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Rinascita-Scott: il pentito Fiume racconta il “consorzio” criminale con sede a Milano

Un “Consorzio” criminale con sede a Milano di cui avrebbero fatto parte esponenti di Cosa Nostra, della ‘ndrangheta, della camorra e della sacra corona unita. Ma anche riunioni nel Vibonese presiedute dai Mancuso di Limbadi che insieme ai Piromalli di Gioia Tauro ed ai Pesce di Rosarno avrebbero costituito una sorta di “triumvirato”. E poi i De Stefano di Reggio Calabria, entità criminale “che va oltre la ‘ndrangheta”. Antonino Fiume, 57 anni, di Reggio Calabria, ha deposto pomeriggio nel processo Rinascita-Scott raccontando al Tribunale collegiale di Vibo Valentia molteplici intrecci criminali ai più alti livelli. Figlio di un imprenditore proprietario, fra l’altro, anche della fornace “La Tranquilla” di San Calogero poi venduta ai Romeo e dove il 2 giugno 2018 è stato ucciso Soumaila Sacko,  Antonino Fiume collabora dal 2002. La sua amicizia con l’allora boss dei boss di Reggio Calabria, Paolo De Stefano (ucciso il 13 ottobre 1985) risale agli anni ’70 ed ’80 ed è poi proseguita con i figli don Paolino, vale a dire Carmine e Giuseppe De Stefano.

Paolo De Stefano 

Si trattava di ragazzi che frequentavano la Reggio-bene e pagavano per tutti. Erano ricchissimi e pieni di soldi. Io sono diventato confidente di Paolo De Stefanoche mi aveva raccomandato soprattutto di “guardargli” il figlio Carmine. Sposando la linea della vendetta da parte dei De Stefano impegnati nella seconda guerra di mafia dopo l’omicidio di Paolo De Stefano – ha dichiarato Fiume – sono diventato come un fratello per Carmine e Giuseppe De Stefano. Nonostante questo, ad un certo punto i De Stefano hanno preteso che io versassi loro una sorta di tangente con le mie attività e questo non mi è andato bene ed ho iniziato a collaborare con la giustizia”.

Giuseppe De Stefano

IL CONSORZIO CRIMINALE QUALE POTERE ASSOLUTO DELLE MAFIE IN ITALIA

Quella di “consorzio criminale” è una definizione che Antonino Fiume ha usato – rispondendo alle domande del pm della Dda Andrea Mancuso – per indicare un organismo collegiale di vertice composto da più soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta, alla camorra, alla sacra corona unita e ad una parte di Cosa Nostra, che in tale organismo era rappresentata da Jimmy Miano e Turi Cappello. Facevano parte della medesima struttura anche Rocco Papalia, Mico Paviglianiti e Giovanni Puntorieri del gruppo Ficara-Latella, Mimmo Branca, Pepè Flachi, Cataldo Marincola e Peppe Farao di Cirò, che erano fra i più fedeli alleati dei De Stefano. I soggetti di vertice della componente ‘ndranghetista erano però Franco Coco Trovato di Marcedusa, residente in Lombardia e imparentato con i De Stefano, e Antonio Papalia di Platì. Facevano parte di tale struttura ma a livello inferiore anche i Ferrazzo di Mesoraca, Pasquale Liotta e Vincenzo Comberiati di Petilia Policastro, Pasquale Nicoscia di Isola Capo Rizzuto. Sino a quando era in vita Paolo De Stefano – ha sottolineato il collaboratore Fiume – era lui il capo di tale Consorzio criminaleche rappresenta il potere assoluto di tutte le mafie d’Italia. Il Consorzio, che era riconosciuto dal vertice del Crimine, nella persona di Antonio Pelle di San Luca e da Domenico Alvaro di Sinopoli, serviva a coordinare tutte le attività illecite che si svolgevano sul territorio nazionale. Dopo la morte di Paolo De Stefano sono entrati a pieno titolo in tale struttura i suoi figli Carmine e Giuseppe De Stefano”.  [Continua in basso]

L’OMICIDIO DEL FIGLIO DI CUTOLO

Fra gli omicidi autorizzati da tale Consorzio criminale, anche quello di Roberto Cutolo, figlio del capo della Nuova camorra organizzata, Raffaele Cutolo. Alcuni napoletani come la famiglia Batti, che davano conto a Franco Coco Trovato e Pepè Flachi, volevano uccidere – ha spiegato Fiume – Tonino Schettini, anche se in realtà volevano eliminare lo stesso Franco Coco Trovato e Giuseppe De Stefano. Ci fu in effetti una sparatoria in cui rimasero uccisi alcuni passanti. In cambio del favore dell’eliminazione del figlio di Cutolo, venne chiesto a Mario Fabbrocino di uccidere a Napoli i componenti del gruppo che aveva sparato contro Coco Trovato e De Stefano. Giuseppe De Stefano mi disse in ogni caso di non dire nulla a Reggio Calabria dell’uccisione del figlio di Cutolo autorizzata dal Consorzio, visto che Giovanni Tegano – ha ricordato Fiume – non avrebbe gradito tale azione per i nostri rapporti con Raffaele Cutolo, iniziati molti anni prima e rafforzata con l’omicidio di Mico Tripodo”. 

Domenico Tripodo

Il riferimento di Antonino Fiume è all’omicidio del boss di Reggio Calabria, Domenico Tripodo, ucciso a coltellate nel carcere di Poggioreale il 26 agosto 1976 da Pasquale Barra detto “O animale”, uno dei fidatissimi di Raffaele Cutolo, il quale avrebbe così assecondato la richiesta dei De Stefano. Un delitto importante nella storia della criminalità organizzata perché segnò l’ascesa del gruppo De Stefano e l’alleanza con Raffaele Cutolo, capaci entrambi di dettare le strategie mafiose in tutto il Sud Italia dal 1976 al 1982.
A rappresentare invece in Calabria la zona jonica sarebbero stati i boss Giuseppe Morabito di Africo, Antonio Pelle di San Luca e Ciccio Barbaro di Platì. Nella parte tirrenica, invece, secondo Fiume i più altri in grado della ‘ndrangheta sarebbero stati Pino Piromalli di Gioia Tauro, Antonino Pesce di Rosarno e Luigi Mancuso di Limbadi. [Continua in basso]

Luigi Mancuso

LA RIUNIONE A NICOTERA E L’IMBASCIATA DEI SICILIANI

Antonino Fiume ha quindi raccontato di aver accompagnato nel 1992 Carmine De Stefano alla riunione al villaggio Sayonara di Nicotera – di cui hanno riferito nelle precedenti udienze anche i collaboratori Franco Pino e Umile Arturi – in cui venne discussa la proposta di Cosa Nostra fatta alla ‘ndrangheta di aderire alla “strategia stragista” messa in piedi con gli attentati ai giudici Falcone e Borsellino e proseguita poi nel 1993 con le bombe a Milano, Firenze e Roma contro il patrimonio artistico italiano. “A tale summit io non ero presente – ha spiegato Fiume – ma ho accompagnato Carmine De Stefano che, insieme a Giuseppe De Stefano, mi hanno raccontato come Luigi Mancuso fosse contrario alla proposta dei siciliani perché secondo lui i giudici si dovevano avvicinare e corrompere, ma non uccidere. Sulla stessa linea di Mancuso erano anche Antonino Pesce e Pino Piromalli. Alla riunione erano presenti pure Franco Pino di Cosenza, Cataldo Marincola e i Farao di Cirò. L’unico che era indeciso se aderire o meno alla strategia dei siciliani era Franco Coco Trovato che si era a tal proposito anche incontrato con Giuseppe Pulvirenti, detto U Malpassatu”.

Franco Coco Trovato

LE ALTRE RIUNIONI NEL VIBONESE

Altri summit si sarebbero però svolti nei primi anni ’90 – secondo Nino Fiume – anche a Limbadi direttamente a casa di Luigi Mancuso o di Antonio Prenesti, indicato come vicinissimo al boss “Le cosche di Vibo – ha riferito Fiume – erano invece solite riunirsi al Lido degli Aranci, mentre io stesso sono stato in ospite di un villaggio di Pargheliaaccompagnato da Luigi Mancuso e Pino Piromalli. Ricordo che a Limbadi a casa di Luigi Mancuso furono Giuseppe De Stefano e Franco Coco Trovato a chiedergli intervenire in Cassazione per aggiustare un processo che vedeva imputati due ragazzi per un omicidio. Ricordo Mancuso ci indicò un avvocato. In altre occasioni, invece, sia lui che suo nipote Pantaleone Mancuso sono riusciti a far siglare la pace a diverse famiglie in guerra fra loro, anche del Lametino e del Crotonese”. Il controesame di Antonino Fiume da parte dei difensori degli imputati si terrà il 22 febbraio prossimo.

(fonte)

Torniamo a parlare di ‘ndrangheta in Lombardia? I Cristello, ad esempio

Un articolo precisissimo e straordinario di Alessandro Girardin.

Ventisette indagati rinviati a giudizio in quello che si appresta a diventare un altro importante processo contro la ‘ndrangheta del vibonese trapiantata in Brianza. Così si è deciso, al termine dell’udienza preliminare, nei confronti dei soggetti rimasti coinvolti lo scorso 11 giugno nell’operazione denominata ‘Freccia’, condotta dalla Direzione Investigativa Antimafia sotto il coordinamento della Dda di Milano. Inchiesta che aveva portato all’esecuzione di misure cautelari personali nei confronti di 22 soggetti (21 italiani e uno di nazionalità serba), di cui 16 finiti in carcere, 4 agli arresti domiciliari e 2 con l’obbligo di dimora. La prima udienza per gli imputati che hanno scelto il rito abbreviato (tutti eccetto uno, classe ‘91, di Seregno, che si è già presentato il 19 gennaio al Tribunale di Monza) si terrà davanti al Gup del Tribunale di Milano il prossimo 3 febbraio.

Fra gli imputati spiccano i nomi di affiliati ed esponenti di rilievo della ‘ndrina Cristello di Mileto (Vibo Valentia), a capo della locale di Seregno

Uno su tutti, quello di Umberto Cristello. Classe ’67, nato a San Giovanni di Mileto, «in possesso – secondo i magistrati – di dote elevata conferitagli dal fratello Cristello Rocco», lo storico capo della locale di Seregno ucciso da alcuni esponenti delle ‘ndrine rivali Stagno-Novella-Vallelonga nei pressi della sua villa a Verano Brianza il 27 marzo 2008. 

Il nome di Umberto Cristello figurava già negli atti del processo ‘Ulisse’ (dal nome del principale indagato e poi imputato Ulisse Panetta, capo-società con dote di vangelo della locale di Giussano), scaturito fra il 2012 e il 2013 da una costola dell’inchiesta Infinito e reso possibile in larga parte dalle dichiarazioni di alcuni pentiti fra cui Antonino Belnome, ex boss della locale di Giussano originario di Guardavalle (Catanzaro).

A Umberto Cristello si contestava di aver coadiuvato il fratello – così nell’ordinanza del gip di Milano Andrea Ghinetti del 4 settembre 2012 – «nei traffici di droga e nella gestione degli investimenti dei proventi del traffico illecito», in qualità di «partecipe» della locale di Seregno. Verrà condannato per associazione di tipo mafiosodal Gup di Milano con sentenza divenuta irrevocabile nel 2013. 

Scarcerato di recente, Cristello è ora accusato di aver gestito insieme ad altri vibonesi – anch’essi arrestati nell’operazione di giugno – quali Carmelo Cristello, classe ’72 e cugino dello stesso Umberto, Nicola Ciccia, classe ’80, Antonio Apa, classe ’84, e Andrea Foti, classe ’80, gli interessi di un’organizzazione mafiosa di stampo ‘ndranghetista attiva da decenni fra Seregno, Giussano, Meda, Mariano Comense e Cabiate nel traffico di droga e nel business dei servizi di sicurezza dei locali notturni, nel recupero crediti e nella gestione dell’attività dei rivenditori ambulanti di panini.

Alla stessa locale seregnese avrebbero partecipato anche Luca Vacca, classe ’83 originario di Carbonia, il suo uomo di fiducia Daniele Scolari, classe ’87 nato a Como, e Flavio Scarcella, di Corsico, ritenuto partecipe del clan Barbaro-Papalia e già condannato dalla Corte d’Appello di Milano nel 2018 per associazione mafiosa.

I capi d’imputazione contestati vanno dal traffico internazionale di stupefacenti all’associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’usura all’estorsione, fino all’acquisizione indebita di esercizi pubblici.

Nelle mani del clan, la filiera dei locali di pubblico intrattenimento e della rivendita ambulante di panini. Dove era uso dei membri creare, com’è nel tipico stile dell’organizzazione mafiosa, un clima d’intimidazione e di omertà, «anche grazie alla spendita del cognome Cristello». 

In particolare, Umberto Cristello – a quanto si legge nell’ordinanza dell’inchiesta “Freccia” – «si avvaleva della forza di intimidazione derivante dalla sua notoria appartenenza alla ‘ndrangheta» allo scopo di «acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche» o di imporre «la propria volontà in merito alle postazioni di vendita». 

«Ma è uno storto, uno storto è! – così in un’intercettazione ambientale del 10 agosto 2018  Volevano fare i duri… volevano mettere un camion di panini al Molto! “U Curtu” glielo disse che li taglio la testa a tutti quanti! … Non vi permettete di avvicinarvi che vi sparo a tutti quanti! Vi sparo!».

Allo stesso modo, il cugino Carmelo Cristello «esercitava il controllo del territorio e delle attività economiche», dirimendo le controversie attraverso il proprio intervento «con modalità tipicamente mafiose». 

«Ascolta, eh, forse sai chi sono io… comunque va beh, mi chiamo Cristello! … sono già stato nel tuo locale. Ti ho inquadrato già (…) lui non si deve permettere di parlare di denunce e tu altrettanto… già che mi parli di denunce inizia una cosa a non piacermi! Hai capito? Denunce di qua, denunce di là, la vita si fa tra uomini! (…) Se tu ritieni di fare il furbo con questa persona qua non ti permettere eh! Non ti permettere!».

Una colonizzazione mafiosa, quella dei Cristello, che si è insinuata nel tessuto economico-sociale brianzolo, con modalità tutt’altro che nuove. Sempre gli stessi nomi che ritornano. Gli stessi soggetti, metodi e strategie criminali. A dispetto delle tante inchieste, del calibro di ‘Infinito’, ‘Tenacia’, ‘Redux Caposaldo’, ‘Ulisse’, ‘Disco Italia’, ‘Bagliore’, ‘Ignoto 23’, ‘Ossessione’, condotte nell’ultimo decennio contro le locali di ‘ndrangheta a cavallo tra la Brianza, l’hinterland milanese e il comasco.

È, fra l’altro, dello scorso 29 dicembre la notizia dell’operazione eseguita una settimana prima dai carabinieri della Compagnia di Seregno, che ha portato alla chiusura per infiltrazione mafiosa di un disco pub di Giussano, il “Deja Vu”, colpito da un’interdittiva antimafia emessa dal Prefetto di Monza e Brianza. Le quote del locale erano infatti detenute al 50% da Nazareno Stagno, figlio del capo-locale della ‘ndrangheta di Giussano Antonio Stagno, a sua volta nipote del capo-bastone Rocco Stagno, ucciso in un macello e seppellito in una fossa a Bernate Ticino il 29 marzo 2010, nonché cognato del defunto boss Rocco Cristello.

Di Antonio Stagno, condannato in via definitiva per associazione mafiosa il 6 giugno 2014 nell’ambito del processo Infinito, si ricordano i racconti dei collaboratori Antonino Belnome e Michael Panajia sulle rivalità con il cognato per motivi di affari e, in particolare, per l’avvio (nel settembre 2007) di un’attività estorsiva per 500mila euro ai danni di Massimiliano Fratea e Pasquale Sessa, di Francica (Vibo Valentia), titolari della concessionaria di auto “Selagip” di Giussano, «senza il preventivo assenso» di Belnome e dei Cristello. O sui conflitti tra i Gallace (alleati dei Cristello) e i Novella (referenti degli Stagno) che portarono agli omicidi di Carmelo Novella, capo della “Lombardia” con ambizioni “secessioniste” assassinato da Belnome e Panajia nel circolo “Reduci e combattenti” di San Vittore Olona il 14 luglio 2008; e di Antonio Tedesco, macellaio di Guardavalle in stretti rapporti con Novella, consumato nel maneggio “La masseria” a Bregnano (Como), il 27 aprile 2009, per mano di Antonio Carnovale, Luigi Caristo, Salvatore Di Noto, Sergio Sestito e Maurizio Napoli.

Omicidi, quelli di Novella e Tedesco, per i quali – sulla base delle rivelazioni dei pentiti – è stato riconosciuto il ruolo di mandanti a Vincenzo Gallace, boss di Guardavalle condannato in via definitiva all’ergastolo al termine del processo Bagliore nel febbraio 2016, e ad Andrea Ruga, padrino di Monasterace, deceduto un mese prima della condanna. Ai due non andava giù il progetto di un distacco della Provincia lombarda dalla “casa madre” calabrese. Al che andava a sommarsi – come documentato dall’inchiesta Ulisse – la sempre più marcata ostilità fra gli Stagno e i Cristello, con l’escalation di vendette e ritorsioni che ne seguì. Fra telefonate intimidatorie, proiettili, bottiglie incendiarie lasciate dal clan Stagno alla Selagip e al “Quindici”, bar di proprietà riconducibile a Domenicantonio Fratea (fratello di Massimiliano), e gli attentati alle auto degli stessi rivenditori da parte dei Cristello (che tentavano così di riscattare la perdita del denaro estorto senza permesso dagli Stagno). Gli imprenditori, che pure sono “vittime” della violenza mafiosa (per giunta di ambo le parti), preferirono dal canto loro trincerarsi dietro al muro dell’omertà. Conterranei degli stessi ‘ndranghetisti in guerra, si rivolsero ad un mediatore.

Quanto all’assassinio di Rocco Stagno, le origini del gesto risalirebbero – secondo quanto riferito da Belnome – all’episodio della sua cattura che lo vide, interrogato dagli investigatori, fare il nome dell’”altro Rocco”, capo dei Cristello. Quest’ultimo sarebbe stato ucciso proprio nel corso di queste rivalità. Non prima di essere arrestato per droga nel 2006 e scarcerato nel 2007 sulla base di una licenza premio concessagli dal direttore sanitario del carcere di Monza Francesco Berté (all’epoca non indagato). In cambio, il boss venne messo in contatto con tale Sergio Riboldi, referente del Movimento europeo per i diversamente abili, perché – secondo la pista indicata dagli inquirenti – potesse procurare voti allo stesso Berté, come “favore” in cambio dell’ammissione ai lavori all’aperto presso il vivaio “Il Giardino degli Ulivi” di Carate (notorio punto d’incontro delle ‘ndrine).

