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Cultura

Montanari scrive a Franceschini: «Rischia di essere il peggior ministro della storia»

“Signor Ministro, non è senza sgomento che mi trovo a a scriverLe che Lei sta raggiungendo un obiettivo che si sarebbe detto impossibile: sostituire Sandro Bondi al vertice della classifica dei più nefasti ministri per i Beni culturali della storia repubblicana”.

Così inizia l’amara lettera aperta che lo storico dell’arte Tomaso Montanari ha indirizzato al ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, pubblicata su MicroMega 4/2016, in edicola in questi giorni.

Innanzitutto il ministro Franceschini è accusato di aver passivamente accettato tre provvedimenti del governo Renzi che mettono in serio pericolo la tutela del patrimonio artistico e del paesaggio:

“Primo: Lei ha subìto senza battere ciglio lo Sblocca Italia, che ha creato un’autostrada normativa emergenzialistica per aggirare le regole vigenti, e semplificare la cementificazione del paese (…). Secondo: La legge Madia, che ha previsto la trasformazione delle prefetture in ‘uffici territoriali dello Stato’. (…). Tradotto in pratica, vuol dire che anche le soprintendenze confluiranno nelle prefetture, e che i soprintendenti saranno sottoposti ai prefetti, gerarchicamente superiori.(…) quel che c’è in gioco non è (solo) l’estetica delle città, delle coste o delle colline italiane: ma la tutela della stessa salute umana, così strettamente connessa alla salvaguardia del territorio. (…) Terzo. La legge sulle esportazioni delle opere d’arte presentata dal Suo partito nella primavera 2016: un clamoroso passo indietro, che ci fa rinunciare all’eccezione culturale al Trattato di Maastricht (1992) grazie alla quale non siamo stati finora obbligati a trattare le opere d’arte del passato come merci qualsiasi.(…) Se Berlusconi e Bondi avessero proposto anche uno solo di questi tre provvedimenti, saremmo tutti andati in piazza con i forconi: probabilmente anche Lei, che allora rivestiva la carica di vicedisastro (copyright di Matteo Renzi) del Partito democratico”.

Poi ci sono le responsabilità dirette e personali di Franceschini:

“La prima è la fatale contrazione delle soprintendenze. Prima che il Suo governo si insediasse ne avevamo tre: quella che si occupava del paesaggio e dei monumenti, quella che si occupava dei musei e delle opere d’arte, quella che si occupava dell’archeologia. Con due mosse successive e non coordinate tra loro, provocando un caos indescrivibile e senza investire un euro nell’operazione, Lei le accorpate tutte: ottenendo una «tutela» tuttologica (alcuni astrologi di corte accampati nei corridoi del Collegio Romano preferiscono chiamarla «olistica») che abdica radicalmente al principio fondamentale della competenza tecnico-scientifica. (…) La seconda mossa distruttiva è stata la creazione di trenta supermusei autonomi del tutto sradicati dal territorio, e misurati solo con il volume dei biglietti (e non sulla capacità di produrre e redistribuire a tutti conoscenza). (…) per concentrare risorse sui musei, si è del tutto sguarnito il territorio: cui non toccheranno più dirigenti di prima fascia (il che equivale a una condanna a una perpetua minorità) e su cui rimangono poli museali slabbrati e disorganizzati (perché costruiti secondo l’unico criterio di farci confluire tutto ciò che non sembra eccellente: cioè redditizio), soprintendenze allo stremo, archivi e biblioteche che vanno avanti solo grazie all’elemosina del volontariato. (…) Tutto questo, mentre il finanziamento ordinario della macchina del ministero non è aumentato di un euro”.

“In questo quadro”, conclude lo storico dell’arte, “si comprende quale sia il motore ideologico del complesso di leggi e «riforme» che, di fatto, sta rimuovendo l’articolo 9 dalla Costituzione: se la Costituzione pone alla Repubblica un traguardo altissimo (il pieno sviluppo della persona umana: art. 3), ora, invece, per chi guida la Repubblica le persone e la loro formazione sono funzionali al mercato, signore unico delle nostre vite”

(*) Si tratta di alcuni stralci della lettera pubblicata, integralmente, su MicroMega 4/2016.

