Vai al contenuto

Blog

#Mafiealtrove. Un approccio culturale.

2-e1447713698786Un bel lavoro delle parole emerse durante il convegno “Fare le mafie fuori”. Lo pubblica il lavoro culturale qui.

“Come è possibile ri-conoscere un fenomeno mutevole e fortemente ancorato alle interrelazioni con i contesti locali, qual è quello mafioso? Quali caratteristiche dei nuovi contesti possono favorire le attività dei gruppi mafiosi in territori lontani da quelli di origine? In che modo, in definitiva, è possibile individuare e contrastare le attività mafiose oggi?
Studiosi, giornalisti, politici, amministratori, esponenti della società civile e magistrati si sono confrontati su questi temi durante il convegno “Fare le Mafie Fuori”, promosso dalla Fondazione Fondo Ricerca e Talenti.
Il lavoro culturale ha seguito l’evento. Ai diversi relatori abbiamo richiesto un breve intervento sui temi discussi. Ne è venuto fuori un glossario delle parole chiave emerse a Torino, curato da Vittorio Martone e Antonio Vesco. Un autore (o un gruppo di autori) per ogni voce: forme e registri diversi per restituire sguardi autorevoli sul riconoscimento (pubblico, giuridico, scientifico) delle mafie altrove.”

Li armano e poi li combattono /11

Basta andare qui.

Sembra incredibile, ma in Italia c’è chi di giorno indossa i panni del fruttivendolo e la notte gioca a fare la guerra. Un filo rosso che parte da un paesino in provincia d’Imperia e arriva fino a dentro i palazzi di Agusta Westland – Finmeccanica. Nell’inchiesta realizzata da Sigfrido Ranucci, un trafficante d’armi svela alcuni dei meccanismi con i quali le armi arrivano nei paesi africani e in Medio Oriente. Il trafficante racconta anche dell’addestramento fatto sotto copertura nello Yemen dai militari italiani, finalizzato a preparare guerriglieri arabi da utilizzare in funzione anti Isis. Finito l’addestramento, però, nel giro di poche ore i combattenti sarebbero passati nelle fila dei terroristi. Dall’inchiesta emerge soprattutto la storia di una struttura clandestina dedita all’arruolamento di contractor e all’addestramento di milizie. Una struttura formata da un ex camionista e rappresentante di aspirapolveri, coinvolto in passato in un traffico d’armi; un fruttivendolo sospettato di essere il punto di riferimento di Michele Zagaria, il più feroce dei capi del clan dei Casalesi; un colonnello dell’aeronautica in congedo; ex membri della legione straniera ed ex carabinieri. Tutti insieme, coordinati da un ex promoter della Mediolanum, avrebbero partecipato, con vari ruoli, a un progetto di addestramento di milizie su richiesta di un somalo che ha vissuto a lungo in Italia. Ufficialmente la finalità dell’addestramento sembra essere quella di formare milizie anti pirateria da utilizzare nei mari adiacenti il corno d’Africa. Ma è così? E perché il somalo utilizza una struttura clandestina invece di quelle ufficiali per realizzare il suo progetto? Sullo sfondo emerge il sospetto e il rischio che queste milizie possano confluire nelle fila delle organizzazioni terroristiche. Dall’inchiesta emerge anche che l’ex promoter della Mediolanum cercherebbe di piazzare in paesi sotto embargo elicotteri prodotti da Finmeccanica – Agusta, su incarico di Andrea Pardi, cioè del manager della società Italiana Elicotteri che si è reso protagonista circa un mese fa dell’incredibile aggressione al nostro inviato Giorgio Mottola. Pardi, per vendere a paesi in conflitto o sotto embargo, si sarebbe fatto aiutare da politici insospettabili.

Li armano e poi li combattono /10

Egitto-contro-Isis-638x425

Il più vicino territorio italiano (l’isola di Lampedusa) dista dalla Libia 355 km in linea d’aria (mentre dista dalla Tunisia 167 km), ma per qualcuno “l’invasione” dell’ex bel paese da parte della potente armata dell’Isis (che non dispone di un esercito regolare né tanto meno di una marina o un’aviazione da guerra) è prossima, quasi imminente, così al grido di “armiamoci e partite” c’è chi sostiene l’opportunità di un intervento armato italiano in terra libica, ex colonia tricolore un tempo governata. Ma chi ci guadagna da una guerra? Al di là dell’aspetto politico (è noto da tempo che l’Arabia Saudita da un lato, la Russia dall’altra, cercano di ottenere la supremazia nell’area medio orientale, interessi che contrastano quelli di paesi come Iran, ma anche Cina, Stati Uniti e persino Francia e Gran Bretagna) una guerra va quasi sempre a impattare sui traffici legali o illegali di armi di vario genere.

