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Cultura

“Il problema degli Usa sono 400 anni di schiavitù, ma qui in Italia non siamo messi meglio”: parla Igiaba Scego

Igiaba Scego è una scrittrice di origini somale che vive a Roma. Da sempre si occupa di stranieri, di integrazione e di diritti. Il suo ultimo libro è “La linea del colore” edito da Bompiani che ha come protagonista una donna afroamericana dell’ottocento che scopre l’Italia. L’abbiamo intervistata per TPI.

Negli USA è in atto una vera e propria rivoluzione culturale. Lei si occupa da anni di questi temi, come vede la narrazione di ciò che accade?
Due tipi di narrazione. Quella dei media mainstream che non hanno capito niente di quello che sta succedendo: stanno osservando questi movimenti con delle lenti molto vecchie e anche sbagliate. Quando mi tolgo gli occhiali io che sono miope vedo tutto sfocato e molti media mi hanno dato questa stessa sensazione, tranne alcune eccezioni come la giornalista de Il Manifesto Marina Catucci, veramente puntuale, Arianna Farinelli, Martino Mazzonis. Questo mi ha meravigliato perché l’immaginario statunitense è molto popolare, si pensa “almeno li conosciamo” e invece no. Noto la stessa nebulosità che scorgo quando si parla di Africa. Poi per fortuna c’è quella che arriva da giornali e esperti in lingua originale. E devo dire che è quello che mi ha aiutato ad orientarmi. Per esempio non mi perdo mai i commenti della professoressa Ruth Ben Ghiat che da anni ci spiega i meccanismi dello stato americano.

Quale distorsione nota più delle altre?
Questo parlare di saccheggi piuttosto che parlare del cuore del movimento. Molti giornali non hanno raccontato ai lettori cosa c’era prima, quei 400 anni di oppressione. Mancano ponti tra qui e lì. Io sono scrittrice e la stessa cosa la vedo nell’editoria: l’editoria italiana ha pubblicato negli ultimi anni moltissimi afroamericani ma non c’è stato quel passaggio necessario da editoria ai giornali e media in genere che aprisse un sano dibattito su questi libri e permettesse una loro diffusione anche scolastica.

Quindi si è perso ciò che è avvenuto negli anni precedenti, non ci sono stati ambasciatori e ponti. Si arriva così a non capire perché questa lotta è così lunga, non si riflette sulla genesi della schiavitù, questo è un grosso gap scolastico che non ha permesso a molti italiani di capire fenomeni come schiavitù, segregazioni negli USA e perfino lotte per i diritti civili. Pochi hanno letto Toni Morrison, anche tra i professionisti dell’informazione. E quindi mi ha colpito questo indugiare su aspetti marginali senza andare al cuore del problema. Manca una preparazione all’America, io ho visto “molta ignoranza”. Molto non sapere. Quello che si conosce è solo superficiale.

Negli USA il dibattito si è aperto non solo sulla violenza che ha portato per ultimo alla morte di Floyd, ma anche sulla profilazione razziale delle Forze dell’Ordine. C’è un razzismo insito anche nella gestione italiana secondo lei?
Sulla polizia non saprei dirti. Posso dirti che loro, negli USA, hanno questa storia di schiavitù ma da loro anche chi è contro i neri sa cosa è successo mentre in Italia quello che c’è dietro di noi, come il colonialismo, non è molto conosciuto, c’è una rimozione totale e non ci fa capire che quegli stereotipi continuano a agire sui corpi del presente. A me ha sempre colpito come per esempio le leggi italiane sull’immigrazione si basino quasi sempre su un modello astratto, su questo cosidetto altro che non è un potenziale cittadino ma un potenziale suddito coloniale, il modello è quello del sudditto somalo, eritreo o libico dei tempi del colonialismo italiano. si continua cos’ a perpetuare l’idea dello straniero nella legislazione come suddito, una persona senza diritti.

Non è un caso che la Bossi-Fini e i Decreti Sicurezza più la mancata riforma sulla cittadinanza siano delle costanti nella politica italiana, perché vale lo ius sanguinis e non lo ius soli o lo ius culturae, un Paese trincerato nel suo sangue che poi se lo andiamo a “analizzare” storicamente questo famigerato sangue risulta essere è quello più meticcio del mondo. Questo mi sconvolge, questa storia passata mai discussa che si ripresenta in forma di legge e ci incasina il presente, il modello è ancora quello coloniale sarebbe interessantissimo che i giuristi ci lavorassero su questo, su come decolonizzare le leggi perché sono troppo pieni di passato.

