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Loro abitano qui

La notizia così nuda e cruda sembra la solita notizia da omicidio. Nemmeno troppo interessante visto che la vittima è albanese e i morti ammazzati se sono albanesi sono meno interessanti, si sa. Poi il luogo dell’omicidio è Casorate Primo, in provincia di Pavia, e capite che il nome non aiuta per aprirci una mitologia.

Però Sali Kutelli (si chiama così l’albanese morto ammazzato) è stato ucciso a colpi di pistola, quella sera del 14 gennaio, mentre camminava nella via principale del paese. Ha cominciato a correre. Correva lui e quelli dietro con la pistola che l’hanno ammazzato come si ammazzano i cani per strada appena scende la sera sull’attenzione, la paura e nel cielo. E un morto ammazzato nella via del centro non è proprio un morto ammazzato da finire nel cassonetto delle storie di cui non occuparsi, forse.

Poi mettici che i due che lo rincorrevano oggi hanno un nome:  Giuseppe Trimboli, 28 anni, e Alessandro Notarangelo, 39 anni, residenti a Casorate Primo. Anche loro. Omicidio in casa loro. Come i cani che pisciano per tenersi il territorio. Le indagini condotte dai carabinieri di Pavia, e coordinate dal sostituto procuratore Paolo Mazza e dal procuratore capo Gustavo Cioppa dicono che si tratta di problemi di droga: gestione dello spaccio nelle zone di Pavia e Milano. E l’albanese con la droga qui in Lombardia quasi te lo aspetti. C’è gente che ci ha costruito una carriera politica, anche.

Eppure Giuseppe Trimboli è proprio della famiglia Trimboli che spicca tra le famiglie che contano in questioni di ‘ndrangheta. La famiglia di Rocco Trimboli, “un irrinunciabile punto di riferimento per le collegate ‘ndrine piemontesi e lombarde”, dicono le carte che hanno portato al suo arresto.

E così albanesi, mafia e droga si mescolano e (finalmente) rendono tutto più difficile per chi si ostina a volere dividere i crimini e i criminali per ostentare controllo e infondere sicurezza. Anche perché la cocaina che vendeva Kutelli (c’è da scommetterci) era per lombardi lombardissimi. E così ci entrano anche gli indigeni: quelli del nord. Quelli che non hanno visto e sentito lo sparo. Quelli che ci abitano vicino, al Trimboli di “quei Trimboli lì che in Calabria fanno i mafiosi”.

E invece il morto ammazzato è qui. Loro abitano qui. Vivono qui. Lavorano qui. E’ una notizia nostra. Per intendersi.

E’ un episodio isolato, aveva detto il sindaco.

 

Vaffanculo anche loro, ma elegante però

Ora che, dopo essere scomparso tra le rovine e infilzato dalle ingiurie, il defenestrato Berlusconi riappare, Di Pietro non sta a guardare. Queste creature gemelle che ricorrono agli stessi toni per aggredire il capo dello Stato, la Corte costituzionale, sono fatti della stessa pasta stantia. Coltivano una metafisica dell’intrigo che scorgono in ogni cosa. Il mondo è per loro solo un infinito complotto, un condensato di furbizia e di intrallazzo. Con la loro mente deviata, che si barcamena tra le ombre di fantasmi minacciosi e le allucinazioni di una privata potenza, urlano contro le macchinazioni da sventare e si esibiscono in continue vanterie. Alla testa di moribondi antipartiti personali, entrambi rivendicano un assoluto comando e non resistono al vezzo dell’autocitazione, che dovrebbe conferire un che di epocale ai loro detti, invero poco memorabili. 

Amano così tanto la menzogna politica che spesso lasciano l’impressione di darla da bere anche a loro stessi, e finiscono così per restare impigliati nella rete infinita delle loro oceaniche bugie. Prediligono delle semplificazioni devianti e sbandierano delle proposte assurde, gettate in mischia tanto per sparala grossa. Nessun senso della vergogna, quella che risparmia al politico la sensazione di essere ridicolo, li accompagna e perciò rimangono ingabbiati nelle raffiche delle loro eterne precisazioni e delle rituali smentite. E proprio questa smisurata mancanza di sobrietà che li induce a straparlare è anche la ragione della loro obsolescenza.