L’Isis, ad esempio, ha iniziato ad essere sotto i riflettori dei media occidentali da un paio d’anni, ossia da quando ha intensificato la sua lotta in Siria e in Iraq contro il regime del presidente sciita Bashar al Assad. Ma l’Isis è legato a Abu Musab al-Zarqawi, un combattente giordano che fonti vicine alla Cia e al partito Repubblicano Usa hanno presentato sin dal 2004 come un “lupo solitario” antagonista di Osama Bin Laden (la cui famiglia aveva fin troppo imbarazzanti relazioni d’affari con la famiglia Bush) per la guida di Al Qaida. Inizialmente descritto come “protetto” dai più alti livelli del governo iraniano al-Zarqawi è stato ucciso nel 2006 da un attacco aereo congiunto giordano-stattunitense dopo aver rischiato, secondo alcune fonti, di essere consegnato proprio dall’Iran agli Usa nell’ambito di un accordo poi sfumato e mai confermato da fonti ufficiali.

Quel che appare certo è che i suoi successori (Abu Omar al-Baghdadi prima, ucciso a sua volta nel 2010, Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi “califfo” dell’Isis ora) si trovano di fatto sul fronte opposto dei loro ex protettori, visto che l’Iran al momento schiera le proprie milizie in Iraq per combattere i guerriglieri dell’Isis, mentre l’Arabia Saudita è tra i sostenitori dell’Egitto, impegnato a sua volta come la Giordania a combattere i guerriglieri dopo le ultime uccisioni di civili e militari giordani ed egiziani. Ma oltre a chi ha fornito soldi, armi e coperture all’Isis e ai suoi leader, chi è tuttora tra i suoi sostenitori?

La verità la sanno, forse, i servizi segreti militari, ma certo se il quadro delle alleanze “politiche” è a dir poco variabile e incerto, le fonti economiche del “business” dell’Isis sembrano molto più stabili. La sola vendita di petrolio estratto da una sessantina di pozzi in precedenza sotto il controllo di Siria e Iraq avrebbe permesso lo scorso anno di incassare una cifra che Issam al-Chalabi, già ministro del Petrolio iracheno ai tempi di Saddam Hussein stimò attorno ai 150 milioni di dollari, pur trattandosi di petrolio venduto a “forte sconto” (30-40 dollari al barile quando le quotazioni ufficiali erano ancora attorno ai 100 dollari al barile).
Ai prezzi attuali è tuttavia ipotizzabile che tali ricavi si siano dimezzati o ridotti a un terzo. Ci sarebbero poi i saccheggi compiuti nei territori conquistati: l’assalto alla sola banca centrale di Mossul, città caduta in mano all’Isis nel giugno dello scorso anno, avrebbe fruttato qualcosa come 430 milioni di dollari. Cifre, va ribadito, estremamente difficili da verificare, come non è facile verificare di quali forze disponga nel concreto l’Isis. Nel giugno dello scorso anno secondo Charles Lister il totale dei miliziani era di circa 8 mila uomini mentre secondo Michael Pregent e Michael Weiss, in gran parte dotati di fucili AK-47 come armamento individuale. Sempre dopo la caduta di Mossul l’Isis avrebbe messo le mani su una trentina di carri armati M1 Abram di fabbricazione americana, più varie armi anche pesanti di fabbricazione russa.

Altre fonti hanno indicato la disponibilità di 10-20 carri armati T-54/55, 20-30T-62 e una mezza dozzina di T-72, più alcune decine di missili a medio raggio SA-6 Gainful (utilizzato come sistema antiaereo e con una gittata utile di 24 km massimi, quindi del tutto incapace di colpire obiettivi italiani anche se fosse sparato dalla punta estrema della Tunisia, oltre che dalla ben più lontana Libia). Numerosi anche i missili anticarro, i lanciarazzi (montati su Suv) i lanciagranate e una serie di obici e cannoni anticarro e antiaereo, anche di produzione cinese (ma pure statunitense come nel caso dei missili Stinger), con gettate dai 900 metri ai 27 km massimi. Non è chiaro tuttavia in che misura tale arsenale sia mantenuto in efficienza ed eventualmente da chi. Escluso che possano essere forniti aiuti militari ufficiali, rifornimenti e parti di ricambio potrebbero giungere attraverso canali illegali o comunque non ufficiali.

Da parte sua l’Italia, che dall’intervento armato in Libia voluto dalla Francia ha finora avuto più problemi che benefici, perdendo tra l’altro varie commesse che erano state concesse dal precedente regime libico a imprese italiane in particolare nel settore petrolifero e delle costruzioni e opere civili, oltre che nei trasporti e nella meccanica, con gruppi come Eni, Terna, Finmeccanica, Prysmian o Trevi che hanno visto svanire investimenti pluriennali per decine di miliardi di euro, rischia ora di subire la perdita, nel caso di totale destabilizzazione della Libia, delle forniture di gas (quello del giacimento libico di Bahr Essalam, ma anche quello tunisino di Wafa) che raggiungono il nostro paese attraverso il gasdotto Greenstream, il più grande del Mediterraneo che collega Mellitah, in Libia, con Gela, in Sicilia.

Greenstream, che ha già subito temporanee chiusure nel 2011 e nel 2013, può trasportare sino a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno e per la sua realizzazione Eni, con la francese Total la più esposta tra le major petrolifere occidentali in Libia, ha investito 7 miliardi di euro, ossia poco meno di un anno di interscambio import-export tra Italia e Libia, interscambio che dal 2011, quando è iniziata la rivolta contro il regime di Geddafi si è sensibilmente ridotto e che gli scontri tra varie fazioni libiche, anche prima della minaccia dell’Isis, ha ulteriormente fatto calare, tanto che dai 10,942 miliardi del 2013 (pari a poco più della metà rispetto ai 20,054 miliardi segnati nel 2008), nei primi sei mesi del 2014 si erano fermati a 4,786 miliardi.

Di questi 1,732 miliardi erano rappresentati da esportazioni italiane verso la Libia e 3,054 miliardi da importazioni italiane dalla Libia. Per difendere questi interessi, vale la pena di scatenare una guerra contro un esercito fantasma, consci dei fallimenti di almeno 15 anni di politica occidentale in Medio Oriente? O non è forse meglio provare altre strade, affiancando ad una sorveglianza di tipo militare, che pure ha i suoi costi (Mare Nostrum, l’operazione di pattugliamento marittimo durata un anno, è costata 9,5 milioni al mese per complessivi 114 milioni di euro, Triton, successiva operazione tuttora in essere, costa 3,5 milioni), la cui copertura finanziaria andrebbe trovata verosimilmente con ulteriori tasse o addizionali sulle accise e che peraltro sarebbero di gran lunga inferiori a quelle di una nuova missione militare in terra straniera (per fare un esempio, quella in Afghanistan costa oltre 130 milioni di euro a trimestre, quella in Libano una quarantina, quella in Kossovo oltre 22 milioni), una maggiore cooperazione con forze locali che si oppongono all’Isis?

(fonte)

Li armano e poi li combattono /8

 di Davide Mancino per Wired)
Schermata 2015-11-16 alle 21.47.54“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali.” Facile a dirsi, lo prevede la Costituzione – articolo 11. Ma la realtà è molto diversa: basta guardare in Siria. Secondo i documenti ufficiali dell’Unione Europea e i dati resi disponibili dal Campaign Against Arms Trade (Caat), l’ Italia è il primo partner europeo per le spese militari del regime di Assad. Dal 2001 la Siria ha acquistato in licenza armi nel vecchio continente per 27 milioni e 700mila euro. Di questi, quasi 17 arrivano dal nostro Paese.Il Regno Unito, al secondo posto, supera appena i due milioni e mezzo; segue l’ Austria che ha fornito veicoli terrestri per altri due milioni, poi Francia Germania, e infine Grecia Repubblica Ceca, con poco più di un milione di euro. Dai dati ufficiali si scopre che Parigi e Atene hanno ceduto soprattutto aerei droni, mentre mancano all’appello armi per altri cinque milioni di euro, non dichiarate.

E l’ Italia, invece, cosa ha venduto esattamente? Non sappiamo con precisione quali armi abbiamo esportato, ma qualche indizio ci viene dalla Rete, guardando uno dei tanti video in cui si vedono carri armati siriani fare fuoco – anche sui civili. In quei fotogrammi si distingue il sistema Turms: un visore termico e laser che consente ai carri di sparare con altissima precisione anche in movimento, commercializzato da Selex Es. Ovvero un’impresa del gruppo Finmeccanica – a partecipazione pubblica – firmataria nel 1998 di una mega-commessa da 229 milioni di dollari durante i governi Prodi-D’Alema.

Equipaggiamenti che non sono stati certo fermi: nel 2003 – con Silvio Berlusconi in carica – le consegne raggiungono il loro picco, per poi proseguire fino al 2009. Nel mezzo, però, c’è l’ invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. Proprio nel 2003, dopo un’inchiesta del Los Angelese Times, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld accusava il regime di Assad di aver fornito armi a Saddam Hussein aggirando l’embargo militare imposto all’Iraq. Gli equipaggiamenti forniti da Damasco sarebbero visori per il puntamento notturno dei carri armati: proprio come quelli venduti dal nostro Paese.

Il dubbio, che successive indagini non hanno mai confermato né smentito, è che a beneficiare dei sistemi prodotti da Selex sia stato proprio l’ esercito iracheno. Non proprio un colpo di genio per la politica estera italiana, chiamata poco più avanti a partecipare alla stabilizzazione del Paese con un proprio contingente.

La storia continua fino ai giorni nostri, quando la guerra civile sconvolge la Siria e spinge Assad a schierare il proprio esercito. I carri armati che sparano sui ribelli – ma anche su semplici civili – hanno la mira più accurata, una precisione garantita dalla migliore tecnologia italiana.

Ma la Siria non è quasi più una nazione che possa definirsi tale: il livello del conflitto è tale che persino l’esercito non ha più il controllo delle proprie armi. Anche i ribelli sono entrati in possesso di carri armati catturati o consegnati da ufficiali disertori, in un crescendo che rende la possibilità (o la necessità) di un intervento militare straniero sempre più incerta e confusa.

