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Sempre il solito, inguaribile Ortomercato di Milano e le mafie

Questa volta c’è un Prefetto che avverte la Commissione Parlamentare Antimafia senza remore o negazionismi con una relazione di cinquantasei pagine consegnata alla Presidente Rosy Bindi e ai membri di Commissione. Nomi e cognomi che sono sempre gli stessi che continuano a circolare da decenni cambiando al massimo di una generazione raccontando benissimo come l’attività investigativa e giudiziaria non bastino per estirpare ma al massimo a “cogliere”. Il Comune di Milano ha tutti i saperi a disposizione per segnare un cambio di rotta forte e deciso e, come continua a ricordare Pisapia, una “legalizzazione” dell’Ortomercato sarebbe un successo per la città. E noi ce lo aspettiamo anzi: lo pretendiamo. Ne scrive Davide Milosa:

 Nelle 56 pagine della relazione consegnata a deputati e senatori arrivati in trasferta sotto al Duomo il 13 dicembre 2013, viene dedicato ampio spazio al rischio d’infiltrazione mafiosa all’interno dell’Ortomercato definito un “centro particolarmente esposto agli interessi dei clan”. Di più: l’infrastruttura che per la distribuzione alimentare copre un bacino di utenza di circa 10 milioni di abitanti, è “un terreno d’elezione dominato dalle diverse espressioni della mafia siciliana (in particolare quella gelese) con la quale, negli anni, hanno collaborato anche clan della camorra e cosche della ‘ndrangheta”. Da questo ragionamento emerge il dato inquietante della presenza di alcune società di movimento terra delle famiglie Trimboli e Catanzariti a loro volta legate alla cosca Barbaro di Platì che da anni pianifica i suoi affari criminali da ville e bar del comune di Buccinasco. Mafia di altisismo livello. Tanto che una recente indagine della Dda milanese ha indicato in Rocco Barbaro, detto u Sparitu, il nuovo referente della ‘ndrangheta in Lombardia.

La vicenda segnalata dal Prefetto al presidente della commissione Rosi Bindi emerge dopo un mirato controllo della Dia nel cantiere del nuovo mercato avicunicolo aperto nel Lotto 3 di via Lombroso esattamente contiguo a quello ittico. L’appalto viene vinto il 17 settembre dalla società Christan Color. Il 23 ottobre Sogemi consegna il cantiere. Quindici giorni dopo si presentano gli investigatori della Direzione investigativa antimafia. In mano hanno un decreto del Prefetto, datato 6 novembre 2013, che invita a eseguire controlli sui camion del movimento terra, settore dell’edilizia nel quale la ‘ndrangheta detiene il monopolio assoluto. Nel mirino così finiscono sei società di trasporti. Ma è su due che pesano forti sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata. Alla base ci sono rapporti di affari tra alcuni trasportatori e gli uomini del clan, oltre a frequentazioni “rilevate nell’attività info-investigativa”. Una contiguità, ragiona il Prefetto, “desunta anche dalla presenza di automezzi su terreni nella disponibilità della suddetta famiglia”.

Con in mano questi dati, l’avvocato Stefano Zani, direttore generale di Sogemi, il 17 novembre 2013 decide di chiudere il cantiere. Contemporaneamente scrive all’azienda appaltatrice e alla Rial sas, titolare del subappalto per il movimento terra, intimando entrambe a non far entrare i camion delle sei aziende di trasporti. Quindi invia un esposto alla Procura di Milano “per gli accertamenti su eventuali profili penali”. Naturalmente Sogemi come anche Christian Color non hanno responsabilità nell’aver aperto le porte dell’Ortomercato ai mezzi delle cosche. Colpe, penalmente non rilevanti, potrebbero, invece, essere date alla Rial che da subappaltatrice affida il lavoro “di sbancamento, con carico e trasporto agli impianti di stoccaggio”, alle sei società finite sotto la lente dell’antimafia milanese. In particolare, ragiona Sogemi, la responsabilità di Rial è legata alla ritardata comunicazione delle imprese poi utilizzate per movimentare la terra. Da qui l’ipotesi di revocare alla stessa Rial i lavori. Revoca che potrebbe arrivare già la prossima settimana e potrebbe diventare operativa fra 15 giorni. Intanto negli uffici della Dia in via Mauro Macchi gli investigatori del capo centro Alfonso De Vito stanno ultimando le interdittive antimafia che riguarderanno due società di trasporti.

