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Il metodo Cossiga

“Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno. In primo luogo, lasciare perdere gli studenti dei licei, perché pensi a cosa succederebbe se un ragazzino di dodici anni rimanesse ucciso o gravemente ferito. Gli universitari invece lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Nel senso che le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì.” (F. Cossiga)

Lo spontaneismo è sempre controproducente

A vederlo assaltare un autoblindo, ti viene il sospetto che si tratti di un infiltrato. Solo quando è morto, e gli scopri il volto, t’accorgi che si trattava di un ragazzo. Anche un bravo ragazzo, a detta di sua madre e dei suoi amici. Dovresti sentirti un verme: come hai potuto sospettare che si trattasse di un agente mandato in piazza a creare disordini? Devi deciderti: o smetti di sospettare che una pacifica protesta possa degenerare in altro solo a causa di un piano ordito da chi vuole sabotarla, e allora con coerenza devi mandare a cagare la madre e gli amici del ragazzo morto, o con animo sereno e onesto accetti l’evidenza che nessuna protesta può essere tanto pacifica da dare piena assicurazione che resti tale. In altri termini: o metti in discussione le ragioni della protesta, quali che siano, o metti in discussione il dogma della nonviolenza. Malvino sui fatti di ieri.

Parassiti da corteo

La questione principale è un’altra. E’ la questione delle pratiche. Che devono essere condivise. Non si parassita un corteo che ha altri obiettivi e convocato con altre pratiche, non gli si impone la propria minoritaria presenza. Questa è la violenza peggiore. Imporre agli altri le proprie pratiche. Prendendo la testa in 300 di una manifestazione di 300mila persone e segnando il destino di quella manifestazione. E’ una questione di democrazia. Sommamente significativo che il grosso dei No Tav – i temibili valsusini! – li hanno contestati. In Val di Susa, per dire, nessuno era andato a dire che queste erano la pratiche della giornata. Eppure lassù sono abituati anche a certe pratiche conflittuali – solo, però (e si torna al primo punto), se sono sensate, “razionali rispetto allo scopo”. Marco Rovelli su Nazione Indiana.

La ciclicità banale della violenza

E’ un momento buio. Buio perché alla fine siamo ricascati in un metodo. E nel mentre si raccolgono le idee non posso che riprendere il post del bravo Tafanus (in uno stillicidio di marmaglia opinionistica) che mi ha colpito. E che colpisce. A voi le considerazioni:

Quando la storia di ripete – Da Genova 2001 a Roma 2011, qualcosa che non quadra

Scrivo questo post sotto la pressione dei fatti che sono accaduti e che stanno accadendo sotto i nostri occhi, e condizionato da Genova 2001. Lo scrivo anche condizionato da certe similitudini sconcertanti.
A Roma, come a Genova, una pacifica dimostrazione di massa di alcune decine di migliaia di persone, è stata sfregiata da alcune decine di delinquenti in maschera. Attesi. Riconoscibili. Nessuno dei quali alcune migliaia di poliziotti in assetto antiguerriglia, armati ed attrezzati di tutto punto, sono riusciti ad arrestare.

Peccato. Perchè a Genova, come a Milano, beccarne dieci avrebbe permesso di scoprire identità, provenienza, appartenenza politica ed organizzativa. Peccato, perchè a Genova, come a Roma, gli infiltrati erano previsti, attesi… Solo attesi, o anche invitati, e organizzati? Non lo sapremo mai, a Roma come a Genova, perchè nessuno di loro sarà preso.

Ho scritto questo post di getto, stimolato anche da una strana foto pubblicata da Repubblica. Inquietante, di difficile decifrazione… Mentre alcuni bastardi coperti dai soliti caschi integrali spaccano tranquillamente la porta in cristallo blindato della Carimi, un pacifico signore, a un metro e mezzo di distanza, è tranquillamente appoggiato con le spalle al muro della banca, indifferente a tutto. Ha una certa età, un po’ di pancetta, gli occhiali scuri che ne mascherano buona parte della faccia. Sembra non aver paura né dei black-blocs armati di picconi, né della polizia che potrebbe eventualmente arrivare, scambiarlo per “uno di loro”, massacrarlo a manganellate. Niente. E’ la statua della annoiata tranquillità. A coi ricorda qualcosa? A me di. A me ricorda lo stereotipo del celerino in borghese. Di quelli che ai miei tempi si infiltravano ed infiltravano.

Roma-carimi
Ai miei tempi? No. anche ai tempi dei ragazzi d’oggi. Luglio 2001. Qualcuno ricorda la storia di certe bottiglie molotov? No? Allora ecco un ripassino, ad uso degli smemorati. Niente ricerche complesse… basta andare sul più banale degli strumenti: Wikipedia:

“…nella relazione della Procura di Genova, con cui si chiedeva il rinvio a giudizio di 28 poliziotti per le violenze alla scuola Diaz, i magistrati affermano di aver scoperto la sparizione di alcuni filmati amatoriali sull’irruzione, spediti dalla polizia, senza autorizzazione da parte della magistratura, in Svizzera e in Germania per il riversamento su DVD, e di cui si sono poi perse le tracce (Nessuno, in Italia, avrebbe potuto riversare dei DVD????? Io lo faccio tutti i giorni. NdR)

Il 10 giugno 2002, il vicequestore aggiunto Pasquale Guaglione riconosce, tramite foto e riprese, le due molotov sequestrate ufficialmente nella scuola Diaz come quelle da lui stesso ritrovate in alcuni cespugli di una traversa di Corso Italia, al termine di una carica durante gli scontri del sabato, facendo sorgere i primi sospetti sulla provenienza delle molotov.

Successivamente il 4 luglio 2002 Michele Burgio, l’agente che guidava il mezzo in cui erano le bottiglie, affermò di aver avvertito il generale Valerio Donnini (che era sul mezzo di cui Burgio era autista) della presenza di queste e di aver chiesto se era opportuno portarle in questura, ricevendo però una risposta brusca (“lui si è rivolto a me in modo alterato, come se avessi fatto una domanda stupida o che comunque non dovevo fare”), e disse di aver ricevuto successivamente l’ordine dal vicequestore Pasquale Troiani di portare le molotov davanti alla Diaz. È stato inoltre ritrovato un video dell’emittente locale Primocanale (classificata col nome Blue Sky), che aveva seguito tutti i giorni della manifestazione, girato nel cortile della scuola durante l’irruzione, in cui si vedrebbero i responsabili delle forze dell’ordine che stavano guidando la perquisizione intenti a parlare tra loro al telefono, con in mano il pacchetto azzurro in cui erano contenute le molotov.

Il vicequestore Pasquale Troiani (che non ricopriva nessun ruolo durante l’operazione), si contraddisse durante i successivi interrogatori, affermando sia di aver ricevuto effettivamente le molotov fuori dalla scuola, da Burgio, sia che probabilmente era già stato avvertito della presenza delle bottiglie sul mezzo prima di arrivare alla Diaz e che forse ne aveva parlato con il vicequestore Di Bernardini. Ammise tuttavia di aver detto a quest’ultimo che “erano state trovate nel cortile o nell’immediatezza delle scale d’ingresso. Questa è stata la mia leggerezza, e me ne rendo conto”.

Spartaco Mortola, l’ex capo della Digos genovese (che stando a quanto riferito dai media è una dei superiori che compaiono nel filmato di Primocanale), sostenne invece che le molotov gli furono segnalate da due agenti del reparto mobile che le avevano trovate dentro la scuola, che con lui in quel momento erano due colleghi, forse La Barbera (morto l’anno successivo al G8) e Gratteri, e di aver visto al piano terra della scuola una cinquantina di manifestanti tranquilli e apparentemente senza lesioni o ferite.

Francesco Gratteri (presente, sempre secondo le notizie date dai media, nel succitato filmato) durante l’interrogatorio nell’ottobre 2003 sostenne, a proposito del finto accoltellamento: “…io penso che l’episodio dell’accoltellamento simulato sia stato determinato dal fatto che qualcuno ha esagerato… Che l’episodio dell’accoltellamento potesse in qualche maniera parare, giustificare, coprire l’eccesso di violenza usato…”. Aggiunse che non ricordava né quando furono consegnate le molotov, né se gli erano state indicate, e che aveva trovato anomala la presenza delle telecamere delle televisioni subito dopo il loro arrivo.

Giovanni Luperi, vice di La Barbera, affermò che il sacchetto delle molotov era passato di mano in mano tra gli ufficiali presenti, per rimanere infine a lui quando questi se ne erano andati mentre stava telefonando (stando alla sua testimonianza, lo consegnò alla dottoressa Mengoni della Digos di Firenze). Sulla presenza delle molotov una volta portate all’interno della scuola disse:

“Le ho viste, queste due bottiglie molotov, stese su uno striscione. Ritengo che fosse un qualche suggerimento ad uso stampa. Qualcuno aveva intenzione di far riprendere le immagini fotografiche del materiale sequestrato all’interno della Diaz.”