Lo scrive L’Unità, oggi. Bersani aveva detto: «C’è un corollario a di Pietro: rispetto reciproco e saldo rispetto istituzionale».

Un abbraccio a chi trova il rispetto in questo pezzo di elegante sintassi. E, tanto che ci siamo, a chi riesce a declinare il “saldo rispetto istituzionale” nella storia dell’UDC di Cuffaro & co.

Quando si torna a parlare di programma e politica, fateci un fischio.

Mafia che brucia in via Celoria. A Milano.

Scritto per Il Fatto Quotidiano

“Sulla piazza di Milano ci siamo noi a controllare i camion, ognuno ha la sua zona: abbiamo Città studi, corso Como, piazzale Lagosta e via Carlo Farini”. E ancora: “Lavoriamo con i calabresi, gente che sta scontando l’ergastolo, siamo in Comasina, comandiamo a Quarto Oggiaro. Il mio socio è Emanuele Flachi“. Sono le parole di “Pinone”, al secolo Giuseppe Amato, braccio armato della cosca Flachi organizzata dal boss Giuseppe Flachi (suo figlio Giuseppe è già stato condannato a 14 anni). L’inchiesta ‘Caposaldo’ cerca di svelare gli intrecci che stanno dietro al racket delle discoteche e dei venditori ambulanti. Un processo non facile: i testimoni che dovrebbero testimoniare parlano poco, quasi niente. In tribunale dichiarano di non ricordare, di non sapere.

Loreno Tetti è un “paninaro”. Ha un camioncino rosso parcheggiato davanti all’Università, via Celoria, Milano, Città Studi. Il camioncino è “la ditta”, dentro c’è tutto quello che serve per lavorare. E’ il suo lavoro, su quattro ruote e tutto dentro. Loreno Tetti è anche l’unico che ha dimostrato di avere buona memoria e buon coraggio: è stato l’unico a raccontare prima davanti agli uomini della Guardia di Finanza di Milano e poi in Tribunale cosa accadeva a quelli come lui che dovevano pagare i Flachi per potere stare lì, essere tranquilli, “mettersi a posto” come si dice in altre parti d’Italia. E anche qui. A Milano.

Ora il suo furgone è un relitto annerito sul marciapiede. Le fiamme se lo sono mangiato la notte che portava al 19 luglio. Il giorno delle parole spese per i vent’anni di cia D’amelio e Paolo Borsellino.

Forse hanno ragione quelli che si chiedono perché non ci sia stato ancora il tempo di organizzare un presidio almeno per alzare la voce, forse sarebbe il caso di stare vicini per davvero a quelli che denunciano. Soprattutto se sono soli a parlare, soli a testimoniare e poi alla fine bruciano pure, da soli.

«Sono disperato, questo è il prezzo per chi denuncia. Mi hanno lasciato solo», le parole di Tetti.

E la frase brucia più del camioncino.

Voi

Ha detto così Rosy Bindi riferendosi agli omosessuali mentre veniva contestata a Roma durante il suo intervento alla festa dell’Unità.

Voi.

Parlava a qualcuno a cui non appartiene. E non vuole appartenere. Come la maestrina che sa cosa è giusto e pretende di essere ringraziata per la pazienza che dimostra ascoltando i “sbagliati”.

Voi.

C’è un ponte levatoio e lo chiama dialettica pluralista. Ma le chiavi le ha solo lei.

Voi.

Come se non avessimo capito l’orrore di tutti questi ultimi anni quando sembrava buono e giusto dire che “anche voi avete i vostri diritti”, dimenticando che era già una discriminazione.

Voi.

Come dice bene Alessandro:

Un po’ come se, si parva licet, la questione delle leggi razziali nel ‘38 fosse stato un problema degli ebrei, e non di tutti gli italiani. Come se le discriminazioni contro i neri negli Stati Uniti, nella prima metà del secolo scorso, fosse stata una questione che riguardava solo i neri, e non tutti i cittadini americani.

E’ questo il grande solco che ci separa, signora Bindi.

Io credo invece di non potermi sentire davvero libero se liberi non sono tutti gli altri.

Proprio come – trasposto dai diritti civili a quelli sociali – non mi sento davvero felice di avere un lavoro e un reddito dignitoso se non ce l’hanno anche gli altri.

Che poi mi perdoni, signora Bindi, ma questo è proprio l’abc dell’essere di sinistra.

E poi ci vorrebbero insegnare la responsabilità di stare insieme. Per dire.

Mafie e EXPO, si sveglia Formigoni

Leggo un’agenzia fresca fresca del sempreceleste Formigoni:

“Abbiamo appreso che l’appalto relativo alla piastra è stato assegnato con un ribasso d’asta del 41%, che si avvicina molto alla soglia di anomalia calcolata nel 43%. Un valore che, pur rientrando nei parametri di legittimità, suscita qualche preoccupazione. Confido che la società Expo 2015 attiverà tutte le verifiche preventive e i controlli successivi necessari per accertare che questo consistente ribasso non rischi di incidere sullo svolgimento delle attività di realizzazione della piastra e in particolare sulla regolarità e dignità di trattamento dei lavoratori e sulla sicurezza dei luoghi di lavoro. Regione Lombardia è disponibile ad offrire alla società Expo 2015 la collaborazione del proprio “Comitato per la trasparenza degli appalti e la sicurezza dei cantieri”, del quale fa parte il delegato alla trasparenza Presidente Grechi, organismo che già opera con molto rigore relativamente alla trasparenza degli appalti regionali, monitorando il rispetto delle norme che riguardano i contratti per lavori, servizi e forniture e investimenti pubblici”. Lo dichiara il Commissario Generale Expo 2015 e Presidente di Regione Lombardia Roberto Formigoni.

L’appalto relativo alla piastra di cui si parla è proprio lo stesso di cui scrivevo ieri qui. E l’ho ripetuto ieri in aula mentre quasi tutti riuscivano a parlare di EXPO senza nominare le infiltrazioni. Anzi, mentre tutti parlavano di antimafia senza passare prima dalla mafia, come si dovrebbe fare anche nei più stupidi giochi da tavolo. E nell’appalto della piastra per EXPO l’azienda capofila dell’ATI che ha vinto l’assegnazione dell’appalto è la stessa Mantovani SPA che già stava nelle carte giudiziarie dell’operazione “Doppio Colpo 3” in cui si scriveva di rapporti tra la ditta e uomini che contano del clan Madonia. E’ la stessa Mantovani SPA a cui è stato ritirato per un certo periodo il certificato antimafia.

Ora Formigoni si è svegliato. E ha avuto questo bel sussulto a forma di comunicato stampa. Buon per noi, direte.

Ma sorprende, forse, che con tutti questi comunicati, protocolli, osservatori, commissioni, commissari ordinari e straordinari, futuri subcommisari ci si accorga di qualcosa di stonato per un piccolo, antipatico, scassaminchia consigliere di opposizione. Forse sarebbe stato il caso di non gridare al complotto o all’allarmismo ogni volta che qualcuno ha sollevato dei dubbi e delle osservazioni. Forse ci si aspetterebbe che EXPO e banda cantante anticipasse i dubbi della stampa e dei giornali. O almeno se ne facesse carico senza isterismi.

Insomma: governino l’evento. Sono lì per quello. No?

Sono orfano e non so cosa dire sulla ‘ruota’ alla Mangiagalli

Questo dovrebbe essere uno di quegli articoli che uno li legge e pensa, wow, pensa da solo con il suo essere solo, wow, che bell’articolo. Pubblicato così tardi, quasi notte, perché si è sicuri che giri comunque. Virale nonostante l’orario. Insomma.

E’ che ci sono rimasto due giorni, due, duegiornidue, su questa storia di Mario, che hanno lasciato nella ruota degli orfani della Mangiagalli a Milano. Depositato come un figlio spurio in contrassegno. Una cosa del genere. E voi già pensate che questo articolo è un articolo irrispettoso e duro, sono sicuro, che lo pensate. Ma adesso ci arriviamo. E vedete.

Il bambino dentro la ruota nel Medioevo (ce lo insegnano i libri del Medioevo, quelli scritti di quegli anni lì, mica sappiamo se sono stati i servi dell’informazione dell’epoca e allora li riprendiamo subito per buoni) è una pratica che dobbiamo storicamente accettare. Ci dicono che bisogna “storicamente” accettare quando ci presentano un vassoio impresentabile ma con cent’anni di motivazioni dietro. Abitudini, mica valori. Ma cent’anni di valori. Mica noccioline.