Insomma, al di là del caso particolare sulla cosca Barbaro, i Mercati generali restano un obiettivo prediletto dei clan. Tanto che spesso dal suo monitoraggio gli investigatori prendono spunto per inchieste che poi nulla hanno a che vedere con l’Ortomercato. E’ successo poche settimane fa per l’arresto di Antonio Papalia, classe ’75, fermato per droga e associazione mafiosa. Il suo nome emerge da un fascicolo poi archiviato aperto dalla Procura di Milano su alcuni episodi di estorsione all’interno della struttura di via Lombroso 54. Stesso civico al quale faceva riferimento fino al 2009 la società di agrumi di Antonio Piromalli, figlio del capo dei capi della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro.

I Riina e la Puglia

Giusto oggi riflettevo sullo strano legame con la Puglia della famiglia Riina: partendo da Totò che nel carcere di Opera si lascia andare allegramente alle considerazioni con il boss della Sacra Corona Unita Lorusso fino ai viaggi “pugliesi” della sua famiglia. L’idea che Cosa Nostra sia un’entità separata da camorra, ‘ndrangheta e tutte le altre organizzazioni criminali orami è superata dagli studi, dai riscontri e anche nei fatti. Ne ha scritto un articolo come sempre intelligente e interessante Lirio Abbate per L’Espresso:

170908228-b858e71d-d78e-4881-b375-73cbf6cafb86La signora Ninetta Bagarella, sposa di Totò Riina, nei mesi scorsi ha fatto un giro nel Brindisino. Dopo aver abbracciato la figlia e i nipoti che si sono trasferiti in Puglia, è andata a salutare la moglie del capomafia Giuseppe Rogoli, uno dei fondatori della Sacra corona unita, in carcere per scontare tre ergastoli. Le due donne, secondo quello che risulta a “l’Espresso”, si incontrano a Mesagne, come se fosse una visita di cortesia, e conversano da vecchie amiche, accomunate dalla stessa passione: quella per i boss. La coincidenza vuole che sia pugliese pure la “dama di compagnia”, così viene chiamato nel gergo carcerario il detenuto che trascorre ogni giorno l’ora di socializzazione con i mafiosi al 41 bis. La “dama” di Riina è Angelo Lorusso, con un passato criminale insignificante, ma ben preparato sulla storia di Cosa nostra. Della mafia siciliana il pugliese conosce tutto. Lorusso stuzzica Riina durante le passeggiate nel cortile del carcere di Opera e lo aizza sui magistrati di Palermo, in particolare su quelli che sostengono l’accusa nel processo sulla trattativa fra mafia e Stato. Lo fa parlare delle stragi, a cominciare dalla morte del giudice Chinnici fino agli attentati contro Falcone e Borsellino, criticando anche il comportamento del latitante Matteo Messina Denaro che «pensa solo a se stesso» fino alla mancanza di coraggio dei mafiosi di oggi che non vogliono delitti eccellenti. Ma contro il pm Nino Di Matteo le affermazioni del boss sono pesantissime. Riina lo vorrebbe morto «come un tonno». Ma in libertà non ci sarebbe nessuno disposto a riprendere la stagione stragista dei corleonesi. Sarà così? Lorusso incalza molto Riina, facendogli fare affermazioni e rivelazioni su stragi e omicidi che per tre mesi sono state registrate da telecamere e microspie della Dia fatte piazzare dai pm. Si vedono i due parlare a lungo, appartati in un angolo in cui Riina e Lorusso credono di essere al riparo e quindi possono discorrere liberamente. Ma chi ha voluto che Lorusso diventasse la “dama” di Riina? La coppia sembra essere stata formata dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) dopo aver ricevuto l’indicazione del nome dalla Procura nazionale antimafia. Una prassi che si ripete per tutti i capimafia detenuti. Sarà forse una coincidenza, ma anche la “dama” precedente a Lorusso assegnata a Riina era un pugliese. L’unico detenuto al 41 bis che da quasi trent’anni si rifiuta di avere una compagnia è don Raffaele Cutolo, perché non gradisce i reclusi che gli vengono assegnati per la socializzazione. E da sempre trascorre la sua detenzione in completa solitudine. La procura di Caltanissetta sta indagando su queste minacce, contenute nelle conversazioni intercettate da settembre a novembre scorso. E il Dap nei giorni scorsi ha completato il parere per sottoporre Riina a un ulteriore restringimento del carcere duro previsto dal 41 bis, che lo porterà a un ulteriore isolamento: niente più “dama di compagnia” e niente più passeggiate per sei mesi. In passato allo stesso provvedimento sono stati sottoposti Bagarella e Provenzano. Il comportamento di Riina, con l’eco mediatica provocata dalle intercettazioni, ha creato negli ultimi mesi un clima tesissimo dentro il carcere di Opera. Lì il “capo dei capi” sembrava primeggiare su tutti e rispolverare un atteggiamento spavaldo da padrino, al punto da fargli rispuntare in viso il suo ghigno da “belva”: quello che illuminava il suo volto prima di lanciarsi sulla vittima designata, descritto da tanti collaboratori di giustizia. Un’eccezione anomala. A Opera sono rinchiusi i più pericolosi criminali, ma a nessuno è permesso avere lo stesso comportamento assunto da Riina.