Abbiamo ricostruito la storia delle vendite di armi italiane in Siria in una visualizzazione interattiva che vi proponiamo qui di seguito. Per andare avanti nella lettura basta cliccare sulla freccia a destra sulla vostra tastiera oppure a schermo. Per un risultato migliore vi consigliamo di ingrandire la finestra a schermo intero.


(Credit per la foto: LaPresse)

Li armano e poi li combattono /7

2014-08-09T192241Z_262652949_GM1EA8A099101_RTRMADP_3_IRAQ-SECURITY-kIED-U430302199364793LH-1224x916@Corriere-Web-Sezioni

(di Lorenzo Cremonesi, inviato a Erbil da Il Corriere della Sera del 13 agosto 2014)

Viaggiando in piena notte tra Erbil, la capitale della zona autonoma curda, e la cittadina di Dahuk, sulla provinciale che porta in Turchia, salta all’occhio quanto precaria sia la situazione. Dove ancora a fine luglio la minaccia dell’invasione islamica appariva remota, e comunque sotto controllo, ora vige l’incertezza. Larghe fette di territorio sono prese e perdute in operazioni della durata di poche ore. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che, nonostante l’intervento militare americano, le forze del Califfato potrebbero ancora attaccarci e riuscire a mettere in dubbio l’esistenza stessa delle aree autonome curde», ammette Fuad Hussein, capo del gabinetto del presidente della provincia autonoma del Kurdistan iracheno Massoud Barzani. «Per questo motivo ringraziamo gli Stati Uniti per il prolungamento dei loro blitz e chiediamo alla comunità internazionale di fornirci qualsiasi aiuto militare possibile», aggiunge.

All’origine dell’evidente disorientamento tra i curdi e le loro richieste di assistenza sta il totale effetto sorpresa causato dell’offensiva lanciata dalle brigate islamiche ai primi di agosto. E’ come se il vecchio mito degli indomiti guerriglieri curdi sempre all’erta sulle montagne fosse un poco ossidato. I giovani sono meno propensi al sacrificio. Il benessere degli ultimi anni li distrae. E gli eroi delle guerre contro Saddam Hussein sono in pensione. Pure, in tanti tra questi rispondono alla mobilitazione, anche se con i baffi grigi e la pancetta. «Sinceramente non ci aspettavamo che i radicali sunniti potessero attaccarci tanto presto. Ci avevano provato a giugno e li avevamo battuti. Quindi avevano concentrato i loro sforzi per la conquista di Bagdad. Ancora adesso stentiamo a comprendere la loro logica. Nell’arco di poche ore hanno distolto uomini e mezzi dal loro obbiettivo principale per lanciarli verso nord», dice il generale Helgurd Hikmet Mela Ali, responsabile per la comunicazione dei peshmerga.

La spiegazione più calzante giunge però dall’esame degli arsenali di carri armati, autoblindo, artiglierie, mitra e munizioni di ogni calibro catturati dalle brigate islamiche all’esercito regolare iracheno durante la loro presa di Mosul e la strabiliante serie di vittorie nel centro-nord del Paese ai primi di giugno. Allora ben sei divisioni regolari irachene armate ed equipaggiate di tutto punto alzarono le mani e si dettero alla fuga praticamente senza combattere. «Da quel momento le ancora disordinate e male armate milizie islamiche hanno subito una trasformazione radicale. Da forse 30.000 guerriglieri più o meno improvvisati sono diventati un vero esercito con oltre 100.000 soldati dotato di armi e mezzi molto più sofisticati dei nostri. Noi usiamo ancora le armi prese all’esercito di Saddam Hussein battuto degli americani nel 2003, loro posseggono il meglio della tecnologia bellica made in Usa. Sappiamo che in due grandi basi a Mosul e una ancora più vasta a Beiji erano stoccati centinaia di gipponi blindati ultimo modello, batterie da 150 millimetri in grado di sparare a oltre 30 chilometri di distanza, oltre a depositi immensi di munizioni di ogni calibro e tipo. Ormai il Califfato è uno Stato, un’entità territoriale organizzata che controlla un’armata super equipaggiata e con ottimi soldati addestrati sui campi di battaglia, specie quelli nella Siria degli ultimi tre anni», spiega ancora Hussein.

Non stupisce che i primi raid Usa abbiano colpito alcune batterie di cannoni che stavano per sparare su Erbil e il suo aeroporto internazionale. Gira voce che gli islamici posseggano anche missili terra-aria, ma non ci sono conferme. «I nostri peshmerga si accorsero subito che i loro bazooka anticarro erano impotenti di fronte alle blindature dei mezzi in mano al nemico. Nella piana di Ninive, attorno ai villaggi cristiani, l’unica scelta possibile è stata la ritirata». Lo stesso avvenne per le unità attestate attorno alla diga che forma il gigantesco bacino idrico di Mosul. I comandi curdi non credono ora che i capi del Califfato intendano distruggerla. «Se lo facessero, l’intera città di Mosul e parte di quella di Kirkuk, assieme a diversi pozzi petroliferi, sparirebbero sotto 11 metri d’acqua. Ma a pagare il prezzo sarebbe anche il Califfato, visto che proprio a Mosul ha posto il suo quartier generale. Usano la diga per ricattarci: se noi dovessimo cercare di riprenderla e loro si sentissero minacciati, allora sì che potrebbero distruggerla», dice Hikmet.