Vede dei casi di razzismo endemici in Italia, anche da parte di quelli che non sono consapevolmente razzisti?
Il razzismo in Italia non è solo anti nero ma è anche anti meridionale. Ad esempio due ore fa stavo andando al supermercato, dove due persone stavano litigando e un signore ha detto a una signora “sporca calabrese”. Qui c’è una questione meridionale che è la mamma di tutti i razzismi italiani, quello che è stato fatto al Sud è lo stesso trattamento riservato alle colonie. Quando avevo 25 anni avevo fatto un colloquio di lavoro vestita come sono sempre vestita e la persona che avevo davanti mi ha detto “lei è musulmana, si vede” io gli ho detto “deve farmi colloquio di lavoro” e lui “ma voi volete pause di preghiera e ramadan”: sono uscita e ho pianto, è un razzismo altrettanto umiliante. Ho smesso perché ai tempi mi vedevano e mi dicevano sempre no. Lo vedi dallo sguardo e poi c’è stato tanto razzismo biologico, dalle elementari mi chiamavano sporca negra e mi hanno buttato un barattolo di coleotteri in testa “perché sono neri come te”. Oppure odiavo negli anni ’90, ero ancora adolescente, quando si fermavano le macchine mentre stavo alla fermata ad aspettare il bus e ti facevano vedere i soldi chiedendo sesso orale, perché nera significava prostituta.

Io ho imparato a schivarli anche. Ho imparato a reagire. Mia madre dice che il razzismo non lo combatti urlando, ma lo combatti con la riflessione e la conoscenza anche quando sei nel mezzo del disastro, lei mi ha sempre detto di uscirne con una frase arguta, è l’unico modo. Mia madre, James Baldwin e Malcom X sono stati i miei maestri nell’usare la riflessione, le parole, per questo scrivo. Volevo capire come mai mi succedevano una serie di cose e volevo capire qual era la radice, sempre storica. In tutto questo ho trovato molti alleati, penso alla mia professoressa di italiano alle superiori, ai professori universitari che mi hanno dato strumenti che mi hanno cambiato la prospettiva. Sandro Portelli mi ha insegnato molte cose della vita, con l’Italia che ha tutte l sue complicazioni. Ho applicato la strumentazione che loro hanno applicato alla loro lotta e alla loro riflessione teorica.

Come le sembra il dibattito politico italiano sul tema?
Qui non c’è dibattito. Qui il dibattito è finito con il tradimento sulla legge sulla cittadinanza. Poi si è riesumato un discorso sulle regolarizzazioni molto mercantile. Io ho questa sensazione di tante lotte fatte anche collettive: afrodiscendenti, albanesi, arabi, sudamericani, i loro figli nati qui italiani senza diritti e poi anche moltissimi italiani bianchi… Ecco tutti noi ci siamo ritrovati dal 2005 fino al governo Renzi a lottare in piazza, cambiavano le piazze, c’erano tanti bambini e tecnicamente con le scuole abbiamo lavorato moltissimo (penso a due scuole di Roma in particolare la Pisacane e la Di Donato i cui professori si sono spesi tantissimo per far avere diritti ai loro studenti) , però poi questa lotta è stata tradita da tutto l’arco costituzionale: la destra ha fatto ostruzionismo ma gli altri l’hanno reso possibile ed è una cicatrice che mi fa molto male.

Poi c’è stata la raccolta firme dei Radicali e quella era una buona iniziativa ma poi a causa degli eventi caduta nel vuoto e adesso il dibattito è stato sulle regolarizzazioni perché servivano braccia per l’ortofrutta e basta. Queste persone cadono in irregolarità per un meccanismo della Bossi-Fini, sono ricattabili in situazione di pandemia, dovremmo avere più persone regolari possibili ma così è stato un mercato degli schiavi. Io capisco gli sforzi di chi ha chiesto la regolarizzazione ma il risultato è stato misero. Servirebbe più coraggio: l’Italia non può pensare che sia un tema possibile da scacciare in eterno, il Paese è già cambiato, io alla manifestazione per George Floyd a Roma ero con i miei 46 anni vecchia in confronto a chi è sceso in piazza. Tu vedi che hai seconde e terze generazioni, più di 50 anni di popolazione transculturale che ha varie origini. Ma ancora tutto questo non si trasforma in quotidianità. E come se ci fossero enormi barriere. Così non vedi maestri, autisti dell’autobus, professori con altra origine: alcuni luoghi del lavoro non sono al passo con i tempi. Anche nell’editoria.

