e minaccia cercherà di “recuperare” le somme, di cui una fetta entrerà nelle casse del clan.

Gli arrestati:

Roberto Vacante, classe ’63

Santo Patanè, classe ’69

Salvatore Caruso, classe ’54

Salvatore Di Bella, classe ’67

Giuseppe Massimiliano Caruso, classe ’81

Francesco Russo, classe ’73

Danilo Di Maria, classe ’70

Giuseppe Celestino Vacante, classe ’59

Irene Grazia Santapaola, classe ’74

Mario Aversa, classe ’72

Maria Santanocito, classe ’50

Pietro Musumeci, classe ’65

Giuseppe Caruso, classe ’81

Nunzio Di Mauro, classe ’67,

Nunzio Giarrusso, classe ’70,

Pietro Augusto Bellino, classe ‘71

Un’intervista. Su tutto.

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Dialoghi Resistenti tra Ultimo Teatro Produzioni Incivili e Giulio Cavalli (fonte)

Ciao Giulio, benvenuto tra noi. Sono felice che un uomo come te, che ha deciso di metterci la faccia in prima persona di fronte al cancro – chiamato banalmente mafia – abbia aderito a questa nostra operazione di conoscenza reciproca e di scambio, tra coloro che si muovono giorno per giorno nella creazione del migliore dei mondi possibili e di questa società – che sempre più – dimentica i propri figli ed i propri padri, in nome di una giustizia e di uno status che sembra essere incancrenito, malato, alla deriva.

Come primo passo, vorrei che tu mi raccontassi chi è Giulio? Da dove viene? Quali le sue origini? Quali le sue aspettative?

Vengo dal profondo nord, dalla piccola provincia ultracattolica e medioborghese che sogna di sculettare come un città. Forse molto del fastidio per l’oppressione intesa in tutti i sensi nasce proprio dal fatto di essere cresciuto in un luogo in cui l’osare è di per sé sempre sconveniente. Fin da piccolo ho cominciato a studiare pianoforte, ho sempre amato la lettura e poi ho scoperto quel magico mondo che è il teatro dove entrambe le cose possono meravigliosamente convivere. E mi ci sono ritrovato dentro.

Autore, attore, scrittore, giornalista: quale il tuo obbiettivo nella società? E quali sono i risultati delle tue operazioni di denuncia e/o di sensibilizzazione?

Sinceramente il mio obbiettivo è semplicemente osservare e raccontare le storie che credo valga la pena raccontare. Non ho mai pensato al fine se non alla bellezza. Bellezza nel suo senso più etico e morale, quella bellezza che riesce a salvare e salvarci dalle brutture più ostinate. Devo ammettere che ancora oggi molto spesso rimango stupito di quanta forza possano avere le parole.

Perché hai scelto il teatro per parlare di mafia?

Perché il teatro non ha mediazioni: c’è l’attore, la sua parola, il pubblico. Basta. Nessuno si può infilare in mezzo. Quindi è il luogo più genuino dove poterci mettere la faccia e dare anche a chi ti ascolta la responsabilità di ascoltare nomi e cognomi. Usciti da un teatro non si può dire «non sapevo».

Dopo le minacce subite per il tuo monologo “Do ut Des”, ti è stata assegnata una scorta. Cosa vuol dire per un uomo di libertà, vivere sotto protezione?

Sinceramente questa moda di scorte e scortati mi lascia piuttosto indifferente. Le privazioni alla propria libertà in questo Paese sono molte e molto più quotidiane di quello che si pensa. Non credo che una persona sotto protezione debba per forza avere un’eroicità maggiore rispetto ad un padre di famiglia che fatica a mantenere la propria casa o ai tanti piccoli o strazianti soprusi che ognuno di noi deve ingoiare nella vita. Vivere sotto protezione è diventato un circo a cui non mi interessa partecipare.

Hai dei rimpianti, rispetto alle scelte che hai fatto? Quali i fallimenti? Quali i successi?