Caro Shady, hai ragione: è la cultura dei diritti che ci manca in politica estera

siria

Caro Shady,

ho letto con molta attenzione la tua lettera a Civati in cui ripercorri la viltà italiana su un politica estera che ormai  è la caricatura di un compromesso che avrebbe voglia di essere credibile come posizione. E sono d’accordo con te quando scrivi:

«Trovo esclusivamente necessario cambiare marcia in politica estera, garantendo la pace negli altri paesi e la necessità di sostenere le società civili che tentano di emanciparsi da dittature e fondamentalismi, ma è anche urgente una rivoluzione culturale in Italia. In cinque anni ho notato che intorno alla Siria – e non solo – c’è una vergognosa assenza da parte della una classe intellettuale italiana(siano essi poeti, scrittori o altro). Non c’è interesse nell’impegnarsi nel sostenere cause extraeuropee o nel semplice dar voce a autori che non siano “amici”. Se oggi c’è un riaffermarsi del populismo e della xenofobia, una grave responsabilità l’hanno gli intellettuali, incapaci di arginare una contro cultura (di destra ma non solo) che si fa largo fra i giovani e che fra qualche decennio – se continuiamo di questo passo – ci dimostrerà tutta la sua carica distruttiva. Guardiamo alla cultura nel mondo arabo: ci sono scrittori e poeti disposti a farsi incarcerare, torturare e uccidere in nome di un ideale. Scrivono libri (romanzi, saggi e raccolte di poesie) socialmente impegnati. Hanno molto da insegnarci riguardo a come si usa una cittadinanza attiva. A questo loro attivismo, la classe culturale italiana continua a vivere in una torre d’avorio, non tentando di sdoganare la cultura araba dall’angolo in cui è reclusa nell’immaginario collettivo.»

Io e te facciamo parte di questa generazione con le antenne ricettive anchilosate dalla paura e dalla diffidenza, una generazione tesa a guardare con sospetto qualsiasi richiesta di diritti che non siano immediatamente riscontrabili nel nostro quotidiano. La stessa vicenda di Giulio Regeni, del resto, appare come una provincialissima preoccupazione di chi teme che possa riaccadere a “qualcuno di noi” mentre ogni giorno qualche Giulio (semplicemente con un nome più impronunciabile) continua ad essere torturato.

Temo però che la questione abbia radici molto più profonde di un semplice federalismo delle responsabilità che abbiamo inventato per poterci perdonare: quella a cui assistiamo non è semplicemente una dispersione di energie ma molto più pericolosamente mi sembra essere un individualismo spinto che ci porta ad abbracciare preferibilmente le cause già notiziabili, i delitti più “pop” oppure le tragedie che siano facilmente comprensibili. È un problema di cultura, caro Shady, perché è una mancanza di storia: abbiamo sdoganato l’ignoranza. Tutto qui.

Per questo credo che sarebbe il caso che la politica torni a fare politica nel senso più pieno prendendosi la responsabilità di alfabetizzare un Paese che vorrebbe avere il diritto di non sapere e invece non ce l’ha; c’è da costruire un patrimonio intellettuale sapendo che non porterò frutti immediati, che probabilmente non avrà fragorosi riscontri elettorali ma che ci consenta di tornare a pensare “a ragion veduta”. Con la consapevolezza dei diritti e con la cultura della loro storia.

Per questo credo che il tuo stimolo sia valido per la Siria come per l’Italia: la consapevolezza è il risultato di un lavoro in rete che non rimanga impigliato tra fratellanze d’interesse o scuderie. E noi ci proviamo. Insieme.

