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fascismo

Manifestarsi. Soprattutto in campagna elettorale.

Su Macerata in queste ore si sta facendo molta confusione. Ne ho scritto nel mio buongiorno stamattina qui:

Finisce che  Anpi CgilArci e Libera dichiarano sospesa una manifestazione che in realtà è stata indetta da altri: come racconta Csa Sisma “una manifestazione che in pochissimi giorni ha ricevuto appelli, adesioni ed inviti alla partecipazione da tante realtà sociali e singoli cittadini, a livello locale, come a livello nazionale”. E l’appello di ANPI (e gli altri) viene smentito nelle decine di messaggi (e sezioni locali) che decidono comunque di non accettare la sospensione. E così, da fuori, si assiste allo spiacevole balbettio di chi crede che “la politica” si propaghi provando a galleggiare. Ed è un peccato. Alla fine (ovviamente) la Prefettura prende la palla al balzo per vietare “tutte le manifestazioni”. Non si manifesta l’antifascismo, in Italia, nel 2018: la normalizzazione del fascismo come “opinione” contraria è riuscita.

L’antifascismo non è un orpello da sventolare quando il mare è piatto e non tira vento. Mi spiace. No.

(A proposito: mercoledì a Macerata Casapound ha tenuto una conferenza stampa e oggi, giovedì 8 febbraio, Forza Nuova ha annunciato un presidio. Loro.)

Non bisogna abbassare i toni ma bisogna cambiarli (ne ho scritto per Fanpage qui):

varrebbe la pena avere il coraggio di abbandonare la strategia dei tifosi opposti (che tanto premia in termini elettorali e nei clic) e tornare al senso delle parole, lì dove un omicidio è un omicidio, lì dove una disperazione porta con sé il dovere di essere trattata con cura, lì dove un’ideologia incostituzionale non diventa un malessere da sventolare per demolire gli avversari, lì dove un prurito nascosto tra le pieghe di un dramma non viene esaltato per un po’ di pietismo, lì dove le vittime sono le vittime e non i carnefici, lì dove la richiesta di giusta pena non diventa la fame di vendetta, lì dove le strumentalizzazioni vengono prese per quel poco che valgono e non diventano suggeritrici degli editoriali.

E quindi siccome bisogna manifestarsi, soprattutto in campagna elettorale, abbiamo deciso di andarci. Ecco l’agenzia di stampa:

Come scrive giustamente Civati manifestare contro i fascismi non è mai un errore.

 

«Non possiamo permettere che ritornino quelle parole (e quegli atti) della vergogna»: una lettera ai direttori

(la pubblica Nazione Indiana qui)

Siamo studiosi e studiose, scrittori e scrittrici, preoccupati dal dilagare dell’odio nei media italiani. Odio verso le donne, i migranti, i figli di migranti, la comunità Lgbtq. Un odio che è ormai il piatto principale di moltissimi talk show televisivi nei quali vige da tempo la politica dei microfoni aperti, senza nessuna direzione o controllo. E spesso le parole che escono fuori da alcuni dibattimenti televisivi sono parole che mettono fortemente in crisi o addirittura contraddicono l’essenza stessa della nostra Costituzione, il richiamarsi a un patto antifascista e democratico.

L’attentato di Macerata, dove un simpatizzante neonazista ha cercato la strage di uomini e donne africani, è qualcosa che ci interroga nel profondo. Le vittime sono diventate il bersaglio di un uomo la cui azione terroristica si è nutrita della narrazione tossica veicolata non solo da internet ma anche dal mainstream mediatico. Dopo quello che è successo non possiamo restare in silenzio. Serve una maggiore assunzione di responsabilità, serve un nuovo patto fra chi fa comