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Politica

I temi e le news della politica in Lombardia e in Italia. L’attività politica di Giulio Cavalli in consiglio regionale della Lombardia.

‘Differenze tra torte ed ebrei? Le torte nel forno non gridano’

La frase l’ha pronunciata il  direttore sociale dell’Asl di Pavia, Giuseppe Imbalzano, 59 anni, a lungo dirigente dell’Asl di Lodi per poi passare a Bergamo e Milano, durante un incontro con i rappresentati di Comune e Provincia. Lui si difende dicendo «Quando ho detto quella battuta, le persone hanno sorriso — dice —.Non voleva essere un’affermazione pesante nei confronti di chi ha sofferto ed è stato trattato senza considerazione per la sua dignità umana. È stata una sciocca battuta, che non aveva alcuno spirito offensivo». Imbalzano continua: «Non avrei mai immaginato che una sciocchezza del genere potesse sollevare un “polverone”, anche per il contesto nel quale è stata pronunciata». E ripete: «Non volevo offendere la sensibilità degli ebrei, nella mia vita non ho mai manifestato mancanza di sensibilità nei confronti di ebrei e altre minoranze». Aggiunge anche che nessuna denuncia è giunta allo sportello.

Beh, Imbalzano, la denuncia e la questione in Aula la portiamo noi, stai tranquillo. Perché non solo non ci ha fatto ridere ma siamo proprio curiosi di sapere cosa ne pensano la gente, i dirigenti, l’assessore e il caritatevole Formigoni. E abbiamo un dovere di sdegno da esercitare. Senza battute.

Distrutto dal ridicolo

Non c’è personalità, per quanto spiccata e rispettabile, che non possa essere distrutta dal ridicolo, sia pure, questo, meschino e sciocco. Osservate l’asino, per esempio: la sua personalità è quasi perfetta, esso è uno spirito eletto tra gli animali più umili, eppure, guardate dove l’ha condotto il ridicolo. Invece di sentirci lusingati quando ci chiamano asini, restiamo in dubbio. (Calendario di Wilson lo Zuccone – Mark Twain)

Cluedo Vaticano

E’ stato il maggiordomo dunque. E ‘analisi migliore è di Galatea:

Quindi alla fine, dopo mesi di sospetti e di veleni, hanno scoperto che a trafugare documenti segreti e a diffondere voci incontrollate era il maggiordomo del Papa. Il maggiordomo, capite? Insomma, sono in Vaticano. E non sono nemmeno in grado di inventarsi un complotto come Dio comanda.

E in pochi hanno notato che nessuno metta in discussione la veridicità dei contenuti, comunque.

 

La bugia a vela di Formigoni

La vicenda delle vacanze di Formigoni mi ha sempre entusiasmato molto poco. Mi annoiano generalmente le polemiche che gocciolano su vicende molto notiziabili mentre trascurano il punto politico: Formigoni è il Presidente eletto con firme false, Formigoni (e l’Aprea) stanno distruggendo la scuola pubblica, Formigoni è l’uomo spaventoso che emergeva già ai tempi di Oil for food, Formigoni ha devastato (devastato, sì) il suolo con un consumo dissennato e affaristico, Formigoni continua sistematicamente a privatizzare i servizi e lottizzare la sanità. Insomma, ho sempre prensato che il tema politico su Formigoni e Regione Lombardia sia grande come una casa e molto più ampio degli scontrini delle sue vacanze. Ma la dichiarazione di Daccò che si legge stamattina su Repubblica ha un senso anche politico:

MILANO – “Da anni, da giugno a settembre lo yacht Ad Maiora è a disposizione di Formigoni… Il presidente è stato mio ospite per tre capodanni ai Caraibi, non mi ha restituito nulla…”. Arriva dal carcere di Opera la risposta alla domanda che Repubblica pone da tempo a Roberto Formigoni su chi gli abbia pagato le recenti, lussuose vacanze. Arriva dal verbale rilasciato sabato scorso da Pierangelo Daccò, il lobbista-consulente-faccendiere, detenuto dal 15 novembre.