Basta così. Il capitolo dedicato a questa faccenda da Wikipedia è lungo ed esaustivo, e chiunque ne abbia voglia puo leggere il seguito  . al link relativo.Tutti però ricordano le conclusioni dell’inchiesta: le molotov erano state trovate altrove, nascoste in un cespuglio. Forse non dalle maestre d’asilo di Giustizia e Libertà, arrivate in autobus da Chivasso. Più probabilmente dai black-blocs, o da “altri”. Sono state portate alla Diaz – ha accertato la magistratura – per giustificare l’irruzione e la “macelleria cilena”.

Ecco perchè quella vetrina mi inquieta. Cioè, ad inquietarmi non è la vetrina, ma quel tranquillo signore con occhialoni e pancetta che aspetta, alquanto annoiato, il completamento dell’operazione. Chi sarà mai, quel signore così tranquillo ed indifferente? Tafanus

 

 

L’anarchia del potere secondo PPP

Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole. E ciò che il potere vuole è completamente arbitrario o dettato da sua necessità di carattere economico, che sfugge alle logiche razionali. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Io detesto soprattutto il potere di oggi. Ognuno odia il potere che subisce, quindi odio con particolare veemenza il potere di questi giorni. È un potere che manipola i corpi in un modo orribile, che non ha niente da invidiare alla manipolazione fatta da Himmler o da Hitler. Li manipola trasformandone la coscienza, cioè nel modo peggiore, istituendo dei nuovi valori che sono dei valori alienanti e falsi, i valori del consumo, che compiono quello che Marx chiama un genocidio delle culture viventi, reali, precedenti. Sono caduti dei valori, e sono stati sostituiti con altri valori. Sono caduti dei modelli di comportamento e sono stati sostituiti da altri modelli di comportamento. Questa sostituzione non è stata voluta dalla gente, dal basso, ma sono stati imposti dal nuovo potere consumistico, cioè la nostra industria italiana pluri-nazionale e anche quella nazionale degli industrialotti, voleva che gli italiani consumassero in un certo modo, un certo tipo di merce, e per consumarlo dovevano realizzare un nuovo modello umano. (Pasolini prossimo nostro)

Da dove è spuntata questa tristezza

A Venezia, in strada.
Entrano Antonio, Salarino e Salanio.

Antonio: Non so davvero perché sono tanto triste. E questa tristezza mi stanca, e voi stessi dite d’esserne stanchi. Ma ho ancora da sapere dove l’ho presa, dove me la son trovata, come me la son guadagnata, di che diavolo è fatta, da dove è spuntata. Ed essa mi stordisce così che stento a riconoscere me stesso.
Salarino: La vostra mente è agitata perché segue sul mare le vostre navi dalle immense vele, le vostre navi che come signori e ricchi borghesi dei flutti in sfarzoso corteo guardano dall’alto i vascelletti dei piccoli trafficanti che fanno continue riverenze sotto il volo di quelle grandi ali.
[William Shakespeare, Il mercante di Venezia, traduzione di di Paola Ojetti, Newton, 1990]

Le macerie dell’antimafia

Lettera dei sindacati di polizia (tutti!) al Ministro Maroni. O meglio: lettera della declinazione istituzionale e operativa dell’Antimafia (quella che respira anche nelle scuole, nei libri, nei comitati, negli incontri, negli studi) ad un Paese che (mentre sbadiglia, si svende e si arrocca) sta mangiandosi il cuore della sua storia migliore. Ma soprattutto: lettera da tenere in tasca in ogni angolo della vostra città in cui ancora danza impunito il mito di un Governo (e un Ministro) che ‘ha fatto’ contro le mafie.

Onorevole Signor Ministro,
ci rivolgiamo a Lei con fiducia nella Sua veste di massima Autorità politica quale Ministro dell’Interno e per quello che in questi anni ha dimostrato con coerenza d’indirizzo, ponendo sempre grande attenzione ai temi riguardanti il contrasto alle mafie.