E’ che mi chiedo come si possa raccontare una storia di un orfano lasciato sulla ruota degli orfani. Perchè poi anche i giornali ci hanno messo del loro e hanno affilato le penne. Scrive il Corriere che: L’ultimo gesto d’amore della mamma in difficoltà è un biberon di latte materno e qualche vestitino lasciati al suo fianco. Prima di abbandonarlo. Sono le sei e mezza del pomeriggio di ieri quando una donna, probabilmente europea, schiaccia il pulsante rosso della «Culla per la vita» della clinica Mangiagalli, la saracinesca si alza per chiudersi quindici secondi dopo, dentro rimane il neonato, un ciuffo di capelli scuri e una tutina azzurra.

Sotto c’è una canzone soul troppo ubriaca per essere musicalmente credibile. Troppo.

E ora, per essere pronti allo sprint sempiterno delle primarie in tutti questi penultimatum politici, bisognerebbe anche capire bene come declinarla questa cosa. Del bambino lasciato solo come si lasciano soli i bambini lasciati.

Trovare un senso per scrivere il pretesto di un ordine del giorno, una mozione o un progetto di legge se sei un geniale legislatore del marketing politico.

Invece è solo dolore. Inadeguatezza. Senza parole senza, senza nemmeno una parola da dire.

E’ che sono stato adottato. Incredibile, direte voi, adottato. Lui. Giulio Cavalli che combatte la mafia. Pure adottato. Scortato e adottato. Che tristezza buona per farci la fascetta di un libro. Urrà, dicono  distributori di malinconia da scaffale.

E un po’ mi stupisce (mica io, mi stupisco, anche se sarebbe una bella frase ad effetto), mi stupisce che sono stato adottato e credo che la legge 194 sia da conservare, custodire e difendere a mani giunte come si giungono le mani laiche pronte a immolarsi per una valore con religioso coraggio.

E non so proprio cosa dire su Mario lasciato nella ruota. Un silenzio con dentro tutto un mondo di bene. Mica solidale. Inadeguato come ci si sente inadeguati davanti all’amore che si ha paura di perdere e di solito è l’amore della vita.

Però almeno sulla storia di Mario ho deciso di scrivere e confessare questo pezzo del mito da sgretolare. Anche perché sono finito a chiedere l’amicizia su facebook a mio fratello Giuseppe che non sa nemmeno di essere mio fratello. Perché il cognome è diverso e mi ha scritto “chi sei?”, così mi ha scritto. E io non gli ho risposto mai. Mai.

Buona notte Mario. Domani ti sveglierai e capirai (un pezzo, non troppo, con parsimonia) che tutto è terribilmente complicato da essere troppo affascinante per lasciare perdere.

Anche senza sofismi e conclusioni come quelle che ci si aspetterebbe da un aspirante statista.

Avevamo ragione: revocato un subappalto Expo

Alle 11.44 esce un’agenzia di stampa:

Expo 2015 Spa ha oggi revocato l’autorizzazione al subappalto nei confronti di un’impresa (Elios srl di Piacenza) attualmente al lavoro nel cantiere per la risoluzione delle interferenze del sito espositivo. Lo comunica una nota. “Tale determinazione è stata presa sulla base di una informativa della Prefettura di Milano che, pur non evidenziando tentativi di infiltrazione mafiosa, ha segnalato elementi suscettibili di valutazione sotto il profilo dei requisiti soggettivi dell’impresa subappaltatrice e tali da pregiudicare il rapporto fiduciario tra Expo 2015 Spa e l’impresa. Infatti la revoca dell’autorizzazione al subappalto è stata assunta avvalendosi della facoltà discrezionale della stazione appaltante prevista dal Protocollo di legalità sottoscritto tra Expo e Prefettura del 15 febbraio 2012. Questa decisione non pregiudicherà in alcun modo la prosecuzione dei lavori secondo i programmi stabiliti. La società Expo 2015 Spa conferma l’impegno a operare e collaborare con le autorità preposte per la prevenzione di ogni tipo di infiltrazione criminale e sottolinea l’efficacia del Protocollo stipulato con la Prefettura e degli altri strumenti adottati a garanzia della corretta esecuzione dei lavori e della tutela della legalità”.

Ahi, ahi: l’avevamo scritto qualche giorno fa in questo post (grazie agli amici di SOS FORNACE). Poi avevamo anche avuto una vivace discussione con EXPO spa (per chi se l’è persa la potete ripescare qui).

La notizia della revoca è una buona notizia, certo. Ma fa sorridere oggi ancora di più l’eccesso di difesa di EXPO spa ogni volta che ci si permette di avanzare dei dubbi. Fa sorridere Formigoni ogni volta che ci rassicura sui passaggi dei subappalti tendendo sempre al negazionismo per tranquillizzare a tutti i costi. E, lasciatemelo dire, ci avevamo visto giusto. Noi allarmisti e visionari.

La migliore commissione antimafia è la trasparenza e la curiosità. Insieme. Senza compromessi.

Sarò scemo

Perché di colpo mi sembra di non capirci più niente. Eh, lo so, mi direte voi che la politica è roba da intellettuali, ma quelli veri, quelli che si confrontano con il superalcolico e il sigaro sulle terrazze romane, e invece noi ci sporchiamo di fango sui blogs (al plurale, ho sentito un veterocentristademocratico che lo pronuncia così, al plurale, alla moderna) e sudiamo disordinati e male ai presidi. Insomma qui il can can delle primarie si apre e si richiude, si schiude per una mezza giornata e poi si riaddormenta. Sul nazionale e in Lombardia.

Sul nazionale c’è un congresso di partito (ampio, sicuro, passa dal Monti bis all’uso improprio della parola “sinistra”) che chiamano primarie. Dentro c’è Bersani, c’è Renzi e da oggi Boeri (a Stefano chiedono di dimettersi da assessore per non intasarsi di impegni, intanto Tabacci fa l’assessore, il parlamentare e l’analista di Regione Lombardia).

E gli altri? Mi chiedono ma voi? Ma gli altri? Nessuno invece che chiede cosa siano. Che chiede le regole. Che chiede i tempi. Interessa sapere i nomi. Come la giostra con le bocce e i cavalli (minuscoli) che si trova al Luna Park, ve la ricordate? Ecco. Una cosa così.

Bersani parla di un “patto civico” che metta insieme la sinistra progressista, la sinistra meno progressista, i riformisti, i moderati, i conservatori illuminati, i Montiani (Monti incluso, ovvio), i cattolici, i laici, i diritti civili, i conservatorismi incivili e i filoberlusconiani che furono se si pentono e si dissociano: ci fossero anche i neonazisti sarebbe il Partito dell’Umanità Estesa. Anzi, il Partito delle etichette affibbiate all’umanità estesa, perché dentro di persone a forma di persone i sondaggi non dicono che ce ne siano tantissime.

In Lombardia la fotografia è la stessa. Con tanti piccoli personaggi minori. Ma la stessa. Con il segretario del PD che manda sms per dire che le primarie si fanno, altroché. Io e Civati l’avevamo frainteso, lui e Bersani, evidentemente. Meglio così, direte voi. E invece il patto UDCivico è lo stesso. E anche gli isterismi. Oggi qualcuno ha anche confezionato un sondaggio per le primarie. Fantastico. Non si sa chi è (anzi, meglio, che roba é) la coalizione e intanto danno i numeri. Con dentro Pisapia, Tabacci e Di Pietro. Tra l’altro il sondaggio è confezionato dal partito che a Roma Bersani non vuole sentire nominare. Della serie: se ci autoinvitiamo di nascosto nei sondaggi non se ne accorge nessuno.

Sì, sarò scemo io. Se sono da solo a credere che se in questo benedetto Paese c’è stato un momento buono, utile e urgente per costruire una forza di sinistra seria è quello che ci sta passando sotto al naso.

Buone primarie a tutti. Questa sera, quando tornate a casa dai vostri figli, regalatevene una anche voi. Vi sentirete peggio. Ma meno scemi.

 

Prove tecniche per (ri)perdere in Lombardia

Pier Luigi Bersani ci crede: la Lombardia andrà al voto nel 2013. Un anno prima della scadenza naturale della legislatura. Ma il segretario nazionale del Pd per la prima volta frena sulle primarie per la scelta del candidato del dopo Formigoni: «Vedremo se ce ne saranno le condizioni». Rilancia un «patto civico aperto» e non esclude un accordo con l’Udc. Lo scrive oggi Repubblica e, chissà perché, ce lo aspettavamo. Che non significa che si sta proni ad aspettare ed ascoltare. Tutt’altro.

Un ‘patto civico’ è civico se il testimone sta in mano ai cittadini e le primarie sono il percorso unico per aprire la consultazione. E invece qui i capi bastone delle segreterie si incontrano davanti ad un caffè e elaborano i loro stratagemmi (ultimamente, in Lombardia, parecchio sfortunati) e li truccano con i costumi del civismo. No, questa volta non gli sarà possibile. Ma mica perché siamo in tanti a non concederglielo (e mi conforta il post e la quotidiana chiacchierata mattutina con Pippo Civati) ma perché il trucco è stato scoperto da un po’. E perché evidentemente resistono ancora quelli che intendono il “potere” con la voce del verbo “potere decidere da che parte vanno i voti fedeli alla ditta” nonostante le scelte suicide.

Nessuna concessione ai tiepidi pupi e ai sofismi programmatici: dieci punti dieci di denuncia e di proposta per un’alternativa (basta ascoltarli in giro da chi ci lavora da anni, basta rileggere quello che proviamo a raccontare da anni), i tempi chiari dei passaggi del cambiamento e interpreti non condizionati, non condizionabili e non ricattabili. Non sappiamo mica se questa cosa si chiami “primarie” ma noi siamo in quel posto lì. E non ci interessano i patti sottovoce negli spogliatoi.

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E alla fine sarà colpa nostra anche via D’Amelio

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Siamo cresciuti con Falcone e Borsellino nelle orecchie come un mantra per farci addormentare. Sembrava semplice, anche, a vederlo da fuori o da lontano, arrampicati quassù a Milano dove le bombe al massimo erano un incidente di percorso ma senza rischio. Chi erano i buoni e chi erano i cattivi: era semplice. Loro, ci dicevano, li hanno uccisi perché erano buoni, Falcone perché combatteva la mafia. E allora così piccolo e sprovveduto pensavi sempre che era una battaglia a perdere, quella contro la mafia, come la bottiglia da restituire quando ci hai bevuto tutta l’acqua dentro. Borsellino l’hanno ucciso perché era l’amico di Falcone, il suo erede. E ce l’hanno raccontato con quelle facce che hanno gli adulti quando sanno di raccontare una storia che è così chiara da sembrare banale, con le certezze dei dogmi da passare ai figli con la solennità che si addice ai padri sempre un po’ di fretta di ritorno dal lavoro.

Era la stessa faccia che si ingrugniva su Andreotti, che forse sì, non era stato sempre trasparente ma “la mafia è un’altra cosa”. Forse Andreotti l’aveva incrociata a qualche fermata del tram o l’aveva salutata seduta al tavolo di fianco durante la pausa pranzo. Ma “la mafia è un’altra cosa”. Oppure le facce con il mezzo sorriso dei cretini mentre scuotevano la testa quando si diceva di odore di mafia con Raul Gardini, che da noi, qui giù al nord, era l’abbronzato più nordico che si potesse immaginare. Insomma sì, la politica e qualche imprenditore saranno stati un po’ spericolati in quegli anni ma “la mafia è un’altra cosa” e l’importante è santificare i morti. Ricordandosi e ricordandoci tutti che la mafia è sporca e cattiva, tutti insieme nella santa messa dei morti ammazzati saltati in aria quell’anno lì, quell’anno di Falconeeborsellino scritto tutto attaccato come si mischiano le cose quando perdono la memoria e il senso.

Poi ci è toccato di andare a studiare Andreotti com’era Andreotti dentro le carte del processo, cosa diceva Dalla Chiesa al figlio e alla moglie, abbiamo frugato nei cassonetti della memoria superficiale e deteriorabile in fretta per ripescare gli articoli che si incaponivano, che non volevano semplificare. Che non era tutto bianco e nero e che in mezzo al brodo di tutto quel grigio ci stava la forza buia degli ultimi vent’anni. Non è nemmeno stato facile trovare le memorie di quel tempo: gli articoli stavano annichiliti dietro alla lavagna, dove si castigano gli allarmisti per professione e per eversione professionale.

Ora quel 1992 e quella bomba esplosa sotto le scarpe di Paolo Borsellino forse non è più così semplice. Ora le indagini e le Procure dicono che c’era qualcosa in più. Forse, ci dicono, forse non è vero “che la mafia è un’altra cosa”. Forse il filo rosso che sta dietro gli ultimi venti anni ha un padre che viene da molto lontano e dei figli che sono la seconda generazione di quel buco in via D’Amelio. Figli dallo stesso utero del tritolo di Capaci. Altro che buoni e cattivi, bianco o nero, e i complotti che stanno a zero. Altro che le farneticazioni dei figli, dei fratelli e dei parenti che non riescono a sopravvivere tranuquilli ai familiari morti ammazzati.

Qualcuno balbetta, sì forse abbiamo dato per scontato e invece c’è qualche scheggia impazzita. Provano a tranquillizzarci così. Un’educazione antimafiosa di errori, banalizzazioni e falsità e provano a discolparsi accusando pochi personaggi minori della storia. Poi ci diranno che bisogna aspettare i riscontri. Sicuro. E che comunque queste sono le settimane della memoria: mani giunte, sguardo umido e poche domande. Non si bisbiglia durante la messa. E’ un peccato mortale.

Poi alla fine verranno a dirci che, comunque, è colpa nostra e dei nostri venti o trent’anni. Ci diranno che siamo stati troppo poco curiosi, che non abbiamo fatto le domande giuste o che siamo superficiali, disinteressati, disillusi: antipolitici.

Pubblicato su I Siciliani Giovani – giugno 2012

Per scaricare il nuovo numero: www.isiciliani.it

Nell’uscita di questo mese:

Margherita Ingoglia e Michela Mancini  Giovani: Telejato e Siciliani Gian Carlo Caselli Illusioni e verità Nando dalla ChiesaNdrangheta e sanità Giulio Cavalli Via D’Amelio Riccardo Orioles Maledetta antimafia Norma Ferrara / Sabina Longhitano Gaetano Liardo Un’estate libera Emanuele Midolo Terre bruciate Giovanni Caruso Terre bruciate Pietro Orsatti Beni confiscati Rino GiacaloneBeni confiscati Rino Giacalone Il mancato arresto di Messina Denaro Francesco Feola Rewind-Forward Salvo Vitale Muoiono 40 tv, si salva Telejato Maria Visconti e Salvo Ognibene Telejato e le scuole di Bologna Studenti di Bologna Lettera al Presidente Nadia Furnari Rita Atria vent’anni dopo Luciano Mirone Il caso Manca Antonio Mazzeo I droni di Sigonella Sara Spartà Niscemi: NoMuos e antimafia Arnaldo Capezzuto L’azzardo di Laboccetta Arnaldo Capezzuto L’editto di Nick ‘o ‘Mericano Ester Castano Perego e ‘ndrangheta Desirée Miranda e Leandro Perrotta Catania/ “Vuoi parlare? Paga!” Salvo Vitale L’affare dela distilleria BertolinoMargherita Ingroglia Partinico/ Elezioni in cosca Francesco Appari e Giacomo Di Girolamo Pantelleria/ Un sindaco in mezzo al mareCarlo Gubitosa, Kanjano e Mauro Biani Mamma Jack Daniel Satira/ Vergine again Luca Salici e Luca Ferrara Grafic Novel/ Caponnetto Antonello Oliva Musica/ I nuovi cantautori Elio Camilleri Storia/ Portella delle Ginestre Alessandro Romeo Altri Sud/ Pausa indiana Giuseppe Giustolisi Medici catanesi Daniela Sammitto Chi vuol chiudere la comunità Rossana Spadaro Vittoria/ Volti e storie Lorenzo Baldo Interviste/ Alfredo Morvillo Giovanni Abbagnato Palermo fra passato e futuro Irene Di Nora Antimafia in IrlandaAntonio Cimino Da Chinnici a Borsellino Salvo Vitale Antimafie, Istruzioni per l’uso Rossomando Campania/ Il triangolo del lavoroPietro Orsatti Fare libri Fabio Vita Apple vs Bitcoin Pino Finocchiaro Lettere al Quirinale Riccardo De Gennaro “Fondata sul lavoro”Gapa I bambini, la resistenza, i perseguitati Piero Cimaglia e Daniela Siciliano Uomini e no Giovanni Caruso Periferie/ La fossa Dino Frisullo Periferie/ Malli Gullu Fabio D’Urso e Luciano Bruno Ballata della città dimenticata Giuseppe Fava Sicilia, miseria e miliardi