Autori dell’assassinio di Stagno, sei vibonesi desiderosi di vendicare la morte di Cristello: Claudio Formica, di San Giovanni di Mileto, indicato come «capo-società della locale di Seregno con dote di trequartino»; Massimo Zanchin, imparentato con i Candela di Cessaniti; Francesco Elia, di San Giovanni di Mileto, ritenuto legato ai Cristello con dote di santista (e quindi vicino agli ambienti massonici); Leonardo Prestia, di Cessaniti, titolare del macello abusivo utilizzato per l’omicidio (e in seguito al quale fu fatto a sua volta santista); e i fratelli Francesco e Rocco Cristello, di San Giovanni di Mileto, cugini del defunto Rocco.

Formica si è visto anche imputato – e nell’aprile 2020 condannato in via definitiva a 12 anni e 6 mesi – in uno stralcio del processo Ulisse per aver costretto con violenza e minacce insieme a Rocco Cristello (fratello di Francesco) l’imprenditore Roberto Gioffrè, socio del locale “Casino Royale Texas Hold’Em” di Paina di Giussano, a restituire cambiali per un valore di 70mila euro a Giovanni e Giuseppe Brenna (condannati poi a 5 anni), cui aveva ceduto parte dell’attività tra il 2008 e il 2009. 

Non paghi, gli ‘ndranghetisti della locale di Seregno – secondo le testimonianze della stessa vittima e del pentito Belnome – estorsero a Gioffrè beni e arredi per un ammontare di 30mila euro. E, in occasione di un incontro in un ristorante di Seregno,dove Gioffrè si presentò col fratello Francesco che a Seregno era consigliere comunale e – secondo i magistrati – aveva stretti rapporti con i Cristello, arrivarono persino a prenderlo a pugni e schiaffi, costringendolo a rinunciare al proprio credito con un coltello puntato al volto. Il risultato: la rottura dei rapporti col fratello (che nei verbali delle sit prese le distanze dalla versione di Roberto, con un atteggiamento definito nell’ordinanza “vicino alla connivenza“) e l’anticipazione del trasferimento all’estero da parte del denunciante e della sua famiglia. Oltre a Cristello e Formica, sono stati condannati in via definitiva anche Armando Cristello, di Francicacomponente della locale di Seregno e gestore di un night club (11 anni), e Nicola Fraietta, di Guardavalle, membro della locale di Giussano (10 anni e 6 mesi).

Intanto, nel febbraio 2017, in separato processo riconducibile sempre all’inchiesta Ulisse, erano passate in giudicato le sentenze di condanna nei confronti di: Salvatore Corigliano, di Mileto, con dote di sgarrista, presente all’affiliazione di Belnome e partecipe a numerosi summit (6 anni e 8 mesi); Antonio Staropoli detto ‘Tonino’, di Mileto, uomo di fiducia del capo-locale Rocco Cristello (6 anni e 8 mesi); Fortunato Galati, anch’egli di Mileto (8 anni); e Michele Silvano Mazzeo, di Comparni di Mileto (5 anni e 4 mesi), ossia colui che avrebbe trattato, in concorso con Antonio Stagno e con l’intermediario Francescantonio Mondella, l’importo della tangente da estorcere ai titolari della Selagip.

Appartenevano alla locale di Seregno anche: Peppino Corigliano, santista, subentrato come “reggente” dopo la morte di Rocco Cristello e la successiva cattura del suo omonimo cugino il 13 luglio 2010; Carmelo Rizzo, anch’egli santista, presente ai vari summit e alla visita del boss al capo-locale di Mariano Comense Salvatore Muscatello; e Michele Cristello (fratello di Carmine e di Rocco), che avrebbe custodito le armi della locale in un terreno agricolo a Seregno. Alla locale di Giussano partecipavano invece Rosario Salvatore Fraietta, promosso dalla dote di “camorra” a quella di “sgarro” in occasione di un summit e rimasto nel tempo in contatto con la locale calabrese di Guardavalle; Pasquale Fraietta, passato dalla dote di “santa” a quella di “vangelo”, e il già citato fratello NicolaGiuseppe Di Noto, rimpiazzato con la dote di “picciotto” e adoperatosi per spostare ed occultare armi, al pari di Vincenzo Cicino, capo-società della locale di Guardavalle stabilitosi in Lombardia; e i fratelli Orlando e Antonio Demasi, custodi delle armi della locale (mitragliette, kalashnikov, bombe a mano) e in contatto anch’essi con la famiglia Gallace-Ruga.

Tornando infine al processo Bagliore – di cui si è detto sopra -, dopo un iniziale annullamento della sentenza di secondo grado con rinvio a diversa sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano, nell’ottobre 2019 la Cassazione ha confermato le condanne all’ergastolo per l’omicidio Stagno nei confronti dei vibonesi (i fratelli Cristello, Formica, Zanchin, Prestia), meno Elia. Il quale è stato beneficiato da un nuovo annullamento della condanna e, nel luglio dello scorso anno, anche dalla riconosciuta continuazione fra i reati di narcotraffico internazionale ed estorsione aggravata dal metodo mafioso nei rispettivi tronconi dell’inchiesta Ulisse. Ergastoli anche per Cristian Silvagna, di Bollate, e Sergio Sestito, di Palermiti (Catanzaro). 12 anni inflitti, invece, per associazione mafiosa a Domenico Tedesco.

(fonte)

Messianismo, ancora

Il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi inizia oggi il suo giro di consultazioni. Le premesse non sono facili e questo è un punto politico, ci torneremo, ma ciò che conta che ad oggi Draghi l’abbiamo visto arrivare ai vari incontri istituzionali (i presidenti della Camera e del Senato e il presidente del Consiglio uscente), l’abbiamo ascoltato per qualche manciata di secondi in conferenza stampa mentre comunicava di accettare l’incarico con riserva e ne abbiamo potuto osservare l’eleganza del completo e la fulminante capacità di indossare correttamente la mascherina sopra al naso. Oggi inizierà a “fare politica”, oggi.