(la lettera di Shady Hamadi è qui)

L’articolo che Dossetti avrebbe voluto in Costituzione

Cultura1

L’appello di Tomaso Montanari che è, in fondo, anche un manifesto politico:

«Giuseppe Dossetti avrebbe voluto in Costituzione un articolo che dicesse che:

«La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione è diritto e dovere di ogni cittadino». 

Oggi tutti noi siamo in questa piazza romana perché sentiamo questo dovere. E perché vogliamo esercitare questo diritto.

Lo vogliamo fare con tutta la nostra voce: e siamo felici che alle nostre voci si aggiunga quella potente della tromba marina del Tritone di Gian Lorenzo Bernini, che oggi è un nostro speciale compagno di lotta.

In questi mesi una serie di decisioni scellerate di questo governo – un governo sostenuto da una maggioranza parlamentare resa possibile da una legge formalmente dichiarata incostituzionale – sta di fatto sradicando dalla Costituzione l’articolo 9.

Denuciamo che oggi la Repubblica non promuove lo sviluppo della cultura.

Non promuove la ricerca.

Non tutela il paesaggio, cioè l’ambiente.

Non tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione.

Oggi è emergenza cultura!

Nei primi colloqui che ho avuto con lui, il ministro Dario Franceschini (allora appena nominato) mi disse che il presidente del Consiglio aveva il progetto di abbattere la tutela pubblica del paesaggio e del patrimonio («far fuori le soprintendenze», mi disse). E che lui, il ministro, si sarebbe opposto.

Ebbene, i fatti – i fatti che ci hanno portato in questa piazza – certificano che quel confronto, se mai c’è stato davvero, l’ha vinto il presidente del Consiglio, e l’ha perso il ministro per i Beni culturali.

Anzi l’hanno perso il paesaggio e il patrimonio artistico: cioè tutti noi, e i nostri figli.

Noi chiediamo l’abrogazione dello Sblocca Italia: una legge criminogena che consegna l’Italia ai signori del cemento e del petrolio. Una legge scritta sotto la dettatura telefonica delle lobbies.

Vogliamo, invece, una legge che porti a zero il consumo suolo: una legge vera, non come quella, ipocrita e dannosa, che giace in Parlamento.

Chiediamo al governo di ritirare l’odioso provvedimento del silenzio assenso. Prima si sono svuotate le soprintendenze di mezzi e di personale. E, ora che non ce la fanno più a rispondere in tempi brevi, si vuol far pagare il conto ai cittadini: perché il famoso silenzio assenso servirà solo a costruire Grandi Opere Inutili. Utili, anzi, solo a chi le costruisce, e fatali per l’ambiente: e non di rado per la vita stessa dei cittadini, falciati da alluvioni e da frane provocate dal cemento.

Chiediamo al governo di rinunciare alla bestemmia del Ponte sullo Stretto.

Vogliamo l’Unica Grande Opera utile, e cioè il risanamento e la messa in sicurezza del territorio.

Chiediamo al governo di ritirare l’articolo della Legge Madia che mette le soprintendenze sotto i prefetti: che mette, cioè, la tutela tecnico-scientifica del territorio sotto il potere del governo stesso.

Nemmeno un governo eletto plebiscitariamente (e questo, notoriamente, non lo è) ha il potere di distruggere ciò che dobbiamo lasciare alle future generazioni. Siamo custodi, non padroni.

E la nostra voce è umile: ma contiene quella dei nostri figli, e dei figli dei nostri figli: finché non si spenga la luna. È il futuro che ci supplica di non distruggere la bella Italia.

Vogliamo che la soprintendenza sia una vera magistratura del territorio e del patrimonio storico e artistico. Indipendente dal potere politico.»

(continua qui)

A proposito di ISIS, musica e teatro e cultura.

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Era successo con Khaled al Assad, il rinomato archeologo barbaramente ucciso. Era successo anche con la sparatoria al Museo del Bardo a Tunisi. E poi al Bataclan, la “sala da spettacolo” che è al centro della cronaca di queste ore. Il terrorismo teme la bellezza, il terrorismo ha bisogno di una massa stolida che non sia capace di elaborare soluzioni, alternativa, in una parola sola: cultura.