Uno scenario diverso presenta invece la regione della montagna di Sinjar, nelle regioni occidentali al confine con la Siria, ove sono tutt’ora intrappolati migliaia di yazidi. «Quella zona è complicata. Tutto attorno vivono tribù arabe sunnite, che sono passate nei ranghi del Califfato, specie dopo la sua cattura della città di Tel Afar. Ciò rende difficilissimi i movimenti dei peshmerga. Le colonne islamiche hanno preso i villaggi uno per uno, causando la fuga di massa delle popolazioni. I nostri soldati sono accorsi per salvare le loro stesse famiglie e si sono uniti all’esodo dei profughi», ricorda Hussein. La presenza massiccia di volontari locali ha dato un importante vantaggio agli islamici: la conoscenza del terreno. I comandanti curdi guardano preoccupati alla commistione tra jihadisti fanatici arrivati dall’estero (parlano di ceceni, libici, afgani, cinesi, ma anche olandesi, francesi, inglesi) e guerriglia sunnita locale. Per combatterli chiedono carri armati, moderne armi anticarro, aerei, elicotteri, munizioni. Conclude Hussein: «Noi non possiamo farcela da soli. Voi europei dovete capire che la nostra battaglia è la vostra battaglia. Dopo Erbil il Califfato mirerà a Roma, Londra, Parigi».

Li armano e poi li combattono /6

7e0bde0e29b0fb71ea0471224596dcaaAnche quest’anno è stato pubblicato il report annuale “Don’t bank on the bomb” a cura di PAX e dell’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN) con il quale le due organizzazioni intendono incrementare la trasparenza sui finanziamenti delle armi nucleari e stimolare il dibattito pubblico a sostegno della loro delegittimazione.

Come sempre il report, chiaro nelle sue argomentazioni, evidenzia una carenza di informazioni ufficiali di pubblico dominio sulla produzione e sugli investimenti delle medesime armi.

Esso non riporta ogni singolo investimento e non include gli investimenti fatti da governi, università o chiese, ma solo dalle istituzioni finanziarie, prendendo in considerazione una varietà di fonti (rapporti delle ONG, report delle istituzioni finanziarie, siti web e altre fonti pubbliche).

I nove Paesi dotati di armi nucleari (Cina, Corea del Nord, Francia, India, Israele, Pakistan, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti) stanno modernizzando i propri arsenali. Alcuni di essi si giustificano dietro la pretesa della manutenzione, mentre altri annunciano apertamente la produzione di nuove tecnologie e piani di sviluppo.

Ad esempio, il Congressional Budget Office nel gennaio 2015 ha comunicato che gli Stati Uniti spenderanno circa 350 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per potenziare e mantenere il proprio arsenale nucleare. Si arriverà a 1.000 miliardi di dollari nell’arco di trenta anni. Il solo programma di radicale modernizzazione delle testate nucleari tattiche B61, di cui 70 sono sul territorio italiano, costerà circa 10 miliardi di dollari. Queste testate saranno destinate ad essere trasportate dai nuovi aerei F35, 90 dei quali saranno acquistati dall’Aeronautica italiana come è stato confermato dalla recente legge sul Bilancio dello Stato 2016” nota Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD).

Si stima che la spesa mondiale per queste armi sia di oltre 100 miliardi di dollari ogni anno. Questa spesa serve per assemblare nuove testate, modernizzare le vecchie e costruire missili, sistemi di lancio e tecnologie di supporto.

Se la maggior parte del finanziamento per le armi nucleari proviene da contribuenti che hanno sede all’interno dei Paesi nucleari, una parte consistente proviene anche da investitori privati di Paesi non-nucleari.

All’interno del report, le istituzioni che finanziano queste attività sono elencate in tre gruppi in base alla misura del loro coinvolgimento nel finanziamento dell’industria militare nucleare intesa come insieme delle aziende che producono componenti chiave per testare, sviluppare, mantenere, modernizzare e dislocare le armi nucleari:

a)   Nella cosiddetta “Hall of Fame” rientrano 13 istituzioni finanziarie a livello globale (5 in più dello scorso anno) che in maniera attiva e significativa hanno adottato, applicato e pubblicato politiche globali di prevenzione contro qualsiasi tipologia di finanziamento ai produttori di armi nucleari. Queste istituzioni finanziarie cosiddette “virtuose” si trovano in Danimarca, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Regno Unito;

b)   40 istituzioni finanziarie (cc.dd. “Runners-Up”), invece, hanno intrapreso una strada di esclusione parziale dei finanziamenti;

c)   382 banche, compagnie assicurative, fondi pensione di 27 diversi paesi (“Hall of Shame”) investono significativamente nell’industria delle armi atomiche. 238 hanno sede in Nord America, 76 in Europa, 59 in Asia e nel Pacifico, 9 in Medio Oriente. Si tratta di 29 istituzioni in meno rispetto all’anno precedente.

