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Politici dalle gambe corte

Renzi aveva preannunciato un referendum contro il reddito di cittadinanza. Salvini aveva dichiarato di voler cancellare il sussidio. Le cose, però, stanno andando diversamente. Certi leader politici hanno proprio le gambe corte

Poi accade così, improvvisamente arrivano le scadenze, passano le settimane e passano i mesi e alla fine il re si mostra nudo, non accade ciò che era stato minacciato e promesso e si sbriciola tutta la retorica inutile che ha invaso le prime pagine dei giornali. Siamo al 24 settembre e Matteo Renzi ha a disposizione sei giorni per raccogliere 500mila firme per il referendum per l’abolizione del reddito di cittadinanza, la sua “grande mossa politica” che ha concimato per settimane come campagna pubblicitaria del suo libro (come sempre Renzi usa la realtà per promuovere libri, mica il contrario). L’aveva promesso come atto più alto della sua brillante carriera politica (del resto si sa, Matteo va forte coi referendum) e il senatore fiorentino con un grande passato di fronte a sé ci aveva detto che sarebbe stato un grande movimento di popolo. Il popolo però non si è visto e la raccolta delle firme non è nemmeno iniziata: le uniche firme sono quelle delle dediche sulla sua ultima opera letteraria.

E pensare che da quelle parti c’è perfino qualcuno che ritiene “troppo facile” raccogliere firme in modalità digitale per promuovere il referendum: non sarebbe stato quindi “facilissimo” smantellare il reddito di cittadinanza se davvero nel meraviglioso mondo dei due Mattei tutti sono (come dicono) contro il reddito di cittadinanza?

In realtà è accaduto qualcosa (anche qualcosa in più) che in questi mesi ha smascherato i nostri eroi Renzi e Salvini. Il 28 agosto Salvini da Pinzolo annunciava che «in manovra economica l’emendamento per farlo lo metto io, avrà la mia prima firma. Dobbiamo assolutamente cancellare il reddito di cittadinanza». Il 2 settembre in esclusiva al Tg4 (sempre a proposito di indizi) Renzi annunciava il quesito del suo referendum. E poi? E poi niente. Anche per il reddito di cittadinanza nella Lega Salvini si è ritrovato in minoranza con il suo ministro per lo sviluppo economico Giancarlo Giorgetti che ha sempre chiarito che il reddito di cittadinanza non andasse abolito ma modificato. Così il leader della Lega (anche su questo) ha potuto solo ammorbidirsi sulla linea filogovernativa cominciando a parlare di emendamenti e di modifiche. Intanto, ad inizio settembre, si è capito che l’indirizzo del governo era quello di non eliminare il reddito di cittadinanza, ma di pensare piuttosto a modifiche e cambiamenti (d’altronde già il 6 agosto scorso Draghi aveva detto di «condividere in pieno» il «concetto alla base del reddito di cittadinanza»). Così magicamente Renzi riesce l’8 settembre a L’Aria che tira su La7 a dire: «Aver permesso di aprire la discussione sul reddito di cittadinanza ha portato al fatto che Draghi lo cambierà». Ovviamente è falso anche questo: il comitato del governo allo studio delle modifiche è attivo già da marzo. Anche qui siamo al solito Renzi che vorrebbe prendersi il merito che domattina sorga il sole.

Il 20 settembre è a un passo. Renzi aveva promosso il referendum per il prossimo anno ma se dovesse partire la raccolta firme nei prossimi mesi, sarebbe comunque impossibile votare prima del 2025, perché la legislatura scade a marzo 2023 e nell’anno precedente e nei sei mesi successivi non è possibile per legge depositare una richiesta di referendum.

Come hanno le gambe corte certi leader politici, eh?

Buon venerdì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Lasciati a nuotare nel sangue

Delle vittime Usa negli attentati a Kabul conosceremo presto i sogni, le professioni, i talenti. Mentre gli afghani rimangono vittime necessarie anche se collaterali di una guerra che è già annunciata

Ma dai, l’avevo scritto in tempi non sospetti che sarebbe finita male e invece tutti i grandi cultori della diplomazia (quelli che ci rivendono la tiepidezza come arguta capacità politica) hanno provato a dirci che l’Afghanistan fosse necessario, che la guerra ventennale fosse giusta e perfino che la ritirata vigliacca fosse un capolavoro. E invece niente.

Perché sostanzialmente ieri è successo quello che doveva succedere, ovvero che un popolo tenuto sotto la bolla di un’occupazione militare si scopre oscenamente nudo appena quelli cominciano a togliere le tende, apparecchiare armi e bagagli e prepararsi ad andarsene dopo uno degli accordi più feroci, stupidi e irresponsabili della storia.