Rimpianti moltissimi. Ma mi ci sono talmente affezionato che forse rifarei gli stessi errori per non privarmi di loro. I fallimenti invece credo che siano dei sentimenti che hanno bisogno di sedimentare e quindi posso averne avuto molte sensazioni ma sarà il tempo, più di me, a setacciarli e mettermeli sotto al naso nei prossimi anni. Di sicuro ho cercato sempre di non farmi accalappiare nelle diverse correnti che mi avrebbero voluto offrire garanzie. Se dovessi sentirmi garantito diventerei muto.

Da giornalista, come vivi la manipolazione che se ne fa nell’informazione dei media Italiani? Quali le sue origini? Quali i suoi risultati?

L’aspetto peggiore della nostra classe giornalistica è l’autocensura. Qui siamo un gradino oltre la paura, siamo nel campo del servilismo. Si scrive, o meglio non si scrive, ciò che non smuove troppo i poteri in campo. Brutta cosa.

Rispetto alla lotta contro la mafia e la mentalità mafiosa, qual è – secondo la tua esperienza – il ruolo dello Stato e quale, il ruolo del comune cittadino?

In realtà una buona lotta contro le mafie prevederebbe nessuna distinzione tra cittadini e Stato ma la piena consapevolezza dell’uno e dell’altro di essere la stessa cosa. Il cittadino non è mai ‘comune’ a meno che non scelga di esserlo per vigliaccheria.

Appurato che il mondo della mafia, non è più un mondo relegato all’ignoranza, al sud Italia e alla violenza fisica del potere o di un certo tipo di potere, ma che anch’esso si è “evoluto” in modo più raffinato e colto, “contribuendo” così alla creazione di questa società che noi tutti viviamo: chi sono oggi i mafiosi e – sempre che sia possibile – come si identificano? E quali i loro campi d’azione, i loro metodi, le loro tecniche?

Sono coloro che credono che si possa usare la minaccia e l’intimidazione per raggiungere i propri scopi personali a danno del pubblico. La mafia, dai per sé, non è molto diversa nella sua natura dai molteplici egoismi che si solidificano in sacche di potere e oligarchie. Pesa solo la differenza della forma dell’intimidazione ma non la sostanza. E sui grumi privatistici direi che il nord Italia ha di sicuro la leadership e quindi trovo normale che le mani ci si trovino così bene.

Cosa consigli a coloro che pensano che le mafie, non siano un problema che riguarda tutti?

Gli chiederei di guardare fuori dalla propria finestra, sotto dal proprio balcone per scoprire quanto vivano in città piene di case invendute, faraoniche opere rimaste vuote, ipermercati così vicini l’uno all’altro oppure di bar e pizzerie bellissimi e vuoti. Dove c’è una città “dopata” significa che ci sono soldi che devono nascondersi prendendo altre forme. E spesso dietro c’è la mafia.

Chi sono le vittime della mafia?

Tutti coloro che non possono aspirare ad esercitare il diritto di avere diritti. Quindi molte di più di quelle che comunemente pensiamo.

Cosa rende la mafia così potente e cosa la rafforza?

La convergenza di interessi con un pezzo di politica, di imprenditoria e di borghesia. La mafia per alcuni è il socio migliore che possa capitare.

Come uomo di parola e di scrittura, hai un legame forte con il mondo del web e soprattutto con i social network. Quale senso dai a tutto questo comunicare – giornalmente e passo passo – i tuoi pensieri o le tue filosofie? Ed a cosa serve o a cosa dovrebbe servire l’incontro delle diversità all’interno del mondo virtuale?

Non vedo differenza tra il raccontare una storia su un libro, in uno spettacolo o dentro un blog. Mi interessa l’esercizio della parola e della memoria. In tutte le sue forme. Ritengo il web un luogo in cui stanno persone reali, come un ristorante, un chiesa o un teatro. Appunto.

Quanto, il teatro, subisce i condizionamenti della società ed in che modo?

Sempre, anche quando non se ne accorge. Uno spettacolo teatrale è uno pezzetto di vita vissuta che vogliamo mostrare agli altri perché ci appare così spaventosamente significativo.

Come definisci i tuoi spettacoli?

Mi dicono che siano civili. Io preferirei “incivili”, visto la stomachevole situazione del civilismo e del teatro in Italia.

