Vai al contenuto

Domenico Leotta arrestato.

20130202_leotta-arrestoDomenico Leotta è accusato della strage di Pegli dalla pentita Giuseppina Pesce, nipote del boss Giuseppe Pesce. La donna si è pentita per «amore dei figli» dopo essere stata arrestata nell’operazione All Inside, nell’aprile 2010. Sei mesi dopo Giuseppina Pesce ha deciso di collaborare con i magistrati della dda di Reggio Calabria, raccontando la storia e le attività criminali del suo clan. Tra i ricordi della Pesce anche il triplice omicidio di Maria Teresa Gallucci, 37 anni, di sua madre Nicolina Celano, 72 e della cugina Marilena Bracalia, 22. La pentita ha fornito agli inquirenti tutti i retroscena di quel massacro e ha indicato proprio in Domenico Leotta il killer che, partito da Rosarno, raggiunse Pegli per compiere la missione di morte. Il motivo della strage sarebbe stato il riequilibrio mafioso nella zona, ma ci sarebbero stati anche motivi legati all’onore per presunti legami extraconiugali di una delle donne. Subito dopo la strage fu arrestato in Calabria Francesco Alviano, un ragazzo di 20 anni, figlio di Maria Teresa Gallucci. Il giovane fu accusato da un pentito di ‘ndrangheta, Francesco Facchinetti. I magistrati contestarono ad Alviano i tre omicidi commessi per lavare col sangue la relazione di sua madre Maria Teresa Gallucci, vedova da quindici anni, con Francesco Arcuri, proprietario di una boutique nel centro di Rosarno. A novembre del 1993, un anno prima della strage di Pegli, l’uomo fu ucciso all’interno del suo negozio con nove colpi al basso ventre. Maria Teresa si aspettava forse che lo stesso killer raggiungesse anche lei e quindi scappò da Rosarno per rifugiarsi a Pegli dalla madre. Dopo tre notti d’isolamento Francesco Alviano fu scagionato. Di quel triplice delitto non si seppe più nulla sino a quando Giuseppina Pesce non aprì la mente ai ricordi indicando in Domenico Leotta l’autore della strage. Con lui – secondo le dichiarazioni della pentita – avrebbe agito Francesco Di Marte, altro esponente del clan di Rosarno.

Oggi Domenico Leotta è stato arrestato concludendo così la sua fastidiosa latitanza. Fastidiosa non solo per la giustizia ma per il pudore. E’ una buona notizia, una mezza buona notizia, di quelle buone notizie che sarebbe meglio che non fossero state possibili eliminandone le cause piuttosto che gli effetti. Ma è una dolce sera per la memoria e l’impegno.

E i latitanti, in Italia, si arrestano anche con il Governo vacante, per dire.

Nessuno è LIBERO di diffamare

2013-01-31-liberoMa c’è un limite che nessuna strategia può travalicare, al di là dei casi specifici, che valgono per chiunque, a destra come a sinistra, e a cui bisogna comunque concedere la possibilità di chiarire e spiegare. Quel limite è rappresentato dalla verità. Una notizia pubblicata in prima come in ultima pagina deve contenere un minimo di verità, anche una briciola, un pizzico, avere quantomeno un fondamento concreto. È la base del giornalismo. Ma, ripeto, c’è giornalismo e giornalismo. Giulio Cavalli si è trovato in mezzo alle frecce sudice di un giornalismo mistificatore e moralmente infimo. Il consigliere di Sel, l’uomo che ha sfidato la ‘ndrangheta a Milano e in Lombardia, una mattina di gennaio (il 31) ha trovato la sua foto in prima pagina, messo in mezzo a quelli che il quotidiano di Belpietro definisce “gli impresentabili”, ossia i consiglieri indagati per il caso delle spese folli in Regione.

Una riflessione di Massimiliano Perna. Da leggere.

#preferenzepulite si riparte per un’ecologia del voto

Addiopizzostickerconsenso-300x225La nostra campagna #preferenzepulite lanciata da me e Pippo Civati per le scorse amministrative aveva fatto discutere, analizzare e ottenere risultati inaspettati (ad esempio qui e qui).

Scrivevamo:

Nelle ultime elezioni amministrative la criminalità organizzata ha avuto gioco facile nell’eleggere un consigliere all’interno delle istituzioni a cui fare riferimento e su cui esercitare le proprie pressioni. I dati elettorali degli ultimi anni indicano chiaramente come bastino qualche decina di voti per entrare nei consigli comunali di città importanti per dimensione, posizione e attività sul territorio. Ne parla spesso anche Nando Dalla Chiesa nel suo decalogo antimafia e le ultime operazioni contro le mafie (anche in Lombardia) hanno stilato l’elenco dei nomi e dei cognomi.

Se ‘ndrangheta, cosa nostra e camorra utilizzano lo strumento del voto di preferenza meglio e più consapevoli della stragrande parte degli elettori il problema non è solo politico: è un problema di cittadinanza praticata troppo poco. Se le mafie dimostrano di conoscere gli strumenti democratici e di utilizzarli a proprio vantaggio significa che anche su questo punto noi dobbiamo provare ad essere più vivi. Il “porcellum mafioso” è garantito dagli argini troppo bassi.

Per questo chiediamo in questi ultimi giorni di campagna elettorale che i candidati sindaci, la stampa, i partiti, la rete e la società civile alzino la voce sull’uso responsabile della preferenza da esprimere nel seggio. Indicare un cognome di cui fidarsi e a cui affidarsi non è solo il modo per non delegare solo alla coalizione l’attenzione per i punti di programma e avere una persona di riferimento; dare il voto di preferenza significa alzare l’argine contro le mafie per rendere più difficile la loro gestione del consenso.

Votate. E date una preferenza.

Su twitter #preferenzepulite

Giulio Cavalli e Pippo Civati

In Lombardia dove l’assessore Zambetti alle ultime elezioni del 2010 ha comprato voti dalla ‘ndrangheta forse è il caso di ripartire subito. Insieme. Davvero.

Quando “EXPO dei popoli” sgombera i rom

articolo scritto per IL FATTO QUOTIDIANO

disegno-20080320_sgombero_romUna lettera, chiara ed efficace, dal campo Rom di Baranzate:

“Mancano due settimane alla data che tormenta le nostre notti e i nostri giorni. Il 15 febbraio, secondo quanto Infrastrutture Lombarde Spa ha detto ad alcuni di noi, verranno a sgomberare il nostro campo, a due passi da Rho, proprio a ridosso dell’autostrada dei Laghi, nel territorio di Baranzate. Un campo che sorge su terreni che abbiamo regolarmente comprato, circa 25 anni fa, e in cui viviamo da allora.

Devono fare l’Expo, ci dicono. Devono costruire una strada di collegamento tra Molino Dorino e l’autostrada. Siamo proprio nel mezzo, dobbiamo andare via.

Sono venuti da noi quelli di Infrastrutture Lombarde Spa, a metà settembre del 2012, hanno scattato delle foto. Alle nostre case e alla nostra terra. Ci hanno fatto firmare delle carte. Anzi le hanno fatte firmare a chi non sa leggere né scrivere in italiano. Ci hanno detto che erano per la privacy. In realtà erano documenti che stabilivano la presa in possesso dei terreni ad un prezzo bassissimo, sette euro a metro quadro.

Sette euro, tanto valgono per loro la nostra vita, la nostra storia, due decenni di vita in un terreno comprato da noi. Un terreno edificabile, adesso. Quando ci hanno fatto pagare le multe per le casette che abusivamente abbiamo costruito sui nostri campi, non siamo riusciti ad ottenere la variazione di destinazione d’uso da agricolo ad edificabile. Non era possibile. Non potevano mettere in regola i tetti che abbiamo tirato su per i nostri figli.

Poi, però, con l’avvento dell’Expo, il cambio di destinazione è stato magicamente possibile ed è stato inserito nel nuovo Pgt. Che strano. D’altra parte, noi Rom, per loro, valiamo molto meno di un’esposizione internazionale. Ma lo sappiamo già. Non ci stupisce. Noi non pretendiamo di essere lasciati nelle nostre terre. Possiamo anche abbandonare il campo, pacificamente. Vogliamo che il prezzo di vendita sia quello di mercato, ma di questo e delle procedure ingannevoli utilizzate nei nostri confronti si stanno occupando i nostri legali.

Quello che più ci preme, ora, è che la nostra dignità venga rispettata. Chiediamo solo di non essere mandati in mezzo ad una strada. Lo chiediamo per i nostri figli. Che studiano qui in zona per migliorare, per costruirsi un avvenire in questo Paese in cui sono nati.

Vogliamo che i nostri bambini, che ci emozionano quando leggono e scrivono in italiano, non vengano allontanati dalle loro scuole e dalla rete di amicizie che hanno costruito con fatica. Vogliamo che non perdano la quotidianità conquistata, nonostante le tante difficoltà, dai propri genitori.

Chiediamo al Comune di Milano, che continua a prendere tempo senza darci una garanzia chiara e una risposta precisa, quantomeno di attrezzare un’area, non lontana dal campo, dove poter continuare a vivere in attesa di una soluzione. E all’assessore Granelli chiediamo di farlo prima che arrivi losgombero. E che ci dia una scadenza certa, non oltre mercoledì 6 febbraio, per presentarci la sua soluzione e dirci chiaramente cosa accadrà. Non siamo terremotati, è vero, ma siamo 350 persone, alcuni anziani e qualche malato, che in una notte potrebbero perdere tutto. Ci sono dei neonati, 60 bambini vanno a scuola, 2 ragazzi frequentano con orgoglio le superiori, non siamo “involuti” come fa comodo credere e far credere.

Se Milano è una città che ama i diritti, una città di inclusione, ci dimostri davvero di esserlo. Anche se noi non siamo elettori, non siamo portatori di voti, abbiamo comunque dei diritti. Il diritto di non vedere i nostri figli finire sotto un ponte, senza un tetto, fuori dalla scuola ed estromessi dal loro futuro. Dal loro diritto al futuro. Che in un Paese civile dovrebbe essere universale.

Alcuni abitanti del campo Rom di Baranzate

Stato Mancino

Giovanni Brusca in aula accusa l’ex ministro Nicola Mancino: “Era lui il destinatario finale del papello”, il documento con le richieste di Cosa Nostra allo Stato per fermare le stragi. L’ex pentito ha deposto nell’aula bunker romana di Rebibbia davanti al gup di Palermo Piergiorgio Morosini, nell’ambito dell’udienza preliminare per la trattativa Stato-mafia, in cui è tra gli imputati. Il “papello”, che conteneva le condizioni del boss corleonese Totò Riina, sarebbe stato affidato dai vertici di Cosa nostra all’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, nell’estate del 1992 in contatto con due ufficiali del Ros, il generale Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. Dice Brusca: “Fra le stragi Falcone e Borsellino, Riina mi disse che le nostre condizioni non erano state accettate, e che era necessario dare un altro colpetto. In questo contesto, Riina fece il nome di Mancino”. Da Repubblica

brusca2300bord