Il numero dei morti non si sa ancora, non si ha un numero definitivo mentre preparo questo Buongiorno, ma si dice almeno 60 vittime; 60 morti tra quella fiumana di persone in fila che già erano diventate carne, carne in fila per provare ad entrare dentro un buco, già cannibalizzate dall’avere la speranza come unico spiraglio per respirare. Un attentato contro civili inermi che ostenta tutti i denti come ostentano il morso coloro che lavorano sul palcoscenico del mondo utilizzando il terrore: i terroristi. E il palcoscenico internazionale anche questa volta è stato apparecchiato dall’Occidente che vorrebbe esportare la democrazia e invece non sa nemmeno organizzare una dignitosa ritirata.

Ora, per un secondo, proviamo a guardarla restando umani: ci sono persone in fila che vengono sorteggiate per cavalcare gli ultimi voli in partenza in base alle conoscenza, mica in base ai bisogni. Una Schindler’s List che fa venire le vertigini ogni volta che spericolatamente si osa pensare a quelli rimasti fuori. La comunicazione di queste ore è già disumana: si dividono i morti civili afghani da quelli americani, anche i morti da quelle parti hanno un diverso prezzo al chilo. Delle vittime Usa conosceremo presto i sogni, le professioni, i talenti; mentre gli afghani rimangono vittime necessarie anche se collaterali di una guerra che è già annunciata: da quelle parti sarà un macello e un macello per essere a forma di macello ha bisogno di carne. Quelli sono carne.

Biden dice “i terroristi ci hanno attaccato”. Falso, falsissimo, ancora una volta. I terroristi sono andati a prendersi con i denti un territorio lasciato scoperto e impoverito nonostante 20 anni costosissimi di guerra. Che l’ospedale di Emergency abbia dovuto farsi carico di tutti i feriti è la dimostrazione più significativa di come il volontariato si faccia carico di ciò che spetterebbe agli Stati. Anche per questo Gino Strada è stato un grande uomo di Stato, nonostante questi ne abbiano paura.

Gli italiani sono partiti, tutti. Sono partiti i diplomatici e i militari. Li abbiamo lasciati nel sangue.

Bravi, tutti.

Buon venerdì.

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Per approfondire, Left del 27 agosto – 2 settembre 2021

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SOMMARIO

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

La campana dell’ultimo giro

La situazione all’aeroporto di Kabul continua ad essere drammatica, i talebani stanno smettendo di recitare la parte degli illuminati e il G7 sull’Afghanistan non ha risolto praticamente nulla

È iniziata male ma finirà addirittura peggio. E non solo perché la situazione all’aeroporto di Kabul continua a essere drammatica come può essere drammatica una fiumana di disperati disposti a morire pur di infilarsi in un buco che basterà per pochissimi di loro ma soprattutto perché i talebani stanno lentamente smettendo di recitare la parte degli illuminati e tornano veloci alla propria natura forti della posizione conquistata nel Paese.

«Il 31 agosto ci aspettiamo che tutti i soldati stranieri se ne vadano. Altrimenti sarà considerata un’estensione dell’occupazione», ripetono e gli Usa sembrano non avere intenzione di cimentarsi in nessun braccio di ferro. Persino la resistenza organizzata dal figlio del comandante Massud nella valle del Panjshir non sembra impensierire gli studenti coranici, sempre più convinti che il gioco degli oppositori sia semplicemente una mossa mediatica per ottenere più soldi dai loro possibili finanziatori stranieri e un maggiore peso nella composizione del nuovo governo.

Il G7 di ieri non ha risolto praticamente nulla. Le pressioni di Boris Johnson e di Angela Merkel per ottenere una proroga della permanenza in Afghanistan e salvare più persone possibili hanno trovato il muro degli Usa che hanno anzi chiarito di dover smettere con le evacuazioni alcuni giorni prima per avere il tempo di smontare le basi logistiche e preparare armi e bagagli. E senza gli americani la permanenza dei Paesi europei in Afghanistan diventa praticamente impossibile. Ora la posizione di dialogo con il nemico (che da noi era stata infelicemente strumentalizzata per le tristi liti da cortile dei nostri provincialissimi capi di partito) comincia a farsi strada e perfino Draghi ribadisce la necessità di «mantenere un canale di contatto anche dopo la scadenza del 31 agosto e la possibilità di transitare dall’Afghanistan in modo sicuro».

Mezz’ora prima del summit il portavoce dei Taliban, Zabihullah Mujahid aveva detto chiaramente «I Taliban non permetteranno più ai cittadini afghani di raggiungere l’aeroporto di Kabul, le persone dovrebbero tornare a casa». Per mostrare i muscoli ha aggiunto: «Gli americani stanno facendo qualcosa di diverso, quando c’è la calca sparano e la gente muore. Sparano alla gente. Noi vogliamo che gli afghani siano al sicuro da questo». Un successo di relazioni dopo la disfatta militare, insomma.