Come vedi la situazione dei finanziamenti alla cultura ed a cosa porta questo processo – quasi clientelare –, sul lato etico e pionieristico?

Ma come possiamo aspirare ad una buona culturale se ci troviamo di fronte alla peggior classe dirigente degli ultimi cinquant’anni? Com’è possibile parlare di teatro con politici che valgono un’unghia dei loro funzionari e perseguono solo posizioni all’interno della loro ristretta realtà partitica? Il teatro va maneggiato con cura e sapienza.

“Mio padre in una scatola da scarpe” è il tuo nuovo libro, ma anche il tuo nuovo reading. Un romanzo che prende ispirazione dalla famiglia Landa. Perché hai scelto proprio loro e cosa si cela dietro la frase che si trova in copertina “Capita a tutti l’occasione di essere giusti”?

Perché credo che mi sia necessario affezionarmi alle storie minime che non hanno bisogno di grandi volumi o ricercati aggettivi per arrivare comunque al cuore. La vicenda della famiglia Landa ci descrive quanto sia difficile essere giusti. Per tutti.

Chi sono – per la maggior parte e senza doverne fare un ammasso informe – i politici che ci governano oggi e chi dovrebbero essere in realtà gli uomini e le donne di politica?

Sono quelli che governano con i sodali di Marcello Dell’Utri, gli amici di Nicola Cosentino e i figliocci (fieri) di Andreotti. Serve dire altro?

Cos’è il coraggio?

La consapevolezza di avere paura. E gestirla.

Uno degli argomenti che mi piacerebbe affrontare, è il fenomeno di pentitismo, cioè quel fenomeno che ha sostituito la dicitura “collaboratori di giustizia”, probabilmente molto più giusta e meno patetica. Certo, non dico che in alcuni casi non ci sia stata una sorta di redenzione e ammissione dei propri peccati o per meglio dire delle proprie atrocità, ma come tu ben sai, “il confino” di molti boss in altre regioni, ha permesso loro di prenderne possesso, ricreando quello strato di potere che con il tempo ha permesso loro, di invadere il nord con le stesse dinamiche sanguinarie e mafiose, già presenti quasi da tre secoli nel sud Italia.

Dove tale prassi, cioè l’utilizzo dei pentiti senza una corretta gestione e certezza che lo siano veramente, ma solo come mezzo di smantellamento delle ‘ndrine o delle cosche o dei clan, mostra le sue falle?

Per questioni di lavoro mi è capitato negli ultimi anni di interessarmi del fenomeno dei falsi pentiti, vere e proprie teste di ponte tra la criminalità organizzata e gli uomini sotto protezione. Devo ammettere che il sistema ha delle falle che sicuramente chiederebbero una riorganizzazione. Al di là del fatto che la pratica del confino sia stato un enorme errore storico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze c’è il problema di una sicurezza che viene garantita in modo troppo discrezionale. E così finisce che veri “collaboratori di giustizia” si trovino spesso in serio pericolo mentre i pentiti per calcolo usufruiscono di tutti i privilegi.

Nella storia internazionale delle detenzioni, l’Italia non ha proprio una posizione a suo vantaggio. Più volte sanzionata per il degrado ed il maltrattamento che si subisce al suo interno, continua a ripudiare la pena di morte, ma gestisce e condanna “i fuori legge” con l’Ergastolo. Naturalmente il subire il “fine pena mai”, forse a molti può sembrare giusto, ma in molti dei casi – così come descrive bene Carmelo Musumeci, condannato all’ergastolo ostativo – la punizione è molto più grave del reato. E vivere rinchiuso a vita, senza la possibilità di quella reintegrazione che la legge italiana prevede, può essere molto più crudele di una sedia elettrica o di una iniezione letale. Il giudicante – con molte sfumature diverse – assume tutti gli aspetti del carnefice.

So, che l’argomento è molto più complesso della domanda che ti pongo, ma come pensi vengano gestite – in linea di massima – le carceri? E dove esse non rispettano i buoni propositi – cioè il reinserimento nella società – che tanto viene sbandierato? In breve. Quali sono quei limiti oggettivi che non possono sicuramente ottenere altri risultati?