Eppure fin dalle prime ore di ieri mattina in Italia è scoppiato il messianismo e ancora una volta abbiamo assistito allo sport preferito di certa classe dirigente e di certo mondo dell’informazione: genuflettersi al prossimo leader, anche se ancora con riserva, e affidare a lui tutti i nostri vizi e le nostre fobie come se fosse uno psicoterapeuta e soprattutto comportarsi nel modo che abbiamo sempre criticato ai nostri avversari. Quelli che volevano il programma stampato con tutte le specifiche e i progetti declinati in centinaia di pagine ieri sono diventati barzotti per pochi secondi di discorso di circostanza: “ha sorriso!”, dicono, e in quel sorriso ci stanno infilando in queste ore tutto un ripieno di considerazioni politiche e finanche antropologiche, perfino il fatto che Draghi abbia sbagliato il lato dell’uscita dopo l’incontro con i giornalisti è diventato “un errore che lo rende più umano” come ha avuto il coraggio di scrivere qualcuno. Se fosse stato un avversario politico fino a due giorni fa ci avrebbero fatto un meme con una bella frase da sfottò. Poi ci sono quelli che per mesi ci hanno detto che “contano i fatti” e invece ora strepitano sul fatto che non dare la fiducia a Draghi sarebbe un sacrilegio: non si sa ancora un’idea che sia una di come Draghi abbia intenzione di portarci fuori dalla palude, sono gli stessi che ripetevano il ritornello del “contano le idee non le persone” e oggi si sono inzerbinati alle persone. Perché in fondo ciò che conta è l’atavica e feroce pulsione di gioire nella speranza della sparizione degli avversari, solo quella, solo per quello, un movimento di stomaco come il populismo che dicono di combattere.

In mancanza di temi veri la stampa ieri ha intervistato un centinaio di compagni di classe di Mario Draghi, un autorevole quotidiano che vorrebbe darci lezioni di giornalismo misurato ha scritto un lungo articolo su Mario “alunno brillante che non rinunciava alle battaglie con i cannoli e agli assalti ai prof con le pistole a riso”, Giancarlo Magalli è diventato un testimonial d’eccezione (come Salvini quando riporta le parole di Red Ronnie sul Recovery Fund), ovviamente ci si è buttati a pesce sulla moglie come curioso oggetto ornamentale da raccontare in tutti i suoi angoli d’osservazione. Agiografie dappertutto come se piovesse. Occhi puntati sui mercati come se fossero i giudici supremi della politica (perché è così che piace a molti di loro). Le agenzie di stampa battono convulse: “#Governo, look istituzionale per #Draghi”. Se lo aspettavano in braghette corte e anello al naso, probabilmente. Evviva, evviva. Dovremmo essere felici perché Draghi ha intenzione di relazionarsi con “rispetto” al Parlamento, evviva evviva. Anzi i più sfegatati invitano addirittura Draghi a “spazzare via tutti gli incompetenti in Parlamento”, qualcuno dice che dovrebbe “metterli a cuccia” e dire “faccio io”. Un delirio di incompetenza politica e di miseria istituzionale di un popolo perdutamente innamorato dell’uomo solo al comando, quello che da solo dovrebbe salvare l’Italia e che poi nel caso torna utilissimo da odiare in fretta e furia. Quelli che contestavano i “pieni poteri” che reclamava Salvini oggi vorrebbero un DPCM per affidare “pieni poteri” a Draghi: l’uomo forte al comando è un’idea che ha sempre germi che non portano a nulla di buono. 

Solo che oggi si comincia a fare sul serio e torna in campo il Parlamento, la politica, i partiti. Il primo capolavoro è avere resuscitato Salvini che era scomparso e ora è l’ago della bilancia. Non mi pare davvero una buona notizia. Anche questa volta la possibilità che si possa lavorare per ricostruire un centrosinistra seppur sgangherato sembra andare in frantumi, sarà per la prossima. C’è da trovare una maggioranza in Parlamento con quello che c’è e quel Parlamento è l’espressione democratica di quello che siamo noi. Ora siamo alla luna di miele ma quando ci sarà da parlare di soldi finirà questa tregua fatata e si ricomincerà di nuovo. È un moto circolare: ieri era l’ora dell’inno a Renzi che ci ha liberato da Conte, che ci aveva liberato da Salvini, che ci aveva liberato da Gentiloni, che ci aveva liberato di Renzi. Sempre con la soddisfazione bassa di avere eliminato qualcuno. E vorrebbero essere costruttori.

Ah, per i tifosi che leggono senza intendere: questo non è un articolo di critica preventiva verso Draghi di cui, vale la pena ripetere, al momento non conosciamo le proposte. Questo è un articolo per un pezzo di mondo che chiede “serietà” agli avversari e poi infantilmente tratta la politica come un reality show, anche senza Casalino.

Buon giovedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Italia Viva pretende 4 ministeri: ma non aveva detto che le interessava solo il programma?

“Non è una questione di poltrone, non ci interessano le poltrone, quello che conta è il programma”: è stata la frase più ripetuta dall’inizio di questa crisi di governo e tutti si aspettavano (meglio, speravano) che davvero questi giorni di consultazioni fossero un’esplosione di idee sul futuro del Paese, sulle priorità da discutere e su innovativi piani per uscirne tutti presto, tutti meglio.

Del resto sarebbe stato il minimo sindacale non assistere alla sfrenata corsa a questo o a quel ministero, almeno per non farsi attanagliare dalla sensazione di perdere tempo prezioso per i piccoli egoismi dei piccoli capi di piccoli partiti. E invece la cronaca di queste ultime ore del mandato esplorativo di Roberto Fico è tutto un assembramento di posizioni, di ministeri, di rivendicazioni, posti da occupare e presunzioni di credersi determinanti.

Gli ultimi aggiornamenti del desolante quadro dicono che il PD vorrebbe mantenere tutti i suoi ministri, magari aggiungendone uno che dovrebbe essere Andrea Orlando; il M5S non vuole cedere posti anche se ormai da quelle parti sanno tutti che la missione sarà impossibile; Conte (nel caso in cui si vada verso il Conte ter) vorrebbe tenere i suoi uomini; poi ci sono i cosiddetti “responsabili” che ovviamente pur volendo passare da costruttori frugano tra le macerie per trovarsi un posticino, si bisbiglia che sia Tabacci e che potrebbe finire alla Famiglia.

E poi ci sono loro, quelli di Italia viva, quelli che non erano interessati alle poltrone e invece si accapigliano chiedendone addirittura 4. Gli sventolamenti di Maria Elena Boschi sono una significativa cartina di tornasole: ieri è stata data in mattinata come nuova ministra della Difesa, poi al Mise o alle Infrastrutture, poi si racconta che abbia furiosamente litigato con Renzi che intanto spingeva per Elena Bonetti al Lavoro o all’Interno o all’Università o all’Agricoltura.

Solo per intervento del Quirinale Italia viva non ha preteso il ministero all’Economia che dovrebbe rimanere saldo a Gualtieri. Il M5S intanto per i suoi equilibri interni spinge Buffagni, magari spostando Patuanelli e assiste all’autocandidatura di Vito Crimi (capo politico che avrebbe dovuto essere pro tempore e invece rimane saldissimo da mesi).