Non avremmo mai voluto scrivere questa lettera ma gli ultimi avvenimenti che si sono verificati presso la Direzione Investigativa Antimafia ci hanno spinto a farlo. Dai primi giorni di luglio, come Lei sa, si è insediato il Direttore della D.I.A. “pro tempore”, di nuova nomina. Questi, come primo atto, senza concertazione alcuna, ha messo a disposizione del Dipartimento della P.S. l’indennità aggiuntiva che i dipendenti D.I.A. percepiscono dal 1992, come previsto dalla legge istitutiva: un taglio di circa 7 milioni di euro, che comporterà una decurtazione dello stipendio al personale pari al 20%; una “punizione” nei confronti di chi, fino ad oggi, ha costantemente raggiunto brillanti risultati di servizio.

L’indennità “incriminata”, peraltro, è notevolmente inferiore a quella percepita dai dipendenti delle Agenzie di informazione DIS, AISI e AISE e, nonostante sia a questa legata, non è mai stata adeguata a livello ISTAT. I circa 1300 operatori D.I.A., grazie alla loro professionalità, hanno conseguito risultati eccellenti nell’azione di contrasto. A titolo esemplificativo, in tema di aggressione ai patrimoni mafiosi, nel periodo 2009 – 2011 (primo semestre) sono stati sequestrati e confiscati beni stimati, rispettivamente, per un valore di 5,7 miliardi di euro e di 1,2, miliardi di euro. Tutto ciò rende la D.I.A., in termini aziendalistici, “un’impresa in attivo” che contribuisce in maniera significativa ad implementare le risorse del Ministero dell’Interno e della Giustizia attraverso il FUG.

Il vertice della struttura, prima di intraprendere azioni estemporanee, avrebbe potuto proporre risparmi di spesa conseguenti ad una gestione più oculata delle risorse: anziché mettere le mani nelle tasche dei dipendenti, avrebbe potuto operare sui costi di locazione delle sedi occupate dai Centri Operativi trasferendole in immobili demaniali oppure confiscati alla criminalità organizzata. A questo proposito citiamo l’esempio del Centro Operativo di Palermo che in questi giorni si trasferirà presso una villa confiscata alla mafia.

Altra nota dolente è il costo dell’immobile che ospita a Roma, in zona Anagnina, gli uffici centrali della Direzione Investigativa Antimafia, della Direzione Centrale Servizi Antidroga e della Direzione Centrale Polizia Criminale, il cui canone di locazione, esorbitante, ammonta a circa 17 milioni di euro annui.

Con il suo “atto d’imperio” il Direttore della D.I.A. sembra volersi sostituire a Lei ed al Legislatore, quindi all’intero Parlamento.

Come Lei può immaginare, l’iniziativa ha creato malumore e mortificazione in tutto il personale D.I.A., di ogni ordine, qualifica, grado e provenienza (Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri, Guardia di Finanza, Amministrazione Civile dell’Interno), generando in esso un senso di mancata considerazione per l’opera prestata con impegno costante ed abnegazione, a volte mettendo a repentaglio la propria incolumità, nella consapevolezza e convinzione di rendere un servizio al Paese.

Sicuramente l’azione della D.I.A. ha dato prestigio allo Stato in campo nazionale ed internazionale ed ha riscosso il massimo consenso anche nell’opinione pubblica.

I risultati ottenuti sono tangibili: è sufficiente consultare le relazioni semestrali periodicamente inviate al Parlamento.

Tutto ciò con le difficoltà che Lei può immaginare, dovute a risorse economiche destinate alla D.I.A., sempre minori nel corso degli anni: dai 28 milioni di euro stanziati per la D.I.A. nel 2001 si è passati ai 15 milioni di euro attuali; a personale sotto organico, poco più di 1300 unità contro le 1500 previste; a continue emorragie di personale D.I.A. impiegato in “uffici doppione” presso la D.C.P.C. (i gruppi di lavoro sulle “Grandi Opere”, G.I.C.E.R., G.I.C.E.X., G.I.T.A.V.); alla disparità di trattamento nella progressione in carriera riservato al personale D.I.A. nelle rispettive amministrazioni di appartenenza non essendo mai stato istituito il previsto “ruolo speciale”.

Ci creda, Signor Ministro, tutto questo appare avvilente ed inaccettabile. Abbiamo il dovere morale di denunciare questo ennesimo tentativo di depauperamento della D.I.A., così fortemente voluta da Giovanni Falcone, attentando così anche alle sue idee.