E chissà se davvero non succederà anche che ci renderemo conto di quanto passi anche da lì, da una concezione di passatempo “etico” oltre che spassoso, dal ruolo così importante delle parole recitate, cantate o scritte. Mi dico: chissà se ci riusciremo anche noi, oltre che loro, a capire quanto sia potente la cultura.

Il politico del mese è Stefano Benni

StefanoBenni

Non tanto per il rifiuto del premio, secondo me, quanto per la controrisposta alla (brutta) risposta del Ministro Franceschini:

Caro ministro, la sua è una risposta da politico in leggera difficoltà, non da sereno amante della cultura. La mia infondata indignazione è condivisa da molti, e si fonda sui miei incontri con piccole, coraggiose, serie realtà che voi avete soffocato, e che lei farebbe bene a frequentare di più. Avrei preferito che dicesse chiaramente cosa vuole fare d’ora in avanti, piuttosto che elencare cifre sommarie per difendere il suo posto di lavoro. Sì avete dato soldi, ma a chi e con che criteri?

Prendo atto della sua buona volontà e il futuro dirà se lei vuole davvero riportare la cultura al centro (naturalmente al centro) dell’azione politica. È una frase affascinante che sentiamo ripetere da anni. Se ciò avverrà sarò il primo a riconoscerlo, accetterò premi e ci congratuleremo vicendevolmente. Ma si sbrighi, ho una certa età e non vorrei premi alla memoria.

Buon lavoro e chiudo qui,

Stefano Benni

L’antimafia felice (e pop)

Questa mattina devo dire di essermi svegliato con il sorriso dopo avere letto il pezzo di Lorenzo Misuraca. Dentro ci sono molti dei concetti sui cui lavoriamo da anni nei teatri, nelle scuole e nelle piazze e soprattutto c’è una maturità della crescita culturale antimafiosa che sarebbe il momento di praticare:

1907288_583075141799653_4646072990074602939_n-e1423119329629Nella rappresentazione mediatica, il militante antimafia è un eroe solitario che combatte contro un clan, spesso capeggiato da un boss, che possiede una forza di intimidazione e di controllo del territorio soverchiante. Lo schema del racconto popolare si ripete anche nella finzione cinematografica (dal commissario Cattani de La Piovra al commissario Scialoja di Romanzo Criminale) e nella riproposizione rimasticata e semplificata di figure di altra complessità quali Peppino Impastato, Pippo Fava, Giovanni Falcone, Don Pino Puglisi, per citarne alcuni. La figura cristologica dell’eroe solitario che va incontro al martirio, consapevolmente, e che lo accetta come un inevitabile prezzo da pagare per il riscatto del “popolo degli onesti” dal “giogo della mafia”.

Eppure quello non sono io. Quegli eroi non siamo noi. La spinta iniziale a elaborare un immaginario antimafia nuovo, o quantomeno differente, nasce da un istintivo sentimento di estraneità al racconto costantemente riproposto della battaglia culturale e della militanza contro le mafie.

L’associazione antimafie daSud si propone da diversi anni di riformulare il racconto di questa parte di storia del Paese. Un lavoro che si sviluppa lungo due linee programmatiche: la ricostruzione dei pezzi mancanti della memoria collettiva dell’antimafia e la dissoluzione della visione binaria e bidimensionale del conflitto tra valori antimafia e disvalori mafiosi.

Il recupero di memoria, messo in atto soprattutto con inchieste giornalistiche su storie di ‘ndrangheta e anti-‘ndrangheta, o attraverso dossier tematici, è profondamente intrecciato con il tema principale che qui si vuole affrontare: la costruzione di un nuovo immaginario antimafia.[1] Perché sono due tracce che si incrociano e avanzano di pari passo? Per spiegarlo in maniera più piana bisogna partire dal primo stereotipo che volevamo abbattere, quello che ci faceva dire con tanta forza “Quelli non siamo noi”. Si tratta della visione eroica della battaglia antimafia.