E il programma? Quello si abbozzerà di corsa, nel caso, pronto per essere declamato e per nascondere il mercimonio sui nomi. E poi ricominceranno la solfa del cambio di passo, della ripartenza, delle priorità e di tutto il resto. Sotto sotto, intanto, s’accapigliano sui nomi e sulle poltrone. Quelle poltrone che non interessavano a nessuno.

Leggi anche: 1. Basta assurdi egoismi, rendiamo pubblici i brevetti per produrre i vaccini anti-Covid / 2. Rendiamoci conto: con questa crisi si torna a parlare di Berlusconi presidente della Repubblica / 3. Conflitto d’interenzi (di Giulio Gambino)

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L’arabo fenice

Prostrato al regime saudita in Arabia, alla disperata ricerca di visibilità in Italia. Ci sono due Renzi diversi, entrambi inopportuni, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi

Dunque ieri abbiamo avuto l’occasione di assistere in differita al doppio Matteo Renzi, quello in versione zerbino di fronte al principe saudita Bin Salman e quello che fa la voce grossa nella crisi politica che lui stesso ha provocato in piena pandemia. Sono due Mattei così lontani tra di loro, probabilmente anche molto inopportuni nei tempi, che meritano di essere osservati per avere contezza dello stato attuale di crisi che non è solo politica ma forse e soprattuto di credibilità.

Il Renzi prostrato ai sauditi (per la modica cifra di 80mila euro l’anno) è quello che da senatore della Repubblica, da membro della commissione Difesa, quello stesso che da mesi vorrebbe avere in mano la delega ai Servizi segreti, riesce a fare la velina per il principe Bin Salman con il suo inglese alla Alberto Sordi celebrando l’Arabia Saudita (terra di principesca violenza e di diritti negati) come “terra di un nuovo Rinascimento” insozzando un po’ della sua Firenze di cui si sente padrone, è lo stesso Renzi che riesce a dirgli «non mi parli del costo del lavoro a Ryad, come italiano io sono geloso» dimenticando che da quelle parti siano vietati i sindacati (e quindi i diritti) e le manifestazioni (chissà cosa ne pensa l’ex ministra Bellanova), quello che si fa chiamare ripetutamente “Primo ministro” per celebrare e per autocelebrarsi. Una scena imbarazzante nei modi e nei contenuti da cui i renziani si difendono nel modo più bambinesco e cretino ripetendo all’infinito “e allora gli altri?” come avviene tra bambini dell’asilo.

Il Renzi italiano invece è quello che dopo il colloquio con Mattarella si ferma per un’ora davanti ai giornalisti scambiando come al solito una conferenza stampa per un comizio e raccontando ancora una volta un’impressionante serie di balle infilate una dopo l’altra, riducendo ancora tutta la crisi di governo alla difesa del suo partitino politico (indignato perché c’è qualcuno che non vuole più trattare con lui) e spiegando ai giornalisti di non avere posto veti su Conte al Presidente della Repubblica per poi smentirsi pochi minuti dopo con un suo stesso comunicato che invece chiede che l’incarico venga dato a un’altra personalità. «Oggi non si tratta di allargare la maggioranza ma di verificare se c’è una maggioranza: se vi fosse stata una maggioranza, non saremmo stati qui ma al Senato per votare la fiducia a Bonafede», ha detto ieri Renzi nel tentativo di fermare il tempo in questa fase che gli regala un po’ di visibilità e temendo tremendamente lo spettro delle elezioni che lo farebbero scomparire. Poi, sempre in nome della sua coerenza, è riuscito a stigmatizzare la nascita di un nuovo gruppo in Parlamento dimenticandosi che la sua stessa Italia viva sia frutto dello stesso trucco parlamentare. Ma si sa: per Renzi le stesse identiche azioni hanno dignità differente se è lui a compierle o se sono gli altri.

E così tra liti e tentativi di riconciliazioni si trascina una crisi politica che diventa ogni giorno di più una barzelletta, sfiancante per i toni e la bassezza dei protagonisti, sfiancante perché avviene in un momento di piena pandemia.

E viene voglia di dirsi che finisca tutto presto, il prima possibile.

Buon venerdì.

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Carelli (M5s) a TPI: “No ai responsabili. Riapriamo il dialogo con Renzi senza parlare del Mes”

Emilio Carelli è una voce autorevole e ascoltata all’interno del Movimento 5 Stelle. Ieri l’ex direttore di SkyTg24, in un’intervista al Corriere della Sera, ha aperto la porta a una nuova interlocuzione con Renzi e Italia Viva per scongiurare la crisi di governo, pur sapendo di essere in contrasto con i vertici del Movimento. Si è aperto un dibattito sull’affidabilità di Renzi e dei suoi. L’abbiamo intervistato per TPI.

Carelli, ieri ha detto le stesse cose che da giorni circolano anche nel Movimento ma che nessuno ha il coraggio di dire: riaprire a Renzi. Ne è ancora convinto dopo il dibattito che ha suscitato la sua affermazione?

Resto convinto. Anche perché il mio ragionamento parte da una premessa: in questo momento l’Italia ha bisogno di un governo con una maggioranza politica forte per gestire l’epidemia, il Recovery Fund e per guidare il G20. Non ho mai creduto alla soluzione dei “responsabili” che è lontana dai valori del M5S. A questo punto l’unica soluzione resta coinvolgere Italia Viva.

Però per coinvolgere Italia Viva bisogna cedere su alcuni punti politici. Per esempio: Renzi chiede il MES ma sul MES voi del Movimento non sembra disposti a intavolare discussioni…

Io penso che se procediamo con i veti e con i ricatti non andiamo da nessuna parte. Qui c’è di mezzo il futuro dell’Italia. Qualora ci sedessimo intorno a un tavolo dovremmo puntare su un patto di fine legislatura che trovi l’accordo su alcuni punti. La mia proposta è che i punti su cui l’accordo non c’è vengano accantonati. In questo momento il MES è un argomento divisivo, meglio metterlo da parte. Abbiamo 223 miliardi del Recovery Fund da spendere, cominciamo a fare dei progetti su questi. Sarebbe già una rivoluzione per il Paese.

Conte però sembra rimanere sulla sua stessa linea, ovvero mai con Renzi. Anche sulle sue dichiarazioni gli elettori del M5S si sono divisi. Come si può superare questo stallo?