Le nostre parole non sono una difesa corporativista della Struttura ove siamo onorati di prestare servizio ed a cui abbiamo dedicato con orgoglio gran parte del nostro percorso professionale: sono invece espressione del senso di sentita appartenenza allo Stato per il quale magistrati, uomini e donne delle Forze di Polizia e cittadini hanno dato la propria vita.
Signor Ministro, ci dia una risposta: è stato questo soltanto il frutto di un’iniziativa scomposta da parte di un alto burocrate del Dipartimento o è l’espressione di una precisa volontà politica?

In quest’ultimo caso, La invitiamo ad assumersi, innanzi al Paese, la responsabilità, chiara e trasparente, di “cancellare” l’Istituzione che rappresenta l’organismo antimafia per eccellenza. Se, invece, tutto ciò è avvenuto a sua insaputa, come noi crediamo, ci attendiamo un suo immediato, diretto e risolutivo intervento, capace di restituire a tutto il personale della D.I.A. la serenità necessaria ad operare in un settore così delicato della sicurezza.

Giulio Cavalli e LIBERA a Casale Monferrato


Sabato al Municipale “Nomi, Cognomi e Infami”, di e con Giulio Cavalli
 14/10/11

CASALE MONFERRATO – Il Presidio di Libera “Totò Speranza” di Casale Monferrato e l’Associazione La Mongolfiera, con la collaborazione di Novacoop, presentano lo spettacolo “Nomi, Cognomi e Infami”, di e con Giulio Cavalli, che si terrà sabato 15 ottobre, ore 21.00, al Teatro Municipale di Casale Monferrato.

Cavalli, da anni attivamente impegnato, attraverso i suoi spettacoli, nella lotta alle mafie e costretto a vivere da due anni sotto scorta a causa delle minacce ricevute, racconter&agr ave; storie di mafia, di ‘ndrangheta e di chi ha scelto di non arrendersi agli “uomini d’onore”.

Sul palco nessuna scenografia, solo Giulio Cavalli e la sua sedia, per lasciare spazio ai veri protagonisti dello spettacolo: alcuni già conosciuti, come Paolo Borsellino e Peppino Impastato, altri da scoprire nel corso della serata.

L’arma di Cavalli è la risata: “ridere di mafia è una ribellione incontrollabile!” e nel suo spettacolo i boss vengono presentati per come sono davvero, non uomini affascinanti che cavalcano bianchi cavalli, ma anziani ignoranti, incapaci di mettere il congiuntivo al posto giusto, nascosti in lugubri tuguri circondati da santini e cassette dei Puffi.

Le storie toccano anche il nord Italia, dalla Lodi dove Cavalli vive, al nostro Piemonte, in special modo quando si parla di Bruno Caccia, magistrato cuneese ucciso a Torino dalla ‘ndrangheta nel 1983: oggi portano il suo nome il PalaGiustizia di Torino (dove si svolge il Processo Eternit) e la Cascina di San Sebastiano da Po, confiscata alla famiglia mafiosa che aveva ordinato l’esecuzione del magistrato, dove Libera produce miele e nocciole.

Uno spettacolo aperto a tutta la cittadinanza, organizzato dai ragazzi del presidio con l’obiettivo e la convinzione di riuscire a riempire il teatro Municipale puntando soprattutto sulla partecipazione giovanile: per chi ha meno di 25 anni lo spettacolo costerà solo 5 euro, contro i 10 del biglietto intero.

Nel pomeriggio, alle 15.00, si segnala la biciclettata contro le mafie organizzata da Libera, alla conclusione previsto l’intervento di Giulio Cavalli.

Il manicheismo antimafia à la mode

C’è un mondo oltre il manicheismo à la “300”. Un mondo difficile da raccontare, nel quale dobbiamo necessariamente abbandonare la nostra stessa presunzione d’innocenza. Esiste una realtà impossibile da affrontare con il buonismo che spesso contorna le narrazioni dicamorra. Che oltrepassa l’ipocrisia dicotomica dei “buoni” contro i “cattivi”, e addirittura ”geniali” camorristi. In questa volgare lotta tra bande – per dirla con le parole di Falcone – non ci sono geni dell’economia ma solo pessimi criminali che sfruttano la connivenza e la rassegnazione. La camorra non è la mafia. La camorra non combatte lo Stato – o si accorda con esso – per il controllo di un territorio. La camorra è un mero modello culturale ed economico che unisce consumismo e immagini televisive. È la sublimazione del capitalismo e di ”Uomini e Donne”. La camorra “vince” e si radica nei comportamenti della cittadinanza perché collima con il modello social-affaristico di questa Italia da basso impero. Un gran pezzo di Francesco per riflettere (e non solo rifletterci).