Al di là di quanto sia aderente alla realtà delle biografie (spesso il quadro è di tutt’altro tipo), il racconto del soldato che da solo lotta contro l’impero del male produce distorsioni e danni alla stessa lotta antimafia. Solitamente, nel racconto mediatico, l’eroe antimafia è un personaggio solitario, tendente alla depressione, e corrisponde a quello che si potrebbe descrivere come un profilo antisociale. A tal punto che la dimensione politica della sua lotta, anche quando è presente (si pensi ai casi di Peppino Impastato e Giuseppe Valarioti, entrambi militanti comunisti), viene del tutto espunta o rappresentata come un di più all’interno della storia.

Al contrario, i rappresentanti della criminalità organizzata sono descritti come una grande famiglia (certo, violenta e spietata, quando è necessario) dove i legami sono forti e stratificati, dove non mancano le occasioni di convivialità (difficile reperire un film sulla mafia che non contenga una scena ambientata in matrimoni, battesimi o serate al nightclub). L’eroe antimafioso si aggira invece solitario per le strade della città, in preda ai demoni dell’ossessione repressiva nei confronti del boss della storia, assediato dalla paura di essere ucciso da un momento all’altro.

Nella visione dicotomica di cui si diceva prima, scegliere il “pacchetto-immaginario” antimafia significa accettare di diventare estraneo alla propria comunità, rinunciare cioè a quella rete di relazioni e a quel riconoscimento di prossimità che invece spetta a chi sceglie di stare “dall’altra parte della barricata”. È evidente che in un’ottica di sensibilizzazione, soprattutto presso le fasce giovanili, pre e adolescenziali, questo racconto rischia di essere un formidabile boomerang.

La figura di Roberto Saviano – parliamo qui del personaggio pubblico, non della persona – rientra in pieno in quella visione cristologica dell’eroe antimafia. Il suo racconto è probabile che generi molta stima e poca emulazione tra i giovani. Chi farebbe una scelta netta, se quella scelta comportasse la rinuncia ai piaceri della vita e la condanna alla solitudine?

Il racconto binario mafie/antimafie produce così un meccanismo di delega pericoloso. Al tempo dei social network, dell’iper-informazione, sostenere pubblicamente un “eroe antimafia”, firmando una petizione in suo favore, comprando i suoi prodotti culturali, guardando le sue trasmissioni e condividendone su facebook i contenuti, viene assunto come fosse un impegno antimafia in prima persona. Ma in realtà i cambiamenti prodotti tramite il processo di delega all’eroe sono minimi e finiscono con l’indebolire la partecipazione diretta a vertenze reali sul territorio.

Per prima cosa, bisogna raccontare la complessità del contesto in cui si sviluppa la dinamica mafiosa e il suo contrasto. Dicevamo all’inizio: “quelli non siamo noi”. È questa la frase che chissà quanti ragazzi e ragazze hanno pensato di fronte a “lezioni antimafia” frontali, in cui il relatore descrive una realtà dai tratti netti in cui è quasi impossibile riuscire a identificarsi.

Raccontare le zone grigie, i punti di contatto tra legale e illegale, le faglie del sistema, l’assenza dello Stato, le leggi ingiuste che spingono i territori tra le braccia dei clan. Raccontare questo non poteva che produrre in noi e nella nostra comunicazione uno slittamento semantico centrale nel nostro lavoro.

L’ariete per sconfiggere le mafie non era la legalità, concetto pieno di insidie e con una forza centrifuga che conduce inevitabilmente alla visione dicotomica buoni/cattivi, o eroi/antieroi, bensì la giustizia sociale, che porta con sé il valore principale dei diritti che spettano a individui e comunità.