Sullo sfondo rimane anche la solita Europa frammentata e inumana che non riesce nemmeno a trovare un’ombra di linea comune sull’accoglienza. I talebani controllano ormai i confini con i Paesi limitrofi (che sono già stati chiusi) e dalla riunione dei 7 non si è nemmeno riusciti a trovare una linea comune per eventuali corridoi umanitari. Stesso discorso per quanto riguarda il riconoscimento formale con il nuovo regime: I leader del G7 hanno fatto sapere che i rapporti della comunità internazionale coi talebani dipenderanno dalle azioni future del gruppo, la stessa formula che avevano usato qualche giorno fa ministri degli Esteri dei Paesi del G7 al termine di una riunione che avrebbe dovuto preparare quella di ieri e che invece riporta le stesse conclusioni. Nessun passo in avanti.

Qualcuno propone di coinvolgere Cina e Russia nella gestione della crisi: «Credo che il G20 possa aiutare il G7 nel coinvolgimento di altri Paesi che sono molto importanti perché hanno la possibilità di controllare ciò che accade in Afghanistan», ha detto Draghi ai suoi colleghi, riferendosi anche all’Arabia Saudita, alla Turchia e all’India.

Suona la campana dell’ultimo giro, quella che arriva insolente per risvegliarci dalla trance alcolica (o agonistica, ché di campane dell’ultimo giro ne esistono diverse ma la tristezza del senso di fine è sempre la stessa). Finirà male, com’era ovvio che fosse, bastava leggere la storia per intero fino a qui.

Buon mercoledì.

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Democrazia da asporto

L’Occidente insiste nel suo approccio paternalistico e fallimentare da esportatori di democrazia, nonostante il disastro sia sotto gli occhi di tutti

No, non vanno benissimo le cose in Afghanistan e l’Occidente continua a non farci una bella figura. Per niente. Nonostante la pelosa attenzione ai drammi rimbalzati su tutti i media (perché la sofferenza, si sa, comunque rende parecchio in termini di ascolti) la situazione dell’aeroporto di Kabul smutanda la debolezza di Usa ed Europa incapaci perfino di salvare il salvabile, di imbarcare quelli che dovrebbero essere i salvati secondo gli accordi con i talebani e di riuscire a non sfilacciare le famiglie.

Negli ultimi 7 giorni almeno 20 persone sono morte nei pressi dell’aeroporto: si tratta di civili che facevano parte della massa accalcata mentre cercavano di cogliere l’occasione di abbandonare il Paese. E il numero è indicato da fonti ufficiali della Nato, presumibilmente per difetto. Migliaia di persone (secondo alcune stime Usa sarebbero almeno 20mila) tentano disperatamente di arrivare ai bordi delle piste mentre alcuni bambini per non rimanere incastrati nella calca vengono passati di mano in mano, come un feretro ancora vivo, per essere lasciati ai soldati. Dentro al dramma di un genitore che decide di scindersi dal proprio figlio perdendolo pur di salvarlo c’è tutto l’orrore di questi giorni.

A proposito di bambini: sempre di più si perdono e scompaiono. L’allarme è stato lanciato da media locali come l’emittente ‘Ariana‘, che ha raccontato la storia di una famiglia di Kabul che si sta prendendo cura di un bambino rimasto incastrato nel filo spinato e che, nonostante gli sforzi, non è ancora riuscita a rintracciare i suoi genitori. Il bambino, che ha circa 6 anni, ha dichiarato che la sua famiglia è arrivata in aeroporto per fuggire dal Paese. Apparentemente suo padre è caduto tra la folla e da quel momento in poi il bambino ha perso i contatti con entrambi i genitori. Giornalisti locali riferiscono che diverse persone stanno postando foto di bambini scomparsi all’aeroporto.

I talebani, dal canto loro, hanno gioco facile nel filtrare le persone grazie ai presidi intorno alla zona: si raccontano bastonate e ci sono diversi filmati di colpi da arma da fuoco. Alcuni testimoni raccontano che i talebani chiederebbero 1.500/2.000 euro per fare avvicinare le persone alla pista. Tutto questo mentre sono proprio loro ad accusare: “L’America, con tutta la sua potenza e le sue strutture… non è riuscita a portare l’ordine all’aeroporto. C’è pace e calma in tutto il Paese, ma c’è caos solo all’aeroporto di Kabul”, dicono. Peccato che non sia per niente così: mentre tutti gli occhi del mondo sono puntati su Kabul nelle zone rurali del Paese arrivano frammenti di notizie che raccontano violenze e addirittura rapimenti di bambini nei confronti degli afghani che hanno collaborato con l’Occidente, come ritorsione.