Per quanto riguarda l’Italia vi sono alcuni esempi virtuosi e altri meno. Banca Etica rientra nella “Hall of Fame”. Unicredit e Intesa San Paolo nella lista dei “runners-up”. Nel complesso, 11 istituti bancari italiani hanno concesso una somma totale di 4 miliardi e 149 milioni di euro a 26 società. L’azienda Finmeccanica, di cui il 30,2% è del Ministero dell’Economia e delle Finanze, fa parte della “Hall of Shame”. A partire dal 2013 è legata alla produzione di testate destinate a far parte dell’arsenale francese e attraverso la joint venture MBDA e di un programma per la consegna di veicoli di supporto al missile balistico intercontinentale dell’esercito statunitense.

La gran parte dell’opinione pubblica globale concorda sull’inaccettabilità delle armi nucleari. In che modo, dunque, è possibile facilitare la loro eliminazione? Quali pressioni si possono realisticamente effettuare? Se le nucleari sono le uniche armi di distruzione di massa a non essere ancora illegali, quali lezioni si possono trarre dalle esperienze passate sulla messa al bando di altre armi “inumane”?

Innanzitutto, delegittimare le armi nucleari e dimostrare l’opposizione della Società Civile al loro possesso aiuta gli sforzi negoziali per renderle illegali, facilitandone di conseguenza l’eliminazione. Nessuna arma, infatti, è mai stata eliminata senza essere stata messa al bando e senza essere prima stata delegittimata dalla società.

Come la società civile, anche le istituzioni finanziarie nel tempo hanno accolto questo principio, ma, come dimostra il report, la strada è ancora lunga.

Infatti, i 10 maggiori investitori, tutti con sede degli Stati Uniti, da soli hanno fornito capitali per più di 209 miliardi di dollari. Tra questi i primi 3 (Capital Group, State Street e Balckrock) hanno investito più di 95 miliardi.

In Europa, i maggiori investitori sono BNP Paribas (Francia), Royal Bank of Scotland (Regno Unito) e Crédit Agricole (Francia).

53 istituzioni finanziarie, invece, hanno pubblicamente messo in moto politiche virtuose, 18 in più rispetto al 2014.

ABP, un fondo pensione olandese, ha deciso di interrompere i rapporti con le società indiane Larsen & Toubro e Walchandnagar.

Fonds de Compensation, un fondo investimenti lussemburghese, ha deciso di bloccare definitivamente i finanziamenti ad AecomFluor e Huntington Ingalls.

Infine, Nordea, una banca svedese, ha annunciato nel maggio 2015 di voler escludere dai propri finanziamenti la Boeing, a causa del coinvolgimento della stessa nella produzione di componenti per i missili Trident D5.

SEBSwedbank (banche svedesi), Co-operative Bank (Regno Unito) e la Pensioenfonds Horeca & Catering (Olanda) hanno rafforzato politiche simili.

La pubblicizzazione delle politiche che proibiscono gli investimenti ai produttori di armi nucleari può dar vita ad un effetto domino di delegittimazione che coinvolge altre istituzioni finanziarie.

È quanto accaduto con alcune delle “Hall of Fame” e “Runners-up”  che hanno discusso diversi modi per prevenire i finanziamenti delle armi nucleari.

Questo sistema di delegittimazione, volto ad interrompere i flussi finanziari, ha trovato efficace applicazione nella precedente campagna internazionale contro le “cluster bombs”.

A differenza delle armi nucleari, queste sono state chiaramente bandite tramite uno specifico trattato internazionale, nonostante non tutti i paesi abbiano cessato di produrle o acquistarle.

Il suo successo evidenzia come la pressione economica abbia un grande ruolo nell’interrompere la produzione delle armi “inumane”, anche quando queste armi sono ancora vendute a paesi che non rientrano nel regime dei trattati.

Pertanto, secondo il Rapporto, tagliare i finanziamenti privati alle aziende del settore nucleare militare può certamente dimostrarsi una strategia efficace per bloccarne la produzione, non sostenibile da parte dei singoli stati.

PDF

Watch the video

 

Il rapporto completo è reperibile QUI.