La cella “zero”

A proposito di diritti e di carceri:

“Erano le dieci e mezza di sera. All’improvviso, senza motivo sono stato portato giù nella cella zero: le guardie mi hanno fatto spogliare nudo, mi hanno picchiato, mi hanno umiliato”. A Fanpage.it parla un ex detenuto del carcere di Poggioreale che, con la Garante dei Detenuti della Campania, ha sporto denuncia. E ha segnalato anche la famigerata “cella zero”: “E’ una cella del piano terra dove ti puniscono, ti picchiano, è isolata da telecamere e da tutto”. L’ex detenuto ha denunciato, così, ai media e alla magistratura. Ha rilasciato un’intervista alla tv privata Piùenne e poi a Fanpage rivelando questa denuncia gravissima. Nel merito è intervenuta anche la Garante dei detenuti della Campania, Adriana Tocco: “Davanti a queste denunce io ho il dovere di portare tutto all’attenzione della magistratura. E’ un reato penale grave e ovviamente devo comunicarlo nel frattempo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”. Poi ricorda di aver presentato “da tempo una denuncia firmata da 50 detenuti per maltrattamenti, e ancora non è accaduto nulla”. “Ho sentito parlare molte volte – aggiunge – del piano zero. Io non l’ho mai visto ma prossimamente chiederò”.

 

Chissà cosa ne pensa la Cancellieri.

I banchetti tra politica, mafia e giustizia (e ‘ndrangheta)

Una notizia di Luca Rocca che (ne scrivevamo proprio oggi qui) aggiunge particolari al quadro:

banchetto2Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso.

Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria.

Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

“E c’è andata anche bene questa volta!”: la vergogna della bonifica ex Sisas

bonificagrossi16febAll’ex polo chimico di Pioltello Rodano (periferia est di Milano) la bonifica è una questione di “carte a posto” esattamente come nella Terra dei Fuochi. Cambiano solo gli accenti delle telefonate:

«Eh, per forza! Poi i 700 sai dove vanno» «Lo so lo so… E c’è andata anche bene questa volta!» Ridono. «Ehhh. Questo Commissario è fantastico!» «Madonna santa! Incredibile! Che roba!». Isettecentomila euro – si diceva in una telefonata del 15 maggio 2011 fra due manager della società di smaltimento rifiuti Daneco Impianti – erano per Luigi Pelaggi, il «commissario» governativo «fantastico», che le tonnellate di nerofumo contenuto nell’ex Sisas, ex polo chimico di Pioltello Rodano (est di Milano), avrebbe fatto trattare come qualcosa di meno pericoloso, così da inviare (grazie alla truffa delle etichette) in siti – in Italia e a Waco in Germania – che il nerofumo non potevano contenere, ma gli esiti declassificati del suo trattemento si.

Per trasformare un rifiuto pericoloso in un semplice rifiuto facilmente smaltibile basta cambiare un codice, un numero, un segno di penna sulla bolla e la magia alle spese dell’ecologia e della comunità è fatta. La questione della bonifiche in Lombardia (orami uno stillicidio che dura da anni e che per anni è stato “calmierato” politicamente dall’ala protettrice di Roberto Formigoni) non è una mera questione ambientale ma soprattutto una desolante mancanza di spessore etico della politica. Basta leggere i nomi degli indagati per rendersene conto:

È stato arrestato ieri mattina Luigi Pelaggi, che vanta un pedigree di nomine politiche romane: capo della segreteria tecnica dell’ex ministro – allora all’Ambiente – Stefania Prestigiacomo, già commissario straordinario per l’emergenza idrica delle isole Eolie, e segretario tecnico della commissione che nell’agosto 2011 concesse all’Ilva di Taranto l’Autorizzazione integrata ambientale (per questo Pelaggi è accusato dalla Procura di Taranto di «avere orientato la commissione nella direzione richiesta» dagli stessi Riva).