Non possiamo correre il rischio di combattere l’inciviltà con l’inciviltà e nemmeno la violenza con la violenza. Credo in uno Stato che riesca ad essere guida e ispirazione per il valore etico che riesce ad esprimere nelle proprie scelte. Devo ammettere che la mia esperienza personale di vita con tutte le limitazioni che ho dovuto affrontare per la mia protezione mi spingerebbero ad una risposta vendicativa. Ma sarebbe ingiusto. Facciamo in modo, piuttosto, che il reinserimento sociale parta da una netta presa di distanza con il proprio passato criminale e un reale servizio alle indagini e alla giustizia. Tieni conto che molto spesso il figlio di un mafioso nasce e cresce dentro una scala di valori completamente distorta e non ha gli strumenti culturali per riconoscere il bene dal male, il giusto dall’ingiusto: credo che la detenzione debba essere la scoperta esplosiva di una reale alternativa. Allora davvero ha svolto il suo compito.

Ringraziandoti ancora per il tuo tempo, ti lascio con il frammento di un’intervista fatta a Assata Olugbala Shakur (attivista e rivoluzionaria statunitense di origine afro-americana), apparsa nel 1991 su Crossroad e che in un certo senso potrebbe essere modificata – cancellando la parola bianchi, e sostituendo le parole razzista/i con mafiosa/i e razzismo con mafiosità –, indirizzandone così il messaggio a noi tutti senza distinzione di sesso, colore o credo ideologico politico religioso: << Penso che sia disonesto dire che la gente bianca, che vive in una società razzista, che ha un’educazione razzista da parte di maestri razzisti e spesso con parenti razzisti, che legge libri razzisti, che guarda una televisione razzista, etc, etc, non è affetta da razzismo. Chiunque vive in una società razzista è affetto da razzismo. La gente bianca deve preoccuparsi del razzismo su due piani: a livello politico e a livello personale. E questa è una battaglia di tutta la vita per chi è seriamente interessato a lottare contro il razzismo. >>

Contrordine compagni! Il sindaco di Brescello è salvo.

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È un barzelletta che non fa ridere per niente: avevamo detto che il sindaco di Brescello sarebbe stato sfiduciato (qui) dopo l’esibizione di ignoranza e sprovvedutezza sui mafiosi suoi concittadini e invece niente. Tre consiglieri del PD l’hanno salvato. Ora si attende la decisione del Ministero sull’eventuale scioglimento per mafia del comune. Ah, se la Bindi ha bisogno del suo numero di telefono io ce l’ho. Eh.

Tutti al Family Day! Offrono le suore di clausura.

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Ecco la mail (o preghiera informatica, non so come si dica in questi casi) con cui la badessa delle suore di clausura trappiste della Repubblica Ceca e di Vitorchiano chiede di andare al Family Day in loro rappresentanza. Pagano loro. Daje!

«Carissimo,
dí a tutti da parte mia (puoi girare questo e-mail a chi vuoi) che per amore dei più deboli, i nostri bambini e i nostri ragazzi, DEVONO andare e non fare come Pilato!! Un peccato di omissione può essere peggio di molti altri peccati. Noi qui siamo 25, siamo suore di clausura e non possiamo andare. CHI VUOLE ANDARE AL POSTO DI OGNUNA DI NOI? E’un favore personale che chiediamo a degli amici. Rimborseremo le spese del viaggio.

Noi preghiamo, adoriamo, digiuniamo. Voi andateci. E’ in nome della comunione tra laici e suore di clausura che ve lo chiedo. A Carron dite che ve lo chiediamo noi monache di clausura.
Inoltre assieme a Bagnasco ve lo chiede la chiesa italiana che é rappresentata da lui e non da altri, per la grazia di stato del mandato di presidente.
Gira questo e-mail a tutti. Grazie.

sr Lucia e le sorelle di Naší Paní»

Ah, Bertolaso si è assolto da solo. Ed è pronto per Roma.