LA VERITÀ DEL MARINAIO
Non è raro che a bucare le versioni più blindate siano i dettagli. In questo caso è il marinaio responsabile dello yacht dal simbolico nome “Ad Maiora” a permettere ai pubblici ministeri un salto di qualità: “Tutte le estati, da giugno a settembre – questo si legge in sintesi sul verbale – lo yacht era messo nella disponibilità esclusiva del presidente della Regione Lombardia. Daccò usava l’altra barca, riservando “Ad Maiora” a Roberto Formigoni”.

A STAGIONE COSTA 50MILA EURO
Quando il procuratore aggiunto Francesco Greco e i suoi sostituti mettono questa verità portuale (e non politica) sotto gli occhi del milionario detenuto, Daccò reagisce. È ritenuto il perno delle inchieste nate sul crac dell’ospedale San Raffaele e sul dissanguamento dei conti della fondazione Maugeri. Cerca di trovare le parole giuste: “Non si può definire come un’esclusiva, perché qualche volta m’imbarcavo anch’io. Però effettivamente ogni anno, da diversi anni, da giugno a settembre “Ad Maiora” è a disposizione di Formigoni”. 

In Liguria, in Sardegna, per i week end, e con la mania del presidente per il fax, che costringe a deviazioni di rotta, in modo da poter ricevere e trasmettere ritagli di giornali e documenti. La barca costa, quanto?, domandano i magistrati. “I costi oscillano tra i 30mila e i 50mila euro a stagione”, è la risposta.

Contributi, divisione spese? Zero. Sa o no Roberto Formigoni che Eurosat Telecommunication Ltd, la società irlandese di Daccò, ha pagato quasi 150mila euro di costi vivi dello yacht “Ad Maiora”, escluse le spese del personale, che comprendono stipendio e carta di credito per le spese quotidiane? “Formigoni era mio ospite, non mi ha mai restituito nulla”, ammette Daccò. Tanti parlano di “amicizia”, in questa storia, e non di favori, benefici, regali di varia natura. Nemmeno parlano di lobby, anche se “Ricordo che Daccò mi disse che era opportuno continuare ad avere la disponibilità della barca perché – si legge nel verbale del “socio” di Daccò, l’ex assessore dc Antonio Simone – poteva servire per le pubbliche relazioni”.

Roberto Formigoni è un bugiardo. Ed è un bugiardo che è andato a sbriciolarsi sul caso di una barca al mare come un adolescente con i pantaloni abbassati in cameretta che nega all’infinito perché non ha più il senso della realtà, ha perso la responsabilità di dare delle risposte e si è arroccato come si arroccano quelli che sanno benissimo di non potere dare troppe spiegazioni su troppi punti.

Forse il governatore non si rende conto che essere smentiti da un faccendiere in carcere (e il suo marinaio) lascia un senso di desolazione generale peggiore del Trota o della Minetti su Regione Lombardia perché svela la bugia sistematica accettata come strumento di potere e di comunicazione con gli elettori, racconta di luoghi non istituzionali che puzzano di decisioni politiche prese “fuori scena” successivamente giustificate e travestite in Consiglio e Giunta e illumina uno stile completamente scollegato dai cittadini. Poi ci viene a dare lezioni sull’antipolitica. Lui.

 

EXPO, sempre meglio.

Avevamo già parlato del primo appalto assegnato su EXPO 2015. Oggi leggiamo l’ultima novità dal Corriere:

MILANO – La procura di Milano ha aperto un’inchiesta per turbativa d’asta in relazione ad una gara d’appalto per l’affidamento dei lavori inerenti alla rimozione di materiale nel sito di Expo 2015, gara aggiudicata nell’ottobre 2011. I pm Paolo Filippini e Antonio D’Alessio coordinati dall’aggiunto Alfredo Robledo hanno inviato la Guardia di Finanza presso la sede di MM (Metropolitana milanese Spa) in via del Vecchio Politecnico 8 con un decreto di esibizione di documenti relativi all’appalto.

L’APPALTO – La gara oggetto di accertamenti è la prima e l’unica già assegnata. Se l’è aggiudicata la Cooperativa muratori e cementisti di Ravenna, che sul suo sito il giorno successivo scriveva: «A Cmc il primo appalto per Expo 2015. Sono stati aggiudicati a Cmc di Ravenna i lavori di rimozione delle interferenze nel sito espositivo dell’Expo 2015 a Milano per un totale di circa 65 milioni di euro. I lavori, che rappresentano il primo passo per l’avvio della realizzazione del sito che ospiterà l’Expo, inizieranno a giorni e si concluderanno alla fine del 2013».