Lei è fiduciosa che la lezione che arriva dagli USA possa avere un impatto importante anche qui?
Secondo me quella americana è una grande rivoluzione culturale perché gli afrodiscendenti sono legati tra loro, è una rete, per noi sono un modello e quello che sta succedendo negli Usa è clamoroso, è una rivoluzione culturale, non è solo rabbia per Floyd ma è un momento che è stato preparato negli ultimi 20 anni. Da loro la cultura è sempre stata forte, nella musica nella letteratura, i premi Pulitzer quest’anno molti erano neri e penso al disco di Beyoncè di alcuni anni fa tutto sull’identità nera. Questo forse spingerà pure noi qui ad avere una riflessione più ampia e profonda, probabilmente ci spingerà a produrre più libri, più musica, più film, più lotte sociali e non solo afrodiscendenti, perché l’Italia ha una migrazione a mosaico, complessa, fatta di tante diversità che vanno dall’Est Europa al Sudamerica.

Già vedo dei talenti per esempio del giornalismo come Angelo Boccato e Adil Mauro che non parlano solo di immigrazione o della loro identità, ma usano il loro sguardo per riflettere sui nodi della società. Adil e Angelo mi fanno ben sperare per il futuro. Ma ecco tutto deve partire da una riflessione anche storica che attraversa il dolore che abbiamo provato, In Italia nel 1979 un uomo somalo, Ahmed Ali Giama, in piazza della Pace a Roma è stato bruciato viva e Giacomo Valent nel 1985 è stato ucciso con 63 coltellate, era il fratello della prima eurodeputata nera Dacia Valent, ho scritto per Feltrinelli su questo (“Politica della violenza”, Feltrinelli Editore). In Brasile c’è stata Marielle Franco e ognuno sta producendo cultura e rivendicazioni partendo dalle proprie ferite, dai propri martiri e chiaramente questo momento rimarrà a lungo e potrà provocare cambiamenti perché i cambiamenti sono sempre prima culturali e poi sociali.

Leggi anche: 1. Quanti contagi possono causare le proteste in Usa? Un virologo ha provato a calcolarlo / 2. Si sposano in mezzo alla protesta per George Floyd a Philadelphia: “È stato ancora più memorabile” /3.  George Floyd, Minneapolis smantella il dipartimento di polizia: “Vogliamo un nuovo modello di sicurezza” /4. Banksy e l’omaggio a George Floyd: “Il razzismo è un problema dei bianchi”

L’articolo proviene da TPI.it qui

Non è Lino Banfi all’UNESCO, il problema è che odiano la cultura


Nel magico mondo gialloverde funziona esattamente così: non ci si mette a concorrere con i saperi cercando di perfezionarne di nuovi o di migliori, no, si preferisce ridurli a barzelletta disconoscendoli e riducendoli a una risata, roba da barbosi professoroni e cosa c’è di meglio di un Lino Banfi come elemento delatore di un’istituzione da buttare in caciara? Dentro quel “commissioni fatte con persone plurilaureate” lanciata come battuta da Banfi c’è tutto lo spregio per la conoscenza e addirittura la fierezza di essere diversi (e quindi “vicini al popolo”, esattamente “come noi”) proprio perché l’ignoranza dà la sicurezza di non dovere dimostrare nulla, anzi di esserne fieri.
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Tre obiettivi (chiari, semplici, realizzabili) per la cultura

Li scrive in modo chiaro il manifesto del network europeo Culture Action Europe, insieme a più di 150 altre organizzazioni in tutta Europa, per l’Italia. L’ho convintamente sottoscritto perché è perfettamente coerente con il programma di LeU e perché l’argomento (si sa) mi sta a cuore come dovrebbe stare a cuore a tutti. Eccolo qui:

L’obiettivo è dare piena attuazione alla Costituzione italiana e all’Articolo 27 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo:
“Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità, di godere delle arti e di partecipare al progresso scientifico ed ai suoi benefici”.
Anche a questo fine, è indispensabile approvare, all’avvio dei lavori parlamentari, la legge che rende operativa anche nel nostro Paese la Convenzione di Faro, firmata nell’ormai lontano 2013, tassello fondamentale per il rafforzamento del legame tra partecipazione civica e patrimonio culturale.
Le risorse dovranno essere prioritariamente indirizzate a tre macro-obiettivi da realizzarsi anche tramite la creazione di fondi specifici dedicati:
1. FAVORIRE L’ACCESSIBILITÀ ALLE RISORSE CULTURALI MATERIALI, IMMATERIALI E DIGITALI:
a) Accessibilità culturale
– attività di promozione della lettura, della cultura scientifica e di fruizione delle arti performative e visive;
– maggiore spazio alle tematiche e alle pratiche di carattere scientifico, artistico e creativo nei programmi scolastici;
– attività di conoscenza e fruizione del patrimonio culturale locale materiale e immateriale;
– programmi dedicati alla promozione del dialogo interculturale e a favorire la partecipazione culturale di tutti i cittadini;
– interventi per una piena cittadinanza digitale, contro il digital divide.
b) Accessibilità economico-sociale
– interventi atti a rimuovere le barriere economiche per le persone a basso reddito e in condizioni sociali disagiate;
– provvedimenti di fiscalità agevolata per acquisti di materiali, strumenti, prodotti e per la partecipazione ad attività formative culturali;
– inclusione dell’indicatore di partecipazione culturale, prodotto ogni anno dall’Istat con dettaglio regionale, tra le misure del benessere che, dal 2016, entrano nella Legge di bilancio.
c) Accessibilità fisica, sensoriale e cognitiva
– eliminazione delle barriere di accesso agli spazi e alle risorse culturali;
– promozione dell’accessibilità in autonomia delle persone con disabilità;
– interventi e supporti di mobilità per territori / aree / quartieri a bassa densità di popolazione e / o per persone con difficoltà allo spostamento autonomo.
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2. PROMUOVERE INTERVENTI E FAVORIRE LE CONDIZIONI PER LA CRESCITA DI COMPETENZE, POTENZIALITÀ PROFESSIONALI E OPPORTUNITÀ IMPRENDITORIALI QUALI:
a. istituire un fondo dedicato al sostegno di progetti di impresa culturale, anche in forma di rete, e all’ acquisizione di competenze professionali in specie se innovative da parte degli operatori, delle imprese culturali, degli Enti di Terzo Settore culturali;
b. sostenere le organizzazioni ed enti culturali, anche attraverso interventi di fiscalità di vantaggio, programmi di mobilità e di residenze internazionali, condizioni agevolate a lungo termine per l’utilizzo di spazi pubblici a fini culturali e programmi di sviluppo professionale volti a favorire la crescita della capacità di gestione;
c. inclusione dell’indicatore del tasso di occupazione culturale, prodotto ogni anno dall’Istat con dettaglio regionale, tra le misure del benessere che, dal 2016, entrano nella Legge di bilancio.
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3. GARANTIRE NEI COMUNI FINO AI 10.000 ABITANTI (L’85% DEI COMUNI ITALIANI IN CUI RISIEDONO OLTRE 18 MILIONI DI PERSONE) ALMENO UN “PRESIDIO CULTURALE” APERTO 5 GIORNI LA SETTIMANA PER UN MINIMO DI 25 ORE SETTIMANALI E, CON SPECIFICO RIFERIMENTO ALLA STRATEGIA NAZIONALE AREE INTERNE, LA CONFIGURAZIONE DELLA RETE DEI “PRESIDI CULTURALI” IN TUTTI I COMUNI COINVOLTI.
Questo presidio potrebbe essere finanziato mediante un fondo speciale, gestito anche attraverso forme associative di Comuni in collaborazione con l’ANCI e potrebbe fornire i seguenti servizi:
a. le condizioni base di accesso alle risorse culturali: funzioni di prestito e accesso alla lettura, book crossing, collegamento a banda larga, almeno due terminali riservati all’uso pubblico;
b. punto di informazione turistica per i non residenti;
c. uno spazio adeguato ad ospitare le funzioni di cui sopra, riunioni, co-working, attività di spettacolo, aggregazione e, laddove possibile, eventuali altri servizi pubblici.
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Per realizzare gli interventi indicati, è necessario potenziare gli enti e gli uffici pubblici, a livello centrale e periferico, e favorire forme di partenariato pubblico-privato così come previsto dal Codice dei contratti pubblici, con particolare attenzione alla tutela e alla valorizzazione del nostro patrimonio culturale diffuso.
CHIEDIAMO AI CANDIDATI DI TUTTE LE FORZE POLITICHE DI ADERIRE AL NOSTRO MANIFESTO E, SE ELETTI, DI SOSTENERE GLI INTERVENTI SOPRAINDICATI IN TUTTE LE SEDI DELL’ATTIVITÀ PARLAMENTARE.
Da parte nostra ci impegniamo a monitorare il conseguimento degli obiettivi e a darne ampia risonanza con tutti gli strumenti a nostra disposizione.