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Irriducibili. Come le piaghe, come un tic e come il vicino di casa insolente. Guido Bertolaso, l’ennesimo “uomo del fare” che in questo Paese si è sbriciolato come al solito per qualche favore; Guido Bertolaso, l’uomo che si è costruito una credibilità (e se l’è persa) sulle emergenze degli altri oggi si dichiara disponibile a candidarsi sindaco di Roma. Dice:

“[…] se ci fossero le condizioni per una candidatura al di sopra delle parti e dei partiti, penso a una lista civica con un programma molto preciso, potrei prenderla in considerazione perché io amo Roma e mi addolora vederla ridotta così. Ma servono le condizioni, senza questi giochetti politici. Io non sono mai stato un politico, e mai lo sarò”.

Ma non è indagato Bertolaso? Nessun problema, si è già assolto da solo:

“Spero che entro giugno [il processo collegato a La Maddalena] sia concluso […].Basta leggere le carte e verbali per capire che non solo sono assolutamente estraneo ai fatti che mi sono stati imputati ma anzi che sono stato rigoroso controllore di quelle che erano attività in corso”.

«La mia preghiera a coloro che pregano contro di noi» (di Carlo Gabardini)

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(scritto per Vanity Fair Italia da Carlo Giuseppe Gabardini)

A voi che state pregando contro di noi, chiedo di prendervi 6 minuti per riflettere prima di continuare.

«Mi sono imbattuto in un sito web che chiede a tutti i cattolici di usare l’”arma della preghiera strutturata, organizzata e costante” per fermare il ddl sulle #unionicivili che andrà in aula il 26 gennaio. In home page c’è un soldato col suo fucile.
La prima reazione è stata lo sconcerto. La seconda, l’ilarità, pensando che si trattasse di uno scherzo; ipotesi impossibile vista la violenza delle parole usate. La terza: la rabbia e il dolore. La quarta è stata bloccata dal 2° comandamento “Non nominare il nome di Dio invano”, che è ciò che fa questo sito, che bestemmia nel momento in cui chiede di pregare contro qualcuno.
Ma come è possibile chiamare a raccolta un’intera comunità affinché preghi per far sì che la legge di Monica Cirinnà non venga votata? Qui dovrebbero rispondere storici, antropologi, teologi; io son troppo piccolo.
Però, due cose le penso lo stesso.
Come puoi mettere una sequenza tale di menzogne all’interno di una preghiera senza avere la certezza – se davvero credi in Dio – che verrai fulminata o fulminato all’istante, senza pietà, o subito o quando sarà la tua ora?
La legge Cirinnà non è contro Dio, la Madonna o tutti i Santi del paradiso compreso quello del quale porti il nome indegnamente; la legge Cirinnà è un primo passo verso un inevitabile futuro di uguaglianza nel quale non ci sarà nessunissima differenza fra coppie formate da Marco e Andrea, o Jemie e Sandra, o Jemie e Andrea, nessunissima, mettitelo in testa, e quando ciò avverrà quelli come te saranno considerati delle nullità e ti vergognerai di te stesso; la legge Cirinnà non solo non ammette l’”utero in affitto” – come voi vi ostinate a chiamare la pratica della “gestazione per altri”, perché avete un rapporto morboso con tutto ciò che ha a che fare con la sessualità – ma nemmeno potrebbe farlo, e peraltro questa pratica è stata inventata (e nel 90% dei casi utilizzata) per coppie eterosessuali che non hanno altro modo per generare un figlio e lo desiderano ardentemente; la legge Cirinnà non è contro nessuna famiglia, nessun bambino, nessun valore precostituito o tradizionale, nessuna Costituzione; la legge Cirinnà inizia a coprire un buco legislativo che ci vede ultimi in Europa per quello che riguarda i diritti civili: qualcuno di voi pensa che venir multati continuamente per l’ingiustizia manifesta del nostro Paese sia accettabile?
L’unico dubbio possibile sulla legge Cirinnà è quando, a questo primo passo, seguiranno i successivi; quando smetteremo di essere cittadini di serie B; quando potremo riaprire la discussione sui diritti che ancora mancano. Perché ciò che è davvero inammissibile è che questa legge si trasformi in un contentino col quale per i prossimi 15 anni procrastinare tutte le altre richieste di diritti civili che riguardano sia il mondo LGBT sia moltissimi altri mondi “dimenticati”.
Poi ho delle domande. Voi scrivete “Se preghiamo con fede, con perseveranza e chiediamo nel nome di Gesù, ogni cosa ci verrà concessa: «In verità vi dico: se due di voi, sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre mio che è nei cieli ve la concederà.»” (Mt. XVIII, 19)
Ma se avete (o abbiamo) questo potere, perché non vi mettete a due a due a pregare per debellare la pedofilia, il cancro e la crisi economica? Oppure state dicendo che non esistono sulla terra due buoni cattolici in grado di accordarsi su cosa sia Bene? Oppure pensate che questo sia un mondo perfetto con l’unico gravissimo scandalo del mio amore per un uomo?
Mi chiedo: visto che quando vi fa comodo siete fermi all’interpretazione letterale, perché non leggete anche il versetto 8 di quello stesso passo di Matteo? “Ora, se la tua mano, o il tuo piede, ti è occasione di peccato, mozzalo e gettalo via da te.” Perché non fate una quarantina di giorni di preghiera strutturata per far approvare una legge in tal senso? Sarebbe una sfida epocale, riuscire a far votare i politici a favore dell’amputazione dei corrotti. Non facile togliere loro dagli occhi una chiara immagine di un Parlamento costituito in gran parte da mutilatini.
E infine dico: ma tu che proponi di pregare per fermare una legge, lo sai che lo Stato è laico? E lo so che ti sembra un mantra vuoto come la maggior parte dei rosari, ma non è così. “Laico” non vuol dire che è contro di voi o contro chicchessia, laico vuol dire che non si schiera su questioni religiose, perché i suoi cittadini possono avere qualunque credenza, indifferentemente, e quindi va benissimo che tu preghi e ti fai le tue regole, ma quelle regole valgono solo per la tua comunità, chi ci sta, chi è d’accordo, e non le puoi imporre a tutto lo Stato perché esso, appunto, è laico, di tutti, non vostro. Perché quelli che vogliono abbattere la democrazia con le preghiere e altre armi per imporre uno Stato religioso basato sulla propria interpretazione delle Scritture, già esistono e si sono riuniti sotto il nome di Isis. C’è libertà di religione in questo Paese, quindi uno ha tutto il sacrosanto diritto di non credere in Dio e dunque non affidarsi né fidarsi delle sue vere o presunte parole. È chiaro questo concetto? Perché bisogna leggerlo un po’ di volte e capirlo e farlo proprio, e poi si può rimanere degli ottimi cattolici, senza per questo imporre a nessuno che non lo voglia, una morale o tradizione o come diavolo vi piace chiamarla. È chiaro?
Quindi, sono io che vi prego: smettetela di spargere violenza, menzogna, dolore.»