Biden la definisce l’“evacuazione più difficile della storia”, un’operazione “difficile e dolorosa” e intanto ha attivato il programma d’emergenza della Civil Reserve Air Fleet (Craf), richiedendo l’uso anche di aerei civili. Un piano nato 70 anni fa in piena Guerra Fredda, nel 1952, dopo il ponte aereo di Berlino del 1948, quello organizzato dalle potenze occidentali per aiutare i cittadini di Berlino Ovest rimasti isolati col blocco delle vie di comunicazione messo in atto dall’Unione Sovietica. Solo due volte si è ricorsi a una decisione così estrema: in occasione della prima guerra del Golfo nel 1991 e della guerra in Iraq nel 2002. I primi aerei di linea sarebbero già in volo e il Dipartimento della difesa americano potrebbe rafforzare nei prossimi giorni la sua richiesta.

L’Occidente intanto insiste nel suo approccio paternalistico e fallimentare da esportatori di democrazia. Nonostante il disastro sotto gli occhi di tutti non si riesce a capire che perché le democrazie attecchiscano rimangono fondamentali l’educazione, la cooperazione sociale (che è stata una fetta minuscola dell’enorme mole di soldi spesi in Afghanistan) e l’autodeterminazione. Se i soldi della guerra fossero stati divisi per ogni abitante afghano oggi ognuno di loro avrebbe preso 200mila euro: questo per rendersi conto dell’assurdità di un investimento bellico che non ha portato nessun risultato, nemmeno militare.

E da noi? Da noi si insiste con la visione ombelicale di ciò che accade e così ci ritroviamo ad avere sprecato una giornata sorbendoci chi dalle file della destra si domanda dove siano “le nostre femministe?” giusto per accendere un po’ di bile. Come scrive giustamente Michela Murgia, “non hanno tempo, le femministe, per curare anche la strana malattia intermittente del sovranismo locale, che si manifesta invocandole quando c’è da criticare gli abusi stranieri, ma sbeffeggiandole in tutte le circostanze in cui si occupano degli abusi in casa nostra”. Le femministe (e le associazione che operano lì) sono dove sono sempre state: al fianco delle donne. Il punto è che le donne afghane (come tutte le altre) non vanno “salvate” ma vanno messe in condizione di non avere bisogno di salvarsi. Ma questo è un argomento evidentemente troppo complesso per chi ha il pelo sullo stomaco di lucrare anche su un dramma del genere.

Buon lunedì.

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Una lunga, lunghissima omissione di soccorso

Oltre 20 anni di scelte sbagliate sempre all’insegna dell’imperialismo da esportare che viene rivenduto come esportazione di democrazia

Basir Ahang è un giornalista italo-Hazara che 13 anni fa arrivò in Italia a seguito di alcune minacce di morte ricevute dai Talebani a causa della sua attività giornalistica: «Oggi mi trovo a rivivere lo stesso orrore e preoccupazione per la mia famiglia in Afghanistan», scriveva ieri.

Dice Ahang: «La mia etnia è stata storicamente perseguitata dai Talebani ma oggi l’intero popolo si trova ad affrontare la minaccia di un gruppo che ha da sempre utilizzato la violenza e il terrore per raggiungere i propri scopi politici. Credo che tali gruppi abbiano un nome, eppure così di rado è stato utilizzato per descriverli. Anche in questa nebulosità, ottusità e relativismo vanno ricercati i semi della nostra disfatta. Per anni infatti nei media e nei salotti degli avventurieri occidentali di tutto il mondo i Talebani sono stati ritratti di volta in volta come un’opposizione armata, un gruppo militante antimperialista e così via. Verrebbe da chiedersi quale aspetto dell’imperialismo stessero combattendo i Talebani quando nel 2015 decapitarono Shukria, una bambina Hazara di nove anni che stava viaggiando con la sua famiglia da Ghazni a Kandahar. O quale impero del male stessero affrontando quando hanno preso di mira le donne, le minoranze etniche e religiose. I Talebani sono composti da gruppi diversi, e ancora oggi non è dato sapere se tali gruppi rispondano o meno ad un’unica leadership. Credo che lo scopriremo presto. Ciò che li accomuna è la brutalità ed un estremismo religioso utilizzato a fini politici».

«Ora – prosegue il giornalista – dopo intrighi e tradimenti interni al governo che hanno permesso loro di ottenere il controllo di molte regioni senza dover nemmeno combattere, i Talebani sono dentro la capitale. E a quanto pare gli Stati Uniti hanno concluso un accordo per garantire loro la libera entrata a Kabul in cambio della concessione di terminare l’evacuazione dei pochi fortunati che sono riusciti ad ottenere un passaggio sicuro. I Talebani sono già entrati a Bamiyan, capitale culturale Hazara, ed hanno issato la loro bandiera. Nel 2001 quando entrarono a Bamiyan, i Talebani fecero saltare in aria parte della storia Hazara: gli antichissimi Buddha e bloccarono i rifornimento di viveri sottoponendo la popolazione locale ad una carestia. A Herat invece le donne sono già state mandate a casa dai loro luoghi di lavoro e i professori stanno salutando per un’ultima volta le loro studentesse. Alle donne non sarà più permesso studiare. Alcune ragazze sono state uccise solo per aver indossato dei jeans. Tra poche ore i Talebani otterranno il controllo totale di un Paese che è stato offerto loro su un piatto d’argento da gran parte della comunità internazionale. Una comunità che si è illusa di poter fare accordi con un gruppo che non crede nei più basilari elementi della democrazia, della dignità e dei diritti umani».

La guerra in Afghanistan, la più lunga combattuta dagli italiani, è iniziata il 30 ottobre 2001 e finisce il 15 agosto 2021. È costata 53 vittime e 8,5 miliardi di euro. Il fallimento è di tutta la politica occidentale: oltre 20 anni di scelte sbagliate sempre all’insegna dell’imperialismo da esportare che viene rivenduto come esportazione di democrazia. Ora, vedrete, tra pochi giorni l’Europa fisserà una pomposa riunione per decidere il da farsi. Quell’Europa che tra il 2008 e il 2020 ha rimpatriato più di 70.000 afghani, derisi come “emigranti economici” se non addirittura “fasulli”, quelli che “non scappano da nessuna guerra”. È stato un Ferragosto nero per il mondo. Qualcuno dice che “è solo l’inizio” ma in realtà è l’ennesima puntata di una storia sbagliata.

Buon lunedì.

*

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Brutta aria in Polonia

Quando si dice che un certo nazismo (e fascismo) di ritorno è molto più di un’impressione forse si potrebbe guardare in Polonia

Se ne parla poco quasi niente ma in Polonia si avanza a grandi falcate verso una democrazia, una non degna di essere chiamata tale. E lo so che, dirà qualcuno, con tutti i problemi che abbiamo figurarsi se possiamo trovare anche le energie per occuparci della Polonia eppure i grandi mali del mondo, ce lo insegna la storia, accadono proprio mentre non ci si accorge (o non ci si vuole accorgere) degli scricchiolii tutti intorno.

Deve solo superare il passaggio in Senato la legge che permette al governo di avere il controllo assoluto sui media: sostanzialmente impedisce che i proprietari stranieri abbiano il controllo dei mezzi di informazione ma nella pratica la nuova legge serve per costringere il gruppo statunitense Discovery a cedere la sua quota di maggioranza del canale Tvn che attraverso Tvn24 è uno dei pochi rimasti a essere molto critico con il governo. Non è un caso che la legge sia soprannominata “lex anti Tvn” e che il governo saluti con molto favore l’eventuale attuazione: il potere quando ha bisogno di fare il prepotente perché non riesce a governare secondo le regole della democrazia ha bisogno di silenziare il dissenso. Che tutto ciò accada alla luce del sole e così vicino a noi è roba che dovrebbe interessarci.

Manca invece solo la firma del presidente nazionalista conservatore Andrzej Duda alla legge che fissa il tetto massimo di 30 anni per impugnare le decisioni in tribunale per quel che riguarda la restituzione ai superstiti dell’Olocausto delle proprietà sequestrate dalle autorità polacche durante l’era comunista. Inizialmente la legge era stata addirittura pensata con pene detentive per chi menzionava eventualità complicità polacche coi nazisti nell’Olocausto (poi questa parte era troppo grossa e hanno dovuto ritirarla). Decidere con una scure di silenziare i reclami e le decisioni pendenti nei tribunali amministrativi significa di fatto provare a cancellare un pezzo di storia, se non addirittura riscriverlo.

In Europa, a dire la verità, qualcuno ha deciso di farsi sentire. Il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli ha scritto su Twitter: «Il voto di ieri sera sulla legge sui media #lexTVN in Polonia è molto preoccupante. Se la legge entrerà in vigore minaccerà seriamente la televisione indipendente nel Paese. Non ci può essere libertà senza media liberi» e la vicepresidente della Commissione europea responsabile per i Valori dell’Unione, Vera Jourova ha ha detto che la «legge polacca sulle trasmissioni invia un segnale negativo. Serve un’iniziativa per la libertà dei media in tutta la Ue per difenderne la libertà e sostenere lo stato di diritto».

Tutto questo tra l’altro avviene in un Parlamento praticamente esautorato dopo che il premier Mateusz Morawiecki (in foto, ndr) ha espulso il suo vice e ministro dello sviluppo Jaroslaw Gowin che a sua volta ha annunciato che il suo partito Alleanza sarebbe uscito dall’esecutivo. Ed è per questo che la maggioranza ha dovuto racimolare i voti fino all’ultradestra antisemita.

Quando si dice che un certo nazismo (e fascismo) di ritorno è molto più di un’impressione forse si potrebbe guardare in Polonia, dove scrive e vota le leggi. Ed è una questione politica di tutti.

Buon venerdì.