La sintesi del rapporto è stata curata da Emanuele Greco, Maged Srour, Maria Carla Pasquarelli.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /5

popolimissione

A far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis – inchiesta di Ilaria de Bonis per “Popoli e Missione”
Il nostro Paese non solo spende una fortuna per il settore della Difesa (nel mirino della società civile per l’improvvido acquisto degli F35), ma è anche tra i Paesi europei che più esportano armi in Medio Oriente. Quest’anno l’Italia ha persino superato Francia e Germania nella vendita di armi verso Israele: il dato viene dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa. Per impedire di “gettare benzina sul fuoco” in aree del mondo in cui l’equilibrio è già molto precario – alla vendita si è aggiunto anche l’invio gratuito di armi all’Iraq la Rete Italiana Disarmo ha chiesto al governo chiarimenti. I centri di ricerca che vi aderiscono producono periodicamente analisi puntuali delle relazioni governative, segnalando le numerose vendite di sistemi militari nelle zone di conflitto, ai regimi autoritari e anche ai Paesi fortemente indebitatati che spendono rilevanti risorse in armamenti.

Solo lo scorso anno – informa Rete Disarmo – su un totale di poco più di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, comprensivo dei “programmi intergovernativi”, quasi il 51,5% ha riguardato Paesi non appartenenti né all’Ue né alla Nato, cioè un insieme di Paesi che non fanno parte delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia. In particolare, oltre 709 milioni di euro, pari al 33% delle autorizzazioni sono state rilasciate ai Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Ma soprattutto nel 2013 sono stati effettivamente esportati verso questi Paesi (in cui non è inclusa la Turchia) sistemi d’armamento per quasi 810 milioni di euro pari al 29,4% del totale.
«L’Italia – spiega l’analista Giorgio Beretta – è il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele: si tratta di oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 (dati del Rapporto Ue) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012». In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Ma a far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis. Il nostro governo ha deciso di inviare: un aereo Kc-767 per il rifornimento in volo, due velivoli senza pilota Predator, 280 militari, tra istruttori delle forze curde che contrastano l’Isis ad Erbil e consiglieri degli alti comandi delle forze irachene. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, ci ha spiegato che le obiezioni a questa decisione sono svariate: anzitutto c’è il non trascurabile dettaglio della provenienza di queste armi che sarebbero parte di uno stock di munizioni ed armi dell’ex Unione Sovietica, confiscate nel 1994 alla nave Jordan Express. Con ogni probabilità oggi poco efficaci. E dunque la funzione di questo invio sarebbe puramente simbolica: dimostrare ai Paesi della coalizione che l’Italia è presente sul campo. In ogni caso, «uno dei rischi più grossi è che quelle più operative finiscano nel buco del mercato nero. C’è il forte timore che possano andare nelle mani sbagliate», ha spiegato Vignarca. E anche nell’universo curdo le “mani sbagliate” non mancano.

«La sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e da Centri di ricerca come il Sipri di Stoccolma», scrive la Rete Italiana Disarmo. Insomma «il rischio è che si vada ad ampliare un incendio», aggiunge Vignarca. Ma l’obiezione assunta non solo dai movimenti pacifisti, suggerisce che in questo contesto mediorientale così incerto e magmatico, armare il nemico del nostro nemico non paga. In generale, la guerra all’Isis andrebbe fatta con altre armi, suggeriscono ricercatori, analisti e docenti. Ad esempio quella del taglio alle risorse finanziare. Isolare finanziariamente l’Isis, impedendogli di rivendere il petrolio estratto o di commerciare con i Paesi del Golfo, sarebbe una vittoria ben più grande. In un bel libro collettivo, dal titolo “La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna” (a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte per…), la ricercatrice dell’Università di Pavia, Clara Capelli, scrive proprio questo: che l’Isis non è un mostro invincibile e che è da combattere facendo appello alla strategia. Tra le possibili alternative per sottrarre risorse c’è quella di individuare i mediatori tra l’Isis e gli acquirenti del petrolio,e costringerli a non fare da tramite per lo smercio di petrolio le cui risorse vengono impiegate per arricchire i terroristi.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /4

1434897679-isis-bandiere

di Mariella Colonna

Uno studio internazionale, Conflict Armament Research (patrocinato dall’UE), ha reso noto che i terroristi dell’Isis utilizzano armi e munizioni fabbricati in Usa, Russia e Cina. Lo studio – realizzato da osservatori inviati nelle zone di conflitto che hanno lavorato accanto ai peshmerga curdi tra luglio ed agosto di quest’anno – è stato possibile grazie alla raccolta e analisi di bossoli sparsi nei luoghi degli scontri armati con gli jihadisti nel nord dell’Iraq e nella Siria settentrionale. Questo lavoro ha tracciato una mappatura dei materiali bellici in dotazione al Califfato.

Lo studio dice che l’approvvigionamento armato dell’Isis ha diverse provenienze: una parte è in capo a gruppi antigovernativi e a pezzi della sicurezza siriana e irachena corrotti. L’altra arriva dalle incursioni jihadiste che hanno permesso all’organizzazione di raccogliere sul campo armi di fabbricazione americana date in dotazione all’esercito iracheno nel periodo post-Saddam. Ben oltre l’80percento delle circa 2000 cartucce raccolte risultano prodotte in Cina, Russia, Serbia e Stati Uniti. Di queste, più di 300 cartucce per fucili M4 ed M16 consegnati dagli Usa alle forze di sicurezza irachene durante l’occupazione dell’Iraq, sono state prodotte al Lake City Army Ammunition Plant, una fabbrica in Missouri di proprietà del governo americano che produce 4milioni di proiettili di piccolo calibro ogni giorno per l’Esercito Usa. Ma non è tutto. Le munizioni in mano all’Isis comprendono anche bossoli fabbricati dalla californiana Sporting Supplies International Inc e cartucce con il marchio Wolf. Gli M16 sono l’arma usata dagli americani nel 2003 per liberare l’Iraq, utilizzati qualche settimana fa dagli jihadisti durante l’assedio e la conquista di Mosul.