Sogno le note

pianoforte

Io in realtà, fin da quando ero bambino, avrò avuto appena cinque anni o forse meno,  studiavo il pianoforte. Respiri, tempi, scale minori e chiavi di violino e di basso tutti i giorni. Per anni. Fino al rifiuto, naturale dopo tutto quel suonare. E poi basta.

Ora mi sono detto: ma perché non suono? E allora ho deciso che suono. Mi faccio da musico, in scena. Mi piace. Ho ricominciato ad esercitarmi. Come trent’anni fa. Ancora i respiri, i ritmi, il tempo, gli accordi e adesso anche l’idea di dove metterle in scena. E ho cominciato a sognarmele anche di notte le note. Come se fosse stata una lingua sepolta che adesso è un geyser, anche di notte.

«Una piccola luce nel buio»: zillyfree su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

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(l’articolo originale è qui)

(di zillyfree)

Tra i tanti libri di mafia che ci sono, che ho letto, questo, si, parla di mafia, ma parla delle vittime che la mafia fa, racconta di una storia dimenticata, che forse si vuole dimenticare, che per tanti anni è stata quasi cancellata, coperta ma ora no grazie a Giulio Cavalli che attraverso la figlia del protagonista del libro romanza la vita di Michele Landa, un uomo che per tutta la sua esistenza ha voluto condurre una vita onesta, nonostante fosse circondato da una malavita come la camorra presente in ogni angolo delle strade di Mondragone.