(fonte)

Rimangono solo l’asinello e il bue

Sono andati a messa, i senatori assenti che hanno affossato lo Ius soli, si sono fatti accarezzare dal loro parroco e hanno pregato a mani giunte in bella mostra con tutta la giunzione che ci si aspetta da un Natale che precede di pochi mesi le prossime elezioni. Staranno inscenando tutta la bontà di cui sono capaci, protagonisti del pranzo in cui loro, da esimi senatori, danno lezioni di mondo come si addice a una classe dirigente sempre diligente alla proiezione che vogliono dare di se stessi.

Faranno foto tutto il giorno stando bene attenti a non inquadrare regali troppo costosi per non inimicarsi “la base”, con qualche spruzzata di qualche nonno ché la vecchiaia ha sempre il suo bell’effetto di tenerezza e, sicuro, inonderanno i propri social con mielose frasi di pace rubate da qualche sito di aforismi trovato grazie a google.

Poi, immancabile, ci sarà il presepe, che di questi tempi è l’olio di ricino a forma di statuette.

Fotograferanno, ignoranti, quell’immagine che rappresenta la nascita di un bambino palestinese rifugiato in Egitto, i tre Magi (un uzbeko, un somalo e un siriano), i pastori pieni di cenci e portatori di malattie, quella madre e quel padre che da irresponsabili hanno pensato bene di avere un figlio senza nemmeno avere una casa e nemmeno un lavoro e in più fotograferanno le pessime condizioni igieniche in cui sono abituati a vivere perché è “la loro cultura”.

Poi racconteranno ai figli e ai nipotini di Babbo Natale, di minoranza etnica lappone che vorrebbe fingersi finlandese.

E alla fine rimangono solo il bue e l’asinello. E l’ipocrisia, a fiumi, insieme al prosecco.

Buon Natale.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/25/rimangono-solo-lasinello-e-il-bue/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Piazza Indipendenza è il simbolo della nuova guerra tra poveri


Non è nemmeno una “guerra tra poveri” ormai: è una guerra ai poveri. Tutti. E anche se i poveri “nostrani” esultano le regole e diritti in realtà stanno saltando anche loro. È il deserto culturale di un’Estate Romana che il vicesindaco Bergamo aveva annunciato in pompa magna come rinascita culturale della capitale e che invece sta fabbricando deserto.
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Lo dicono tutti ma lo fanno in pochi: la cultura contro la camorra

Mai entrato in una scuola. Mai, neppure nell’asilo nido. La mamma la riteneva una perdita di tempo. Meglio tenerlo in casa, pensava. Appena adolescente, suo figlio Marco (nome di fantasia, ndr) l’ha mandato a fare il meccanico. Poi, un giorno, il capomastro gli chiede di mettere un bigliettino con i nomi dei clienti sulle auto in consegna. Non lo sa fare, fa brutta figura, in officina lo irridono. Torna a casa e litiga con la madre, lui insiste per andare in una scuola serale, anche a costo di lavorare meno, lei si oppone. Marco inizia a sfasciare casa, devono intervenire i carabinieri che lo portano in caserma e poi in una comunità per minori. «È stata la sua salvezza» racconta una professoressa dell’istituto «Catullo» di Pomigliano d’Arco, dove Marco ha poi sostenuto con successo l’esame di terza media. Ma per una storia a lieto fine ce ne sono altre dieci fallimentari.

Un gran lavoro il bel video documentario di Antonio Crispino. Eccolo qui:

Mi terrorizza la ferocia di questi, oltre al terrore

Questa mattina, se mi permettete, non scriverò il mio consueto buongiorno. Quindi non mi dedicherò alle notizia di oggi (da Londra alla bagarre sui vitalizi fino alla prossima celebrazione dei trattati europei) ma vi racconto una sensazione.