In politica non bisogna mai dire mai, la politica è la scienza del possibile. Ho fatto un appello a Renzi: se lui ci offrisse degli spunti e delle garanzie per tornare a essere affidabile, perché rifiutarsi? Anche perché l’alternativa sarebbero le elezioni anticipate. In Italia in questo momento ci sono centinaia di morti ogni giorno, decine di migliaia di contagiati, provvedimenti da prendere a favore di chi rimane senza lavoro, e noi sospendiamo tutto per alcuni mesi?

Se si va a elezioni anticipate ci sono circa due mesi di campagna elettorale, un altro mese prima che si insedino le Camere, un altro ancora prima che si formi il governo. Sarebbero 4-5 mesi di stallo. Chi gestirebbe la situazione in una situazione del genere? Chi ragiona di politica deve tenerne conto.

Nel caso in cui non vada a buon fine la riappacificazione con Renzi, in uno scenario di Conte ter con i cosiddetti “responsabili”, vedrebbe la possibilità di un governo con margini di manovra?

Ogni volta che si è fatto ricorso a questo tipo di voti la situazione non è durata molto. Sarebbe un governo più debole, più fragile rispetto a un esecutivo che abbia alla base un accordo politico forte. A meno che i responsabili non si costituiscano in un gruppo organizzato di moderati di centro, fuoriuscendo dai loro partiti. Al momento, però, non vedo all’orizzonte questa soluzione.

Leggi anche: 1. Dilemma Ursula: tradire Conte e riaprire a Renzi può spaccare l’alleanza tra Pd e M5s? / 2. Bettini: “Renzi dia segnali di apertura, Conte imprescindibile”

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Distopia e populismo: un’analisi di «Carnaio» di Gerardo Iandoli, Dottorando e Lettore d’italiano presso l’Università di Aix-Marseille.

Abstract

L’articolo analizza il romanzo Carnaio (2018) di Giulio Cavalli. Il testo rielabora la realtà che emerge dal discorso populista e razzista contemporaneo, al fine di immaginare un suo possibile sviluppo di tipo distopico. La società che ne deriva è governata da ciò che qui si definisce come zombiepolitica. Si tratta di una metafora per indicare un dispositivo di governo ideato per gestire tutte quelle categorie umane considerate dalla comunità come un eccesso, un altro da espellere al fine di preservare la quiete. L’obiettivo è quello di mostrare come il genere distopico sia utile per riflettere sui discorsi ideologici, attraverso la costruzione di mondi possibili che visualizzano quanto espresso dalla percezione del reale dell’ideologia stessa.

Riferimenti bibliografici

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La sindaca della Lega arrestata perché negava aiuti alimentari ad anziani soli e stranieri

Se vi serve la rappresentazione plastica del leghismo nella sua forma già truce, quello che in nome dello slogan “prima gli italiani” in realtà mette per primi gli interessi personali egoriferiti di chi sdogana l’egoismo come rivendicazione politica, allora basta fare un giro a San Germano Vercellese, dov’è sindaca Michela Rosetta.

La sindaca Rosetta è una che era finita sulle pagine di cronaca per le solite crociate razziste che serpeggiano tra i salviniani, una che aveva deciso di vietare i giochi del parco della città ai figli degli extracomunitari (badate bene: solo gli extracomunitari) che non pagavano la retta della mensa.

Rosetta è agli arresti domiciliari, col suo vice e due addetti comunali, con l’accusa di falsità materiale e falsità ideologica in atto pubblico commessa da pubblico ufficiale, abuso d’ufficio e distruzione di beni sottoposti a vincolo culturale.

In sostanza le forze dell’ordine hanno scoperto che i soldi che avrebbero dovuto essere a disposizione per le derrate alimentari acquistate al Comune per lenire l’emergenza finivano a persone che non ne avevano bisogno (c’è da scommetterci, amichetti della suddetta sindaca), lasciando fuori invece alcuni anziani non autosufficienti e ovviamente gli stranieri.

Non solo: con quei soldi la sindaca e la sua cricca si compravano mazzancolle e capesante da portare a casa e consumare in famiglia. Perché, si sa, per loro “la famiglia” è tutto, soprattutto la loro famiglia.

A fare scattare le indagini è stata proprio una cittadina straniera in forte difficoltà economica che aveva denunciato il fatto di essere stata arbitrariamente cancellata dal registro degli aiuti (chissà perché anche questo non stupisce).

Tra le altre cose si è scoperto anche che la sindaca Rosetta avrebbe provocato un crollo di una porzione della facciata della chiesa (a proposito della religione che loro sventolano con presepi e crocifissi) per poterne giustificare poi la conseguente demolizione che tornava comoda per i piani della prima cittadina.

C’è dentro tutto: c’è la gestione egoistica della cosa pubblica per solleticare con un po’ di razzismo i proprio elettori e per riempire le pance della propria cerchia, c’è l’incapacità di rispettare le regole (proprio loro che gridano “ordine e disciplina”) per mungere soldi e occasioni, c’è la stortura di ritenere il proprio ruolo politico una possibilità di “pieni poteri” per fare ciò che gli pare.

E questi sono gli stessi che vorrebbero rivendersi come salvatori in questo periodo nero. Dai, anche no, grazie.

Leggi anche: L’assessore di FdI in Veneto canta “Faccetta nera” alla radio. C’è una destra ormai oltre la vergogna (di G. Cavalli)

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Esterina Guglielmino recensisce Disperanza

La disperanza è un’idea antica, ancestrale, romita, profondamente radicata nella natura umana, eppure – altrettanto distintamente – la si può dire moderna, recente, evoluta, quasi un portato precipuo dei nostri tempi. E il suo gusto per la contemporaneità sta soprattutto nella sottigliezza della linea di confine, perché… capiamoci… è un concetto ben più subdolo e infido della normale disperazione.

La disperazione è un concetto finale, un punto di non ritorno, è il momento culminante di una climax ascendente che non può prevedere altro se non una conclusione, uno scioglimento, nel bene o nel male, proprio come succede quando si sta disegnando lo sviluppo di una storia.

La disperanza invece è un’idea intermedia, stanziale, è un processo lento e inesorabile di rinuncia, di progressiva sottrazione, prima dei sogni, poi dei progetti e del loro entusiasmo, infine della speranza. Essere disperanti vuol dire lasciarsi vivere a testa bassa, rinunciando definitivamente a essere protagonisti della propria vita, relegandosi progressivamente al ruolo di comparsa, di contorno, di accessorio. Il ruolo di protagonisti, intanto, passa ad altri: ai datori di lavoro che non riescono ad assicurare un lavoro stabile, allo Stato che decide a mano a mano di scomparire, agli amici che decidono di voltarsi dall’altra parte e di non vedere, forse perché sarebbe troppo difficile aiutare o semplicemente perché anche loro vivono la stessa condizione.