Michele Landa, 61 anni, guardia giurata, metronotte a Pescopagano, a controllare una antenna, una semplice antenna, una zona di droga, prostitute e qualcosa di più grande come affari di camorra. Gli mancava poco alla pensione, poche notti e avrebbe dedicato i suoi anni ai nipotini e ai suoi orti, invece viene trovato ucciso e bruciato nella sua macchina. Il paese Mondragone rimane nel suo silenzio di fronte a questo atto barbarico, un articoletto tra le cronache del giornale di paese e poi tanto e pesante silenzio intorno a questa vicenda che ancora oggi non si riescono trovare motivazioni di questa morte, i colpevoli di questa morte, solo tanta rassegnazione. Questo libro sembra una piccola luce nel buio più totale perchè ha ridato visibilità ad una vicenda piena di lati oscuri.

E’ una storia d’amore bellissima (amore, amicizia vera, rapporti tra padre e figlio, tra fratelli) ma è anche una storia d’omertà dove fin dalle prime pagine possiamo intuire chi può essere l’assassino anche se sono solo intuizioni non ci sono prove certe com’è  del resto ora. Michele Landa è un orfano, una vita difficile, ma ha un nonno che gli insegna a vivere onestamente stando lontano da chi è losco, di non ribellarsi se vuoi bene ai suoi cari, insegnamenti che poco riesce a digerire ma che seguirà ma nonostante questo si troverà alla fine in una scatola di scarpe in mano ai suoi famigliari…

“Vorrei stare ai campi e spiegare ai miei nipoti che Massimiliano, l’amico del nonno, è morto anche perchè diceva cose che tutti vedevano ma tenevano nascoste, e allora l’hanno preso per matto. Se vuoi uccidere qualcuno lo fai passare per matto e sei già a metà dell’opera…io vorrei che i miei nipoti e voi imparaste che le idee si sostengono anche in pubblico.”

(Lo puoi comprare anche direttamente dalla nostra piccola libreria qui)

L’antimafia gratis e per le scuole. Pensa te.

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Sono i golpisti antimafiosi dell’Emilia Romagna. In una regione calabrizzata insistono nel fare i nomi e i cognomi, ritagliano frammenti di bellezza, sperimentano nuove modalità di propagazione civile e  si impegnano a costruire una “cassetta degli attrezzi” che insegni ai concittadini come procacciarsi i diritti e come riconoscerli e non accontentarsi si averne la pancia piena. Sono fondamentalmente dei pescatori di anime salve che non sapevano da cosa salvarsi e poi, istruite, sono entrati a comporre la bella famiglia dei consapevoli. Sono riuniti nelle associazioni AdEstGruppo Antimafia Pio La Torre e Gruppo dello Zuccherificio e si dedicano all’attività antimafiosa con brio, professionalità e l’impeto degli scassaminchia. E tutto questo lo fanno gratis. Pensa te. A proposito di questi tempi cupi di un’antimafia sotto tiro. Gratis.

Ora hanno preparato un fumetto per i ragazzi delle scuole in cui con i disegni di Gea la percezione diventa un tendine da allungare per vedere la mafia intorno a sé, nel quotidiano di ognuno. Un manuale delle giovane marmotte antimafiose in cui la curiosità diventa un culto obbligatorio per resistere alla criminalità organizzata. E nel fumetto ci sono gli argomenti che sembrano così ostici per fior di sindaci, prefetti e presidenti di regione. Ed è bellissimo il lavoro di questi Antoine de Saint-Exupéry che regalano le copie del loro lavoro (gratis, sì) e si preparano ad una tournée di etica e bellezza nelle scuole. E siccome qualcuno starà già bisbigliando che “ci vogliono le competenze, mica i fumetti” allora sappia che il lavoro per le scuole è figlio di un dossier (“Emilia Romagna cose nostre – storia di un biennio di mafie in Emilia Romagna”) che è studio, analisi, lavoro. Io non so voi ma io sono fiero di avere concittadini così. Altro che.

(Per ricevere gratuitamente una copia cartacea del fumetto, scrivete a gruppodellozuccherificio@gmail.com e qui potete scaricarlo)