Ed è Pelaggi a venire nominato, con decreto dell’aprile 2010 del presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi, commissario straordinario per il sito di interesse nazionale ex Sisas, per cui l’Italia rischia entro marzo 2011 la procedura d’infrazione europea da 400 milioni di euro, vista la mancata bonifica di 280 mila tonnellate, sparse in tre discariche e su 330 mila metri quadrati. La bonifica viene effettuata (l’Italia scampa la macroscopica multa), ma come?

A rispondere sono i sei arresti di ieri, eseguiti dai carabinieri del Noe di Milano e Roma, ordinati dal gip Luigi Varanelli, sul lavoro della Procura (Alfredo Robledo, Paolo Filippini e Paola Pirotta) e della Dda (Piero Basilone). In 425 pagine, il romanzo del traffico illecito di rifiuti che tra i reati snocciola corruzione e truffa aggravata allo Stato. Agli arresti, oltre Pelaggi, il presidente della Daneco Impianti Srl, Francesco Colucci, e l’amministratore Bernardino Filipponi; ai domiciliari Fausto Melli, membro del Cda della Sogesid spa, all’epoca direttore dei lavori del cantiere del sito, Luciano Capobianco, nel cda della Sogesid, e Claudio Tedesi, consulente tecnico del Commissario Straordinario ma, soprattutto, trait d’union con la grande gestione dei rifiuti che parte dalla Sadi di quel Giuseppe Grossi (deceduto) e che portò allo scandalo dell’interramento di scorie speciali e tossiche nelle fondamenta del quartiere modello Santa Giulia. E poi ci sono 38 indagati: tra i funzionari regionali, anche il direttore generale dell’Arpa Lombardia, Umberto Benezzoli.

In tutto questo tra le discariche di destinazione dei rifiuti tossici rispunta ancora una volta la discarica di Cavenago d’Adda (LO) su cui abbiamo cercato (inutilmente) di fare accendere i riflettori anche nella scorsa legislatura di Regione Lombardia. Oggi infatti:

Si legge nel testo dell’interrogazione parlamentare (presentata il 27 luglio 2011 dagli allora parlamentari Alessandro Bratti (Pd), Carlo Monai (IdV) e Chiara Braga (Pd) NDR), che cita Cavenago e l’impianto gestito da Eco Adda Srl, nel mirino delle polemiche per il progetto di ampliamento della discarica. «Non c’è stata mai la volontà politica di fare controlli alla discarica di Cavenago», denuncia il Comitato contrario all’ampliamento. Accusa pesante, dato che nella “stanza dei bottoni” di Eco Adda Srl c’è la Provincia di Lodi, che detiene una quota di partecipazione a doppia cifra. Eal Spa (società controllata dalla Provincia stessa) nel 2004 stipulò un protocollo d’intesa per rilevare quote di Eco Adda proprio con la società Daneco Gestione Impianti Spa, parte del colosso finito nella bufera ieri l’altro per le presunte mazzette pagate a Pelaggi. Il lodigiano Tedesi, 53 anni, ex segretario della Democrazia Cristiana nel Lodigiano, consulente del re delle bonifiche Giuseppe Grossi, direttore di Asm Pavia, finito agli arresti domiciliari per l’accusa di truffa, corruzione e traffico illecito di rifiuti, verrà interrogato la prossima settimana dal giudice.

E forse ha ragione Michele a scrivere che il lodigiano Tedesi sarebbe ora che venisse dimesso dalle aziende partecipate del Comune di Lodi, no?

Un (brutto) colpo per l’antimafia. Ancora.

Francesco-MollaceCerto siamo ancora al momento delle indagini e la Calabria è terra di ritorsioni incrociate in cui la ‘ndrangheta è molto più “politica” e “giustizia” di quanto se ne possa pensare per i non addetti ai lavori ma la notizia che scrive oggi Guido Ruotolo per La Stampa è una notizia che rimetterebbe in fila (se confermata) una serie di strane “coincidenze” sugli atteggiamenti del pentito Lo Giudice e sui risultati di alcune indagini. Io credo che sarebbe bene, per l’antimafia tutta, avere un po’ meno “sicumera” e un po’ di più di “intelligenti dubbi”:

Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta.

L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone.

Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi.

Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice.

Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace – che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano – avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava.

«Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante.

Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato).