E poi, su tutto questo può ancora arrivare l’inatteso, l’imponderabile, l’inimmaginato (…già e chi avrebbe mai creduto a una pandemia fuori dalle pagine dei libri di geografia?) e allora la disperanza diventa uno stato generalizzato di controllo sull’anima, diventa certezza di aver sempre visto giusto quando l’orizzonte appariva annebbiato, perché in fondo la malattia sembra quasi una predestinazione, una profezia che si autoavvera, una conferma che la luce vista alla fine della galleria era sempre stata un riflesso ingannevole, una rifrazione e mai per davvero la fine del buio.

Eppure alla speranza non si può rinunciare, sarebbe come negare la vita, come costringersi a stare dentro una bolla d’aria fino a quando non finisce l’ossigeno. La speranza è insita nella natura umana, anzi la natura umana stessa per sua proiezione evolutiva prevede la speranza come suo componente più intimo. Che senso avrebbe addormentarsi senza la speranza di vedere il sole? Guardare un figlio senza la speranza di vederlo crescere? Coltivare un amore senza la speranza che ci possa accompagnare?

Ma come si fa a coltivare la speranza? Continuando a sognare o smettendo di sognare? Paga più il realismo scevro da illusioni o i sogni continuano a essere importanti, anche se – oggi come non mai -rischiano di restare irrimediabilmente delusi?

Disperanza è un libro in cui i confini tra lettore e scrittore si perdono, trascolorano, si confondono, un libro in cui la voce dello scrittore-narratore diventa spesso la voce del lettore, dei lettori, dei tanti più o meno disperanti che hanno raccolto l’invito a raccontare in quale “momento esatto della loro vita hanno perso la speranza”. Ne nasce un piccolo, denso libro corale fondato su uno strano gioco di rispecchiamenti e di rimandi speculari, un flusso narrativo in cui le singole esperienze si fondono e si integrano a vicenda, diventando un’unica voce disperante e coraggiosa assieme.

Perché forse la speranza è una trappola (Monicelli docet), è la promessa falsa e seducente di un domani migliore ma forse è, molto più semplicemente, istinto di sopravvivenza necessario.

Recensione di Esterina Guglielmino

(fonte)

La marcia dei Mille, disperati

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di migranti che seguono la “rotta balcanica”. A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro

Qualcuno di molto furbo e poco umano deve avere capito da tempo, dalle parti del cuore del potere d’Europa, che il primo trucco per sfumare l’emergenza umanitaria legata ai flussi migratori sia quello di fare sparire i migranti. Per carità, non è mica una criminale eliminazione fisica diretta, come invece avviene impunemente in Libia con il silenzio criminale proprio dell’Europa, ma se i corpi non sbarcano sulle coste, non si fanno fotografare troppo, non si mischiano ad altri abitanti, non rimangono sotto i riflettori allora il problema si annacqua, interessa solo agli “specializzati del settore” (come se esistesse una specializzazione in dignità dell’uomo) e l’argomento, statene sicuri, rimane relegato nelle pagine minori, nelle discussioni minori, sfugge al chiassoso dibattito pubblico.

In fondo è il problema dei naufragi in mare, di quelle gran rompiballe delle Ong che insistono a buttare navi nel Mediterraneo per salvare e per essere testimoni, che regolarmente ci aggiornano sui resti che galleggiano sull’acqua o sulle prevaricazioni della Guardia costiera libica o sui mancati soccorsi delle autorità italiane.

Nel gelo della Bosnia da settimane ci sono un migliaio di persone, migranti che seguono la cosiddetta “rotta balcanica”, che si surgelano sotto il freddo tagliente di quei posti e di questa stagione, che appaiono nelle (poche) immagini che arrivano dalla stampa in fila emaciate con lo stesso respiro di un campo di concentramento in un’epoca che dice di avere cancellato quell’orrore.

Lo scorso 23 dicembre un incendio ha devastato il campo profughi di Lipa, un inferno a cielo aperto che proprio quel giorno doveva essere evacuato, e le persone del campo (nella maggior parte giovani di 23, 25 anni, qualche minorenne, provenienti dall’Afghanistan, dal Pakistan o dal Bangladesh) sono rimaste lì intorno, tra i resti carbonizzati dell’inferno che era, in tende di fortuna, dentro qualche casa abbandonata e sgarruppata, abbandonati a se stessi e in fila sotto il gelo per accaparrarsi il cibo donato dai volontari che anche loro per l’ingente neve in questi giorni faticano ad arrivare.

A pochi chilometri c’è la Croazia, la porta d’ingresso dell’Europa, ma chi prova a passare, indovinate un po’, viene violentemente picchiato, spesso derubato, seviziato e rimandato indietro. Gli orrori, raccontano i cronisti sul posto, avvengono alla luce del sole perché funzionino da monito a quelli che si mettono in testa la folle idea di provare a salvarsi. E le violenze, badate bene, avvengono in suolo europeo, di quell’Europa che professa valori che da anni non riesce minimamente a vigilare, di quell’Europa che non ha proprio voglia di spingere gli occhi fino ai suoi confini, dove un’umanità sfilacciata e disperata si ammassa come una crosta disperante.

«L’Ue non può restare indifferente – dice Pietro Bartolo, il medico che per trent’anni ha soccorso i naufraghi di Lampedusa e oggi è eurodeputato -. Questa colpa resterà nella storia, come queste immagini di corpi congelati. Che fine hanno fatto i soldi che abbiamo dato a questi Paesi perché s’occupassero dei migranti? Ai Balcani c’è il confine europeo della disumanità. Ci sono violenze inconcepibili, la Croazia, l’Italia e la Slovenia non si comportano da Paesi europei: negare le domande d’asilo va contro ogni convenzione interazionale, questa è la vittoria di fascisti e populisti balcanici con la complicità di molti governi».

È sempre il solito imbuto, è sempre il solito orrore. Subappaltare l’orrore (le chiamano “riammissioni” ma sono semplicemente un lasciare rotolare le persone fuori dai confini europei) facendo fare agli altri il lavoro sporco. Ma i marginali hanno il grande pregio di stare lontano dal cuore delle notizie e dei poteri. E molti sperano che il freddo geli anche la dignità, la curiosità e l’indignazione.

Buon mercoledì.

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