Un’antimafia che mira alla giustizia sociale, che parte dal racconto della complessità, anche dei lati meno rassicuranti e che di questa complessità si fa carico, non può che essere un’antimafia costruita collettivamente, in grado di coinvolgere strati sociali sempre più ampi e vari. Un’antimafia sociale. Un’antimafia che si pone l’obiettivo di raggiungere cerchie sociali e stili di vita che normalmente non provano alcun interesse per la questione, deve fare i conti con un linguaggio pop.

Mentre infatti nell’antimafia tradizionale il concetto di popolare è rilevabile soprattutto come folklore, come rivisitazione inerte di linguaggi che un tempo riuscivano a connettersi col sentire del tempo, e sono diventati strumento di auto-identificazione di una classe colta, per linguaggio pop abbiamo inteso i linguaggi artistici e creativi in grado di comunicare a ampie fette di popolazione, soprattutto giovanile.

Se appunto un certo tipo di immaginario antimafia rimane legato allo stereotipo folk, come la musica cantautoriale, “d’impegno”, il racconto che ci interessa è quello che passa per le culture metropolitane, come il writing, l’hip hop, il fumetto, in grado di agganciare fasce sociali e generazionali altrimenti precluse. Ma perché l’operazione vada a buon fine allo stile deve corrispondere un’adeguata cura della qualità del prodotto culturale.

E qui si arriva ad un altro punto debole dell’immaginario antimafia tradizionale. Così come altre battaglie che partono dal presupposto del miglioramento sociale, della correzione di storture all’interno di una comunità, sovente anche l’antimafia cade nella trappola di pensare che il messaggio sia il medium. In altre parole, che il presupposto alto valore etico della missione di sensibilizzazione, valga per se stesso come una forma di estetica, di qualità essenziale del prodotto.

Ma qualsiasi messaggio che voglia raggiungere utenti inizialmente non interessati, deve avere alcune caratteristiche basiche che nulla hanno a che fare con il suo valore etico. Deve essere “bello”, cioè qualitativamente valido, e deve essere “seducente” per il destinatario, promettergli qualcosa di cui ha bisogno. Al contrario abbiamo assistito e continuiamo ad assistere in parte a un immaginario antimafia sciatto, in molti casi parrocchiale nel tratteggiare il bene e il male, pervaso da una sottile arroganza del messaggio: questo film, questo libro, questo cantante, questo spettacolo, questo dibattito, è un prodotto antimafia, dunque devi farlo tuo, a prescindere dal fatto che sia noioso, banale, esteticamente rozzo.

Questo messaggio non funziona, o meglio: funziona solo con chi è già da questa parte della barricata e fa un consumo dell’immaginario antimafia in forma prevalentemente identitaria e autoconsolatoria. Ma la priorità è la creazione di una massa critica (intendendo con l’aggettivo non solo un livello quantitativo minimo necessario, ma anche la capacità di affrontare in maniera analitica la presenza delle mafie nei territori e i possibili strumenti di lotta), sempre più ampia, attraverso l’utilizzo consapevole di linguaggi creativi e dell’idea puntuale di società che si vuole veicolare.

([1] Cfr. i due volumi di Danilo Chirico e Alessio Magro, Il caso Valarioti, Round Robin, 2010; Dimenticati, Castelvecchi, 2012.)

Le istituzioni hanno un drammatico bisogno di farsi educare dai movimenti

Per ora il progetto culturale del Comune di Roma si riduce allo sgombero. Restano in campo le promesse e la speranza che davvero le istituzioni della cultura sappiano “istituzionalizzare” ciò che di buono e i novativo è stato costruito e sperimentato al Teatro Valle ma rimane il fatto che, anche nel campo della cultura, noi abbiamo bisogno di legislatori che sappiano declinare in leggi dello Stato le buone pratiche dei “movimenti” (parola bruttissima,  abusata, svuotata e da rimettere il prima possibile nel cassetto degli slogan deturpato dalla politica).
Ha ragione quindi Montanari quando scrive che:

Negli ultimi decenni, anche in campo culturale le pubbliche amministrazioni hanno creato società e agenzie che permettessero di agire secondo procedure, e non di rado anche con finalità, di tipo privatistico (si pensi ad Arcus; o a Zétema, per restare a Roma). Qua si tratta di avviare un processo perfettamente speculare: studiare il modo in cui sia possibile che le istituzioni pubbliche ospitino al loro interno un modo più radicale (e dunque meno commerciale e meno lottizzato) di essere ‘pubblico’.
Si tratta di portare dentro ad un teatro pubblico un modo di fare, produrre, condividere teatro ispirato alla filosofia dei beni comuni. Se ci saranno abbastanza onestà intellettuale, fantasia e tenacia per farlo davvero, allora la storia del Valle Occupato sarà finita bene. E la Repubblica sarà un po’ più res publica.

Pensa a Loredana Lipperini in Europa

Sarà che continuo ad essere convinto che ci sia bisogno di cultura politica (cultura, politica e di cultura politica) ma in questa campagna elettorale per le lezioni europee non si può non notare per l’ennesima volta una programmata sparizione dei contenuti e una rampante onda di accuse, bisticci da cortile e i soliti colpetti bassi da particella dell’oratorio. Anche per questo ho deciso di limitare le mie uscite elettorali a pochi fidati amici prediligendo i candidati a sindaco che si assumeranno il dovere di amministrare la crisi piuttosto che le città. Qualche giorno fa avrei dovuto partecipare all’incontro elettorale organizzato su Milano per Loredana Lipperini. Non sono riuscito ad arrivarci per diversi motivi ma tengo a rendere pubblica la mia predilezione per Loredana e ciò che rappresenta: una figura culturale a tutto tondo che non rinuncia all’impegno politico come percorso (accidentato, velenoso e a volte infame, vedi Loredana?) verso la bellezza. Leggete il suo ultimo post:

Questa campagna elettorale, dunque.
Dove sento parlare di vittorie, di derby, di avversari da annichilire. Ma dove non sento parlare di progetti, e tanto meno di progetti europei.
Questa campagna elettorale, dunque.
Dove scatta una annoiata voglia di sangue da parte dei molti che si accingono a guardare i talk show con l’account twitter già aperto per commentare battuta dopo battuta.  Pollice su e pollice giù, come ai vecchi, vecchissimi tempi.
Questa campagna elettorale, dunque.
Dove si sgomita per una poltrona in un salotto televisivo. Dove si punta a un rialzo che in realtà è un ribasso, convinti che la visibilità sia non un valore, ma IL valore, e non importa cosa ci metti dentro quella visibilità ottenuta, e quali progetti, e quali obiettivi.
Questa campagna elettorale, dunque, non è la mia.
La mia è anomala e verrebbe bocciata da ogni comunicatore, figurarsi. Si svolge nelle librerie e nei luoghi frequentati dai lettori (ma anche nei mercati, ma anche nei circoli di quartiere). E’ fatta di racconti e, magari, di utopie. In una parola: non è in nulla diversa da quanto ho detto e scritto negli ultimi dieci anni. Semplicemente, è confluita in un progetto.
La mia campagna elettorale è un manifesto. Perché delle battutine spiritose e delle risse e del tutti contro tutti, grazie, faccio a meno.
La mia campagna elettorale è qui. Nel manifesto di Culture Action Europe che faccio mio, virgole incluse. E che mi impegno ad attuare: sia nel caso venissi eletta, sia in caso contrario, nel mio lavoro quotidiano. 

Questa campagna elettorale, dunque, fatta di persone, di incontri vecchi e nuovi, di case in cui dormo, di stanze che conosco, è la campagna elettorale più bella che potessi immaginare. Servirà? E’ già servita, e molto.

Ecco, per un manifesto culturale europeo che sia serio e sincero stamattina mi sono detto: pensa a Loredana in Europa come ci farebbe bene a noi operatori culturali qui in Italia. E in Europa, a volere essere coraggiosi.