L’OFFERTA – L’appalto, relativo alla pulizia e allo sgombero dell’area (rimozione delle interferenze, ovvero di tutte le vecchie strutture e impedimenti vari presenti sull’area, da una torretta Enel a una roggia), era da 90 milioni euro, a cui sommare 6,8 milioni per gli oneri alla sicurezza, che non sono soggetti a ribasso. La società di Ravenna ha vinto con un’offerta al massimo ribasso, pari a 58,5 milioni. Dopo questa prima gara, Expo 2015 Spa e il sindaco di Milano Giuliano Pisapia decisero di modificare i criteri per l’aggiudicazione degli appalti eliminando il criterio del massimo ribasso.

 

Fare l’infame. In Veneto.

"O Dottò" e il suo Veneto: Crisci, il boss del Nord-Est

La sua primavera è iniziata due anni fa, quando ha trovato la forza di denunciare i camorristi che volevano impossessarsi della sua azienda. Ha coraggio da vendere Antonio, origini meridionali e viso sorridente nonostante la vita blindata che gli è stata imposta: è il titolare di una delle oltre 100 aziende venete finite nella mani del clan dei casalesi. Gli altri imprenditori hanno accettato passivamente gli ordini dei boss che tra Padova, Treviso, Rimini e Milano, gestivano un giro di usura camuffato dalla società finanziaria “Aspide”. Lui invece, non solo è corso dai magistrati appena intuito che il prestito concessogli era solo una scusa per acquisire l’azienda, ma è stato infiltrato nelle file del clan.

E così ogni sera, per otto lunghi mesi, dopo la giornata vissuta al fianco dei boss, scriveva il rapporto su affari, pestaggi, donne, droga e umiliazioni a cui aveva assistito. Un teatro dell’orrore in cui Antonio recitava la parte dell’impresario amico dei Casalesi, diventando il punto di riferimento economico del clan. Il cantiere della sua ditta era diventato il palcoscenico dove il boss Mario Crisci e suoi uomini mettevano in scena i peggiori abusi sugli imprenditori vittime dell’usura. 

“Utilizzavano il marchio del clan in franchising”, scherza in tono amaro Antonio che del Veneto ha visto il benessere ma anche la crisi economica che spinge molti imprenditori togliersi la vita e a tuffarsi nelle mani degli strozzini mafiosi. “Le due cose non sono slegate”, fa notare. A mettere in contatto l’imprenditore infiltrato con la società dei camorristi è un suo collega, già debitore del clan. “Sapeva che stavo cercando un prestito, e mi suggerì di andare all’Aspide, che senza troppe domande e garanzie mi avrebbe concesso tutti i soldi che chiedevo”.

Un pezzo tutto da leggere e conservare del bravo Giovanni Tizian per Repubblica che racconta come le mafie si sentano impunite in Veneto. Impunite non solo dal punto di vista imprenditoriale e giudiziario ma (e questo è l’aspetto terrificante) nei modi e nei costumi: nella superbia di “apparire” mafiosi, nella violenza esibita, nella retorica mafiosa utilizzata come materiale didattico.

Per lui la libertà è più forte della burocrazia, del pericolo, dell’indifferenza di tanti suoi colleghi che a testa bassa preferiscono non sentire, non vedere e non parlare di quel mostro criminale che divora pezzi interi di economia.

 

Brescia che si incarta sulla discarica di amianto

La situazione di Brescia dal punto di vista ambientale e di gestione del territorio è un bigino indispensabile per una modello di gestione regionale credibile (e possibilmente vincente) del dopo Formigoni. Brescia ha le carte in regola per essere la summa di tutto ciò che non si deve fare e per ridefinire il termine di saturazione ambientale. Ne avevamo già discusso qui e in commissione ambiente con il Comitato contro le nocività che ha dimostrato come ormai i cittadini abbiano gli strumenti e la voglia per essere più tecnici dei tecnici nelle analisi delle criticità. La discarica di amianto di via Brocchi sarebbe il colpo al cuore di una situazione che era già insostenibile anni fa. Eppure le soluzioni nel breve termine sono possibili: ieri sono stato in Piazza della Loggia con i membri del comitato e la stampa per provare una volta per tutte a fare chiarezza e richiamare tutti alla responsabilità. Ne ha scritto bene Alessandra Troncana sul Corriere della Sera:

In gergo si chiama ordinanza contingibile urgente. In pratica si tratta di un escamotage con cui il sindaco Adriano Paroli, cui spetta tutelare la salute pubblica, potrebbe ottenere dalla Regione la sospensione dell’autorizzazione alla discarica di via Brocchi, giusto il tempo di appurare l’accumulo di criticità dell’area. E’ la proposta che i vertici del Sel hanno lanciato giovedì 24 maggio sotto la Loggia, nel corso di un incontro con cittadini e membri del Comitato contro le nocività. Come ha detto il consigliere regionale Giulio Cavalli, «Mentre aspettiamo gli esiti delle analisi sulla quantità di Pcb e diossina che infestano San Polo (questione di giorni e l’Arpa le renderà note, ndr) è l’unica cosa che si potrebbe fare per fermare, anche solo poche settimane, questo scempio ambientale». La Giunta non potrebbe fare nulla di più, dal momento che l’autorizzazione alla costruzione del sito spetta al Pirellone. Intanto, la questione sarà discussa nel prossimo consiglio comunale, previsto mercoledì 30 maggio. Lidia Bontempi, del Comitato, non esclude che si riprenda lo sciopero della fame: «Già, perché il problema di via Brocchi figura al sedicesimo posto nell’ordine del giorno. Niente di più facile che della discarica non si parli nemmeno mercoledì. Vedremo che fare».

Sonia Alfano e l’IDV, per l’ultima volta

Poiché qualcuno si è agitato (un po’ troppo forse, no?) per la mia semplice ripresa del comunicato di Massimo Donadi sul “ruolo” (uso un eufemismo, va) di Sonia Alfano in IDV, accolgo con piacere la spiegazione e la cronologia degli eventi che Sonia ha deciso di scrivere sul suo sito. Resta inteso poi che ognuno può tirare le proprie conclusioni e avere le proprie idee. Ma almeno si smette di millantare altro perché in politica non c’è niente di più salutare delle proprie prese di posizione.

Il manuale antimafia di Giuseppina Pesce

Le parole sono importanti. E forse ci perdiamo sui convegni e le analisi mentre qualcuno serve elementi che semplificano la visione, devastanti nella loro semplicità, mentre ci dicono cosa sta succedendo e quali sono i lati della storia che non riusciamo o non vogliamo vedere. E che comunque sono sempre difficili da raccontare. Giuseppina Pesce ha deposto durante un’udienza del processo “All Inside” che ha portato alla sbarra la cosca Pesce proprio grazie alle sue dichiarazioni. Le frasi sono lame affilate. Lo racconta un articolo di net1news:

«I contatti con Carnevale – ha detto la pentita – avvenivano tramite mio suocero, Gaetano Palaia, che era suo amico».  Il giudice Carnevale, il quale in alcune intercettazioni proferiva insulti contro il defunto giudice Giovanni Falcone,  veniva definito “l’ammazzasentenze”: era stato il pentito Gaspare Mutolo a dichiarare che Carnevale era “avvicinabile”. Dopo di lui altri 11 pentiti hanno fatto il nome del magistrato. Nel 2002, però, la Cassazione lo ha assolto con formula piena perché “il fatto non sussiste”, constatando prove insufficienti a sostenere tali accuse e respingendo anche le deposizioni dei colleghi di Carnevale, magistrati di cassazione, che denunciavano le sue pressioni per influire sui processi: secondo i giudici le loro dichiarazioni erano inutilizzabili in giudizio. Successivamente la deposizione di Pina Pesce ha avuto come oggetto la descrizione degli affari della cosca Pesce. Questa, secondo quanto ha affermato la pentita rispondendo alle domande del pm, Alessandra Cerreti, trae enormi guadagni dal controllo degli appalti per l’ammodernamento dell’A3 nel tratto che attraversa la Piana di Gioia Tauro per quanto riguarda, in particolare, i lavori di movimento terra. In più, ha riferito ancora la pentita, ci sono le estorsioni:  « Non c’è un negozio o un’impresa di Rosarno – ha detto Giuseppina Pesce – che non paga il pizzo. A meno che non sia di proprietà di nostri parenti».   La pentita ha riferito delle disposizioni che vengono dettate dai capi della cosca detenuti attraverso colloqui con parenti che si spacciano come loro familiari grazie a falsi certificati di parentela che sono stati rilasciati dal 2006 e fino al 2011 dal Comune di Rosarno. Giuseppina Pesce ha parlato anche di come la cosca riuscisse a nascondere i cadaveri delle persone uccise e fatte sparire nel cimitero di Rosarno minacciando i dipendenti. «I corpi di mio nonno Angelo e di mia zia Annunziata – ha detto la pentita -, uccisi entrambi per punizione perchè avevano relazioni extraconiugali, in realtà non sono stati portati lontano da Rosarno. Si sono sempre trovati nel cimitero del paese in loculi senza nome dove venivano tumulati di notte».   Un ultimo riferimento la pentita l’ha fatto al giro di carte di credito clonate gestito dalla cosca. «Carte – ha detto – intestate a clienti statunitensi che le hanno utilizzate in alberghi e ristoranti della Lombardia. Ne ho avuto una anch’io e l’ho usata un paio di volte prima che il titolare la revocasse dopo avere notato spese che non aveva effettuato».