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Intitolate un parco a Durigon

Per chi ancora non lo sapesse Claudio Durigon è un ex dirigente del sindacato di destra Ugl che, come è già accaduto, avrebbe svenduto il suo sindacato in cambio di un posto in Parlamento. Nelle file della Lega è conosciuto per la sua vicinanza politica (e fisica) a Matteo Salvini e perché è riuscito in pochissimo tempo a compiere un’ascesa che l’ha portato fino a diventare sottosegretario al ministero dell’Economia.

L’inchiesta di Fanpage “Follow che money” ha ricostruito come il ragioniere Durigon abbia sostanzialmente “regalato” i locali del sindacato Ugl alla “bestia” di Salvini, con una commistione di ruoli che non è piaciuta a molti all’interno del sindacato: in quella stessa inchiesta si sente Durigon dire in un fuori onda di stare assolutamente tranquilli sull’inchiesta che riguarda i 49 milioni di euro della Lega perché «quello che fa le indagini sulla Lega lo abbiamo messo noi», riferendosi a un generale della Guardia di Finanza. Sarebbe bastata già quella frase per ritenere Durigon inopportuno in un importante ruolo di governo ma dalle parti di Draghi e dei migliori non è accaduto nulla.

Claudio Durigon, il 4 agosto, durante un evento elettorale per le amministrative a Latina, ha proposto di revocare l’intitolazione del parco cittadino a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino per dedicarlo ad Arnaldo Mussolini, fratello del duce e direttore amministrativo del Popolo d’Italia. Sul palco di Latina, insieme a Durigon, c’era il leader della Lega Matteo Salvini, che ovviamente non ha preso le distanze dalle sue parole e anzi sarà andato in solluchero per avere trovato un altro come lui pronto a grattare gli sfinteri di un certo suo elettorato.

Solleticare la bava fascista infangando la memoria di Falcone e Borsellino è una bassezza che riesce perfino a fare schifo ai neofascisti per quanto è strumentalmente ripugnante. Il presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo l’ha definita “una farsa macabra” e una frase “che mina la democrazia”. Del resto Durigon entrando nel governo lo scorso 1 marzo ha giurato sulla Costituzione. Ovviamente il sottosegretario ha provato a correggere il tiro dicendo: «Ma io non pensavo ad Arnaldo Mussolini, io pensavo a mio nonno Raffaele, non un fascista ma vero democristiano e uomo di Chiesa, con tre sorelle suore. L’ha fatta lui Latina, anzi Littoria, assieme a tutti gli altri coloni». La toppa lo definisce perfettamente.

Pd, M5S e Leu chiedono a Draghi di ritirargli immediatamente le deleghe di governo. Elena Loewenthal sulla Stampa scrive che queste uscite sono il simbolo di un Paese «rassegnato a queste nostalgie», perché «questo fascismo di ritorno è il contraltare di un’assenza di coscienza storica, del fatto che l’Italia deve ancora fare i conti con quella memoria e con una responsabilità collettiva capace di appropriarsi di quel capitolo terribile della nostra storia».

Badate bene: Durigon è lo stesso che nel 2019 propose il premio Nobel per la pace a Matteo Salvini per dei suoi presunti salvataggi di vite nel Mediterraneo, quelle stesse azioni che a Salvini sono costate un processo. Confuso sulla storia e sulle leggi, insomma.

Per ora Draghi tace. La Lega finge di non sapere, con la testa sotto la sabbia. Intanto, se ci pensate bene, si potrebbe intitolare un parco a Durigon per ricordarci quale sia la natura della Lega e quali siano gli ingredienti di questo governo che vorrebbe essere apolitico e invece tiene dentro anime così.

Buon giovedì.

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No, la difesa non è sempre legittima

La differenza è tra la difesa legittima e la vendetta ed è su quel crinale che si misura la maturità di una democrazia. La retorica di Salvini e della Lega è da sempre quella del tifo organizzato, una posizione fideistica che ogni volta, tutte le volte, produce come riflesso incondizionato la difesa dell’uccisore

Provando a volare per qualche minuto un po’ più alti del letamaio giuridico, morale e politico che si sta riversando sul cadavere di Youns El Boussetaoui si potrebbe una volta per tutte ribadire un concetto che l’ignoranza e la propaganda sta offuscando da anni, in nome di una rincorsa alle armi e alla violenza come unici ingredienti di una sicurezza davvero sicura: no, la difesa non è sempre legittima. Se negli ultimi anni sono fioccati assessori alla sicurezza in giro, non solo nelle giunte di destra, significa che l’idea stessa di sicurezza è stata regalata alla più ignorante propaganda anche dalla fiacchezza di chi avrebbe dovuto proteggerne il senso.