Nella casella di posta stamattina molto presto mi è arrivato un messaggio, ovviamente da un profilo Facebook che non è riconducibile a nessuna persona reale: la foto del profilo è un soldato ripreso di spalle e il “nome” una semplice sigla “Dem Ken”. Dice, il messaggio, letteralmente:

«cara zecca, prenditela con gli extracomunitari terroristi, volevi anche tu l’europa dell’accoglienza? eccoti servito!»

Mi sono sforzato di immaginare quale strana connessione possa scattare nell’animo di qualcuno per prendersi la briga di scrivere una frase del genere a un insignificante editorialista, quale sia quell’organo così peloso che possa vomitare in una frase del genere gli accadimenti di Londra.

Poi, per immergermi nella meglio nel cassonetto a toccare con mano il percolato della ferocia, mi sono fatto un giro sulle pagine dei fomentatori professionisti (niente nomi, oggi nessuna pubblicità), ancora:

“Ennesimo attentato terroristico islamico a Londra ci conferma che l’Europa è ormai una fabbrica del terrorismo islamico.
Continuiamo ad importare “arricchimento” culturale…i risultati sono questi”

“QUANDO C’ERA IL FASCISMO MIO PADRE DICEVA SEMPRE TUTTI AVEVANO UN LAVORO E NON C’ERA DELIQUENZA!”

“adesso ho capito perche’ la boldrini vuole dare la cittadinanza ha tutti quelli che arrivano nel nostro paese , cosi risultano italiani quando uccidono qualcuno”

“E adesso ?… I buonisti quale caxxata si inventeranno per l’ennesimo attentato facendo passare per un squilibrato un paranoico ecc. senza ragionare un attimino che questi signori perbene attentatori stanno dichiarando guerra ai fessi della UE fallimentare?”

(continua su Left)

Caro Laterza, la cultura qui da noi è un chiodo fisso

(scritto per i Quaderni di Possibile qui)

Oggi Giuseppe Laterza, presidente della storica casa editrice fondata da suo padre Vito, in un’intervista a Il Fatto Quotidiano lamenta che “ci sono 5000 cellulari in perenne contatto tra loro per gestire un potere sempre più distante e arrecato” lamentando l’assenza di una politica che sappia “definire i propri valori di riferimento”, che si affidi alla cultura come “dubbio metodico” e chiedendosi dove possano trovare casa (politica) i “2-3 milioni di persone che si informano, vanno a teatro e alle mostre”.

È un’intervista densa, quella di Laterza, che al solito rimarrà confinata nel cassetto delle barbose discussioni intorno alla cultura mentre la politica preferisce avvitarsi sui “rimpatri in pochi giorni” promessi da Salvini o sulle multe di Grillo contro l’autonomia di pensiero dei suoi eletti. Noi siamo un Paese così: piangiamo Bauman da morto, ma da vivo lo leggiamo pochissimo e soprattutto lo citiamo senza praticarlo nell’esperienza politica.

Forse Laterza però ha un limite di visione: in questo Paese sono in molti a esercitare studio e pensiero complesso alla politica e già ci sono comunità politiche che credono nella cultura come metodo ancor più di un dovuto punto di programma. Quando abbiamo pensato a come fare crescere questa nostra piccola comunità che è Possibile, abbiamo convenuto tutti che la capacità di elaborare cultura (anche politica) sia l’elemento fondante per uscire dal pantano del populismo da una parte e del bieco realismo dall’altra. Ma decidere di prendere la politica terribilmente sul serio e di studiare le cause prima di confezionare le soluzioni è un percorso impervio e tortuoso. Forse Laterza non sa che quel “mondo della cultura” che invoca come parte attiva in politica spesso è già attivo ma difficilmente raccontato.

Per essere ospiti di una trasmissione televisiva o per comparire sulle pagine di un quotidiano nazionale è richiesta una spendibilità che è più nazionalpopolare e d’immediata indignazione piuttosto che costruttiva e ragionata. Forse non è un caso che molti dei temi di Possibile siano diventati libri proprio perché “scavalcati” da un’informazione terribilmente innamorata dello spot e dalla provocazione. E sono d’accordo con lei che avremmo solo da guadagnarci. Tutti.

Eschilo e i mercanti. L’obiettivo è limitare gli studi classici solo ai ricchi.