Ecco, per chi voleva una lezione di mafia (e antimafia) qui gli elementi ci sono tutti.

Umberto Ambrosoli e Giulio Cavalli si tuffano nell’epopea di Andreotti

da ILCITTADINO

«Il processo Andreotti racconta che, in questo Paese, ripetere una bugia infinite volte funziona»: questa l’amara tesi di fondo di Giulio Cavalli, attore e regista teatrale, nonché scrittore e consigliere della Regione Lombardia nelle file di Sinistra ecologia e libertà, che ha presentato mercoledì sera a San Giuliano la sua ultima fatica, il libro “L’innocenza di Giulio”. In una serata organizzata dalla sezione locale di Sel e moderata da Valentina Draghi, esponente locale del partito di Nichi Vendola, il poliedrico autore lodigiano è intervenuto insieme a Umberto Ambrosoli, figlio dell’avvocato e giudice Giorgio Ambrosoli, ucciso nel 1979 mentre operava come liquidatore della banca di Michele Sindona, personaggio legato allo storico esponente della Dc.Argomento del libro, l’irrazionale normalità con cui il processo Andreotti, giudicato per concorso esterno in associazione mafiosa e dichiarato nel 2003 prescritto per aver commesso il reato fino alla primavera del 1980, è stato mediaticamente celebrato alla stregua di un’assoluzione, senza lasciare strascichi degni di nota nell’opinione pubblica del nostro paese. Tutto questo nonostante, come affermato da Cavalli, «una lettura politica della vicenda ci dice che egli ha usato la mafia per motivi di consenso elettorale». Tuttavia il testo, e la sua presentazione, non si sviluppa tanto sul terreno storico, ma rimane invece ancorato ad una prospettiva di tipo politico: posto che «il metodo Andreotti è un metodo in cui poche persone si mettono d’accordo per perseguire il proprio guadagno personale ai danni di quello pubblico», ne deriva che «è importante raccontare la vicenda Andreotti per riconoscere gli “andreottismi” contemporanei, per capire le dinamiche andreottiane che vengono usate quotidianamente ancora oggi». Solo in questo modo si può porre rimedio al grande vulnus che ha permesso il passaggio sotto silenzio delle vicissitudini giudiziarie dell’anziano senatore a vita, ovvero «l’aver dimenticato di insegnare alle giovani generazioni ad essere curiose, a porre le domande giuste». Il provocatorio auspicio di Cavalli è che, per facilitare la presa di coscienza della responsabilità collettiva verso il bene comune, gli argomenti legati alla vita politica diventino “pop”, abituale oggetto delle usuali conversazioni quotidiane. «L’analisi di quegli anni – è l’auspicio di Umberto Ambrosoli – non deve procurare un senso di ingiustizia e frustrazione, ma bensì farci aprire gli occhi, renderci più partecipi. Questa è la sfida che Giulio Andreotti ci consegna. Perché storie come questa siano mattoni con i quali poter costruire un argine che permetta di tenere fuori una simile concezione del potere dal futuro del Paese».

Riccardo Schiavo