La retorica di Salvini e della Lega è da sempre quella del tifo organizzato, una posizione fideistica che ogni volta, tutte le volte, produce come riflesso incondizionato la difesa dell’uccisore. Va trattata per quello che è: una “bambinesca” presa di posizione per rassicurare i propri elettori con una visione semplicistica del mondo diviso in bianco e nero, buoni e cattivi, italiani e stranieri, settentrionali e terroni. Recuperare il gusto per la complessità e la capacità di farne uno strumento politico per leggere la realtà è il primo passo per rimettere Salvini al suo posto, lì nel cassetto dei cretini provocatori. Non è un caso che quando il 28 novembre del 2018 Fredy Pacini, un gommista di Arezzo che sparò a due rapinatori moldavi uccidendone uno, Salvini cavalcò l’onda per mettere mano alla legge sulla legittima difesa (con l’aiuto del Movimento 5 Stelle e di Giuseppe Conte, perché le cose vanno ricordate per bene) e la frase migliore la disse proprio il gommista alla fine dell’iter processuale che lo vide prosciolto: «Aveva 29 anni, non volevo ucciderlo. Non potrà più accadermi una cosa simile perché non avrò mai più una pistola e quella che avevo non voglio più vederla in vita mia». La legittima difesa è già prevista nel nostro ordinamento e spesso proscioglie gli autori riconoscendone lo stato di pericolo e il turbamento. Non è vero, come ciancia Salvini, che non esista nessun tipo di impunità. I processi non sono una condanna e, come scrive il presidente di Antigone Patrizio Gonnella, «la verità processuale si conquista lentamente, con fatica, con il rispetto delle garanzie degli imputati, affidandosi a un complesso apparato probatorio. Ogni difesa d’ufficio è inappropriata e irriguardosa della norma predetta, così come lo sarebbe stata una tesi colpevolista indimostrata».

La differenza è tra la difesa legittima e la vendetta ed è su quel crinale che si misura la maturità di una democrazia. Per questo pensare che uomini delle istituzioni come certi ceffi di destra giochino con la vendetta li rende di fatto mandanti morali di ogni violenza eccessiva. Loro si offendano, si offendano pure. Vale la pena ricordare che nei Paesi di tutto il mondo regolati da leggi democratiche la difesa non è sempre legittima: c’è scritto nei codici e nelle costituzioni. Tocca citare ancora Gonnella quando dice che «il refrain che la difesa è sempre legittima non tiene conto del principio, costituzionalmente avallato, secondo cui mai può valere quale causa di giustificazione per proteggere un bene di rilievo inferiore. Per chiarirci non si può mai privare una persona della vita per evitare la sottrazione di un bene di proprietà. Non c’è formulazione legislativa che possa mai legittimare la negazione del principio di proporzionalità, che a sua volta è strettamente connesso con quello di legalità penale in senso stretto».

Per questo le figure di sindaci o ministri dell’interno che si trasformano in sceriffi (nelle parole o nelle azioni o nelle intenzioni) sono una stortura della democrazia: la sicurezza si garantisce dando reddito e lavoro, offrendo i servizi essenziali, offrendo protezione e cure alle categorie più vulnerabili, costruendo una città in cui ognuno con dedizione e onore stia nel proprio ruolo (il sindaco fa il sindaco, la polizia locale si occupa di mobilità, gli assessori contribuiscono all’amministrazione della città e solo le forze dell’ordine si occupano dell’ordine pubblico).

È un campo che è stato completamente abbandonato dalla politica, anche da quella considerata lontana dalla destra, che ha lasciato spazio libero alla destra per costruire la propria propaganda. Ci sono responsabilità da tutte le parti se oggi siamo arrivati a vivere e ad ascoltare prodromi del fascismo scambiandoli per dibattito politico.
Buon venerdì.

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Volete mediare con questi?

Secondo diversi leghisti, la legge Zan permetterebbe di fare sesso con animali, bambini e cose. Ciò nonostante, c’è ancora chi sostiene che sul testo si debba trovare un compromesso con le destre

Nessuno della Lega e di Fratelli d’Italia voterà mai il ddl Zan. Non si capisce perché una questione così cristallina, semplice e lampante non debba stoppare immediatamente qualsiasi discussione sull’eventuale ricerca di voti e di mediazioni. Voteranno il ddl Zan alcuni senatori di Forza Italia (qualcuno l’ha già anche pubblicamente dichiarato) e poco altro da quelle parti. Poi ci sono quelli di Italia vile che insistono nel dire che mancano i voti: sì, i loro.

Per capire di che tipo di gente stiamo parlando vale la pena riprendere la folle dichiarazione di ieri di Maria Rita Castellani, Garante per l’infanzia dell’Umbria. Occhio, si tratta di una dichiarazione che Castellani ha inviato a tutti gli organi di stampa, mica un delirio bisbigliato al bar. Sentite bene: «Il concetto d’identità cambia, non è più quello antropologico che conosciamo da sempre e che distingue persona da persona a ragione di evidenze biologiche, ma diventerà qualcosa che io, cittadino, posso decidere arbitrariamente secondo la percezione del momento. Di conseguenza ogni desiderio sarà considerato un bisogno e il bisogno un diritto». E poi: «A partire da queste considerazioni preliminari si deduce che il sesso biologico non avrà più importanza dal punto di vista sociale perché conterà soprattutto il sesso culturale cioè quello percepito come, d’altra parte, si potrà scegliere l’orientamento sessuale verso cose, animali, e o persone di ogni genere e, perché no, anche di ogni età, fino al punto che la poligamia come l’incesto non saranno più un tabù, ma libertà legittime». Insomma, la garante per l’infanzia dell’Umbria dice che con la legge Zan si potrà fare sesso con animali, bambini e cose. Sembra incredibile ma è così.