E intanto a Roma si spara

A Casalotti sparano al pregiudicato Roberto Musci, 34 anni e agli arresti domiciliari. Nell’ambiente della malavita era soprannominato “Sgambone” e ora è morto ammazzato all’altezza di via Lazzati 1.

Musci, originario del Trullo era ai domiciliari in quanto stava scontando una condanna per una serie di rapine commesse nel 2009 in alcuni autogrill. Venne arrestato dalla polizia stradale che indagava sulla banda di feroci rapinatori che assaltava le stazioni di servizio. Il fratello Marco, detto “Sgambuccio”, venne ucciso in strada a via Monte delle Capre, nel quartiere del Trullo, con otto colpi di pistola a giugno del 2009 da Giorgio Stassi padre di una ex fidanzata di Musci, stanco delle prepotenze subite dalla figlia.

Roberto Musci venne indagato nel 2011 per l’agguato di Casal Bruciato dove venne ferito a colpi di pistola il pregiudicato agli arresti domiciliari Giulio Saltalippi. Quest’ultimo era ai domiciliari perché doveva scontare una condanna per aver picchiato Musci dopo una lite per motivi di viabilità sul Gra. Vennero entrambi arrestati.

Il numero di omicidi legati alla criminalità (più o meno organizzata) qui passa come una brezza dal lido.

La scelta non è dunque “rinchiudersi nel partitino” né tantomeno sciogliersi nell’indistinto “campo largo dei democratici”

Un emendamento molto interessante presentato al Congresso (sottovoce) di SEL a firma di Barbara Auleta, Stefano Ciccone, Enzo Mastrobuoni e Carolina Zincone:

SEL deve lavorare dunque per un processo di aggregazione e confronto che porti alla costruzione di una nuova forza autonoma della sinistra, popolare, plurale, unitaria e innovativa. Non la sommatoria di frammenti di ceto politico teso all’autoconservazione, ma una nuova esperienza capace di aggregare risorse per produrre capacità di iniziativa ed elaborazione. Il rilancio di una autonomia politica e culturale della sinistra e la costruzione di una coalizione di governo trasformatrice sono due obiettivi non in contrapposizione ma oggi inscindibili. La costruzione di un’alleanza capace d’innovazione non è infatti, oggi, un dato scontato ma un obiettivo da conquistare per il quale è necessario si batta un soggetto della sinistra forte. La scelta non è dunque “rinchiudersi nel partitino” né tantomeno sciogliersi nell’indistinto “campo largo dei democratici”, ma costruire una sinistra più larga di noi, capace di coniugare governo e trasformazione ponendola in relazione con le domande della società. Dobbiamo metterci in relazione con la domanda sociale che chiede di rompere con la religione dei vincoli di bilancio che ha pesato a sinistra e aprire un dialogo con l’istanza di cambiamento e con la critica alla degenerazione dei partiti che hanno alimentato l’astensione o il voto al Movimento 5 Stelle. Va ricostruito un rapporto con quella sinistra che non ha creduto a sufficienza nella nostra proposta e che oggi cerca una risposta più convincente. Ma questo ruolo e questo processo per essere vero e con i piedi ben piantati nella realtà non si costruisce come rapporto tra stati maggiori dei partiti e dei movimenti, si costruisce producendo fatti politici, stando sin da ora nei processi reali costruendo relazioni e nuovi rapporti con associazioni, gruppi, singole personalità con cui definire patti ed accordi anche su singole campagne.

La missione (per ora, opinione personale, fallita) è questa qui. Era questa qui. E difficilmente sarà rispettata. Ma spero di sbagliare.

Non solo pizze: la camorra gioca a calcio con il “principe” Giannini

Giuseppe-GianniniL’ex calciatore della Roma e della nazionale italiana Giuseppe Giannini è tra gli indagati per il reato di frode sportiva con l’aggravante della finalità mafiosa in relazione alla partita Gallipoli-Real Marcianise, disputata nel 2009 e valevole per l’ultima giornata del campionato di Lega Pro Prima divisione, girone B. La circostanza è emersa dalle indagini sulle attività del clan Contini, che hanno portato questa mattina all’esecuzione di un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di 90 persone. Dalle indagini svolte dai carabinieri di Roma è emersa l’attività illecita che sarebbe stata realizzata nel maggio 2009 da Salvatore Righi e dal figlio Ivano, finalizzata a truccare il risultato della partita a favore del Gallipoli, che con la vittoria guadagnò la promozione diretta in serie B.