In seguito ai furti di armi commessi dallo Stato Islamico a danno dell’esercito iracheno, si legge nello studio, il Congresso americano si è fatto carico di nuove forniture di armi e munizioni ai militari iracheni e ad alcuni gruppi siriani, limitandosi a richiederne il controllo al Dipartimento di Stato. Controllo non privo di errori perché nel 2007 Washington ha pubblicato un rapporto che evidenziava lo smarrimento di 190mila armi in Iraq che molto probabilmente hanno equipaggiato un esercito.

L’analisi inoltre Conflict Armament Research mette in risalto che anche la Russia ne è coinvolta. Probabilmente indirettamente. Se si considera che Mosca è alleata di Bashar al-Assad al quale fornisce armamenti, ma Damasco è un obiettivo dell’Isis. Infatti, secondo gli osservatori la conquista di Ḥamā è stata fatta principalmente allo scopo di approvvigionamento di armi e munizioni. Perciò Putin risulta il secondo fornitore del Califfato.

I dati dimostrano inoltre che larga parte delle munizioni di produzione cinese sono state inviate in Siria e in Iraq e da lì portati nella zona di guerra. Una piccola parte proviene dall’Iran, paese sostenitore del governo iracheno a guida sciita ed alleato di Assad. Una minima parte proviene dalla terra dove tutto è iniziato.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /3

Il deputato iracheno Qasim Al-Araji ha detto al parlamento iracheno che il suo gruppo, l’Organizzazione Badr, è in possesso di prove documentate che il governo degli Stati Uniti sta fornendo il sedicente Stato Islamico con armi e aiuti militari. Si allunga quindi la già lunga fila di persone che accusano gli USA di fornire aiuti e armi all’Isis. Ormai non si tratta piu’ di voci isolate, ma di un coro plebiscitari0.

Secondo quanto riportato da Almasalah, giovedì il capo del gruppo parlamentare Badr ha condiviso queste informazioni con il Parlamento sostenendo che il gruppo è in possesso di prove contro gli USA e affermando che presto saranno in grado di condividere le prove documentate.

L’Organizzazione Badr è un ramo delle Brigate Badr, l’ala militare del Consiglio Supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (SCIRI), che si è formato durante la guerra del 1982 tra Iran e Iraq e consisteva principalmente di esuli iracheni e rifugiati in Iran. Dal momento dell’invasione a guida americana del 2003, il gruppo ha cambiato il nome da “Brigata” a “Organizzazione” e sono quindi diventati un partito politico iracheno ufficiale. Il gruppo mantiene un’ala militare ed è salito alla ribalta nella lotta contro lo Stato islamico in Iraq, in particolare per il suo ruolo nella liberazione della Provincia di Diyala, a febbraio.

Comandanti delle milizie e funzionari governativi dicono che il Gen. Ghassem Soleimani, un potente generale iraniano, è il capo della strategia nella lotta dell’Iraq contro i militanti sunniti, lavorando in prima linea a fianco di 120 consulenti della Guardia rivoluzionaria del suo paese per dirigere miliziani e forze governative sciite, anche nei più piccoli dettagli della battaglia.

Le affermazioni di Al-Araji sul  sostegno militare degli Stati Uniti allo Stato islamico non sono le prime nel loro genere. Nel mese di gennaio, Hadi Al-Ameri, il Segretario Generale del Badr, ha riferito a Press TV che un aereo americano aveva lanciato armi all’Isis nella provincia di Salahuddin in Iraq. Sotto il video di un elicottero USA che lancia aiuti allo Stato Islamico

Secondo Press TV, uno studio condotto da un gruppo con sede a Londra ha anche scoperto che i militanti Stato islamico avevano usato “quantità significative” di armi contrassegnate come “di proprietà del governo degli Stati Uniti.”

Si ritiene anche che le armi  siano state trasferite allo Stato islamico da altri gruppi ribelli in Siria,  chiamati “moderati” da parte del governo degli Stati Uniti. Il senatore americano Rand Paul aveva già rimarcato la possibilità di trasferimento di armi ai terroristi dello Stato islamico, affermando che “uno dei motivi per cui ISIS si è avvantaggiato è perché stiamo armando i loro alleati.”

Badr non ha ancora rivelato i documenti, per cui non è chiaro se la nuova prova potrebbe rivelare casi analoghi di  supporto, ma solo involontario, allo Stato islamico.