Una riflessione di Tiziana Drago:

«Tutte le volte che negli studi di antichità si fanno sentire esigenze di rinnovamento, tanto più è necessario, se non si vuole costruire sulla sabbia, mantenere l’esercizio del “mestiere”». D’altra parte, «senza il possesso della deprecata »tecnica» l’interesse storico rimane velleitario». Così un filologo materialista e «leopardiano» come Timpanaro prendeva posizione, negli anni ’70, contro l’eclettica disponibilità con cui la filologia inglobava i nuovi strumenti strutturalistici e antropologici, spesso in nome di malcelate «civetterie interdisciplinari».

Oggi, nel contesto duro e inasprito del declino italiano, in cui il diritto alla formazione è diventato un costo non più sostenibile, l’ipocrisia dilagante ammanta di ragionevolezza l’attacco portato al cuore delle discipline classiche sotto forma di auspicata amputazione della lingua greca e latina. L’argomentazione si sposta di volta in volta dall’ambito statistico (il calo di iscrizioni al liceo classico) a quello economico (i saperi improduttivi, la spesa senza ritorno immediato) a quello sociologico in versione falsamente egualitaria (gli studi classici come sacca di privilegio: è l’argomento di detrattori di comprovato egualitarismo quali Vespa, Ichino, Berlinguer).

L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico.

Racconta Franz Mehring che Karl Marx «ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che volevano togliere agli operai l’interesse per la cultura antica».

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai.

Da leggere Igiaba Scego, fino in fondo:

«Ma qui in occidente ogni musulmano è potenzialmente colpevole, ogni musulmano è considerato una quinta colonna pronta a radicalizzarsi. Il fatto non solo mi offende, ma mi riempie anche di stupore. Sono meravigliata di quanto poco si conosca il mondo islamico in Italia. L’islam è una religione che conta più di un miliardo di fedeli. Abbraccia continenti, paesi, usanze diverse. Ci sono anche approcci alla religione diversi. Ci sono laici, ortodossi, praticanti rigorosi, praticanti tiepidi e ci sono persino atei di cultura islamica. È un mondo variegato che parla molte lingue, che vive molti mondi. Andrebbe coniugato al plurale.

Il mondo islamico non esiste. È un’astrazione. Esistono più mondi islamici che condividono pratiche e rituali comuni, ma che sul resto possono avere forti divergenze di opinioni e di metodi. E poi, essendo una religione senza clero, per forza di cose non può avere una voce sola. Non c’è un papa musulmano o un patriarca musulmano. L’organizzazione e il rapporto con il Supremo non è mediato. Inoltre, bisogna ricordare che i musulmani (o più correttamente, le persone di cultura musulmana) sono le prime vittime di questi attentati terroristici. È chiaro che la maggior parte della gente, di qualsiasi credo, è contro la violenza. A maggior ragione chi proviene da paesi islamici dove questa furia brutale può colpire zii, nipoti, fratelli, sposi, figli.

Not in my name, lo abbiamo gridato e scritto molte volte. Ci siamo distanziati. Lo abbiamo urlato fino a sgolarci. Lo abbiamo fatto dopo il massacro nella redazione di Charlie Hebdo, dopo la strage al Bataclan di Parigi o quella nell’università di Garissa in Kenya. Lo facciamo a ogni attentato a Baghdad, a Damasco, a Istanbul, a Mogadiscio. E naturalmente abbiamo fatto sentire la nostra voce dopo Dhaka. Ma ora dobbiamo entrare tutti – musulmani, cristiani, ebrei, atei, induisti, buddisti, tutti – in un’altra fase. Dobbiamo chiedere ai nostri governi di schierarsi contro le ambiguità del tempo presente.

Il nodo è geopolitico, non religioso. Un nodo aggrovigliato che va dalla Siria al Libano, dall’Arabia Saudita allo Yemen, passando per l’Iraq e l’Iran fino ad arrivare in Bangladesh e in India. Un nodo fatto di vendite di armi, traffici illeciti, interessi economici, finanziamenti poco chiari. E se proprio dobbiamo schierarci, allora facciamolo tutti per la pace. Serve pace nel mondo, pace in Siria, in Somalia, in Afghanistan e non solo. Serve un nuovo impegno per la pace, una parola che per troppo tempo non abbiamo usato, anzi che abbiamo snobbato come utopica. Serve un nuovo movimento pacifista. Servono politiche per la pace. Serve la parola pace coniugata in tutti i suoi aspetti.

Pace è l’unica parola che può toglierci dai guai. L’unica che può farci uscire da questa cappa di sospetto e di paura.»

(fonte)