Ma non è tutto: il capogruppo regionale Lega Stefano Pastorelli e il senatore Simone Pillon, responsabile delle politiche familiari del partito in Umbria, si sono schierati dalla parte di Castellani. In fondo, se ci pensate, Castellani non ha detto niente di diverso rispetto a quello che dicono solitamente Meloni e Salvini. L’unica differenza è che ha calcato poco poco di più la mano, come potrebbe fare un Salvini al secondo mojito.

Nessun cenno di discordia da parte di Salvini e Meloni. Questi sono questa cosa qui. Quelli vogliono trattare con questi qui. E davvero vorrebbero convincerci che alla fine cederanno al genio politico di Renzi. E noi sono giorni che ne scriviamo. Avanti così.

Buon giovedì.

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Non candidate nessuno, fate prima

Il centrodestra, in vista delle prossime amministrative e regionali, sta faticando ad individuare i propri nomi. Ma una soluzione coraggiosa e definitiva ci sarebbe: lasciar perdere

Sommersi dalle incredibili notizie dell’incredibile governo dei migliori, stiamo lasciando passare sotto traccia la farsa del centrodestra che si avviluppa nelle candidature per le prossime elezioni amministrative e regionali. Un centrodestra che vorrebbe farsi federazione e non riesce nemmeno a decidere un candidato sindaco è la fotografia perfetta del momento storico: tutti insieme appassionatamente per spartirsi i soldi del Pnrr e poi che palle la politica, che palle che gli tocca perfino fare politica.

Si decide di non decidere scivolando su questa idea del “ticket” che è solo l’ennesima trovata pubblicitaria che non significa niente: a Roma c’è il “ticket” Michetti-Matone e sarebbe curioso sapere cosa accadrebbe se uno non fosse d’accordo con l’idea dell’altro. Non succederebbe niente di più del solito odio sotto traccia come accade in questo momento tra Salvini e Meloni che in superficie si trasforma in una vuota e affettata cortesia.

Idea ticket ovviamente anche in Calabria, dove a correre saranno Occhiuto a braccetto con Spirlì. Il presidente della Calabria pro tempore che ha sostituito Jole Santelli in un Paese normale sarebbe dimenticato o usato al massimo per qualche vignetta sui social invece la classe dirigente leghista è talmente infima che si ritrova costretta a riciclarlo. Incredibile.

A Milano si parla di Oscar di Montigny, il genero di Ennio Doris di Banca Mediolanum, che si definisce «esperto di Mega trends e Grandi Scenari, Innovative Marketing, Comunicazione Relazionale e Corporate Education» e che, come ha raccontato in un pezzo gustosissimo Gianni Barbacetto sul Fatto quotidiano scrive cose come «lo spirito, ritornando su se stesso, prende coscienza delle sue operazioni e dei suoi caratteri» oppure dello specchio che «in quanto strumento neutro, oggettivo, privo di giudizio, rimanda sempre l’immagine vera, reale, del soggetto che in esso si specchia». E non vuoi metterci un bel ticket? Pronti: l’ex sindaco Albertini. Giorgia Meloni si lamenta: «Chi lo conosce questo di Montigny?» e chissà chi a Roma conosce Michetti, verrebbe da risponderle.

“I candidati devono essere civici”, ripete Salvini. Del resto i civici, si sa, sono il cerotto perfetto per non dover dimostrare di avere una classe dirigente decente. A Bologna un capolavoro: il “civico” dovrebbe essere Andrea Cangini, che tre anni fa è stato eletto senatore. Un senatore a sua insaputa, evidentemente come va di moda da quelle parti.

Il 9 giugno Matteo Salvini prometteva “in due giorni decideremo tutti i 1.300 nomi dei candidati sindaci”. Oggi è il 18 giugno, fate voi.

In compenso ci sarebbe una soluzione coraggiosa e definitiva: non candidate nessuno. Rimanete lì in disparte, pronti a raccogliere qualsiasi notizia di cronaca nera preferibilmente farcita di stranieri, schierate le truppe a cercare il degrado e per i prossimi cinque anni potete riempire i social dicendo che quelli che governano sono una vergogna. Se qualcuno vi dice qualcosa potete rispondere che siete talmente sovranisti che vi candiderete solo quando non avrete il disturbo di dover governare anche gli elettori degli altri.

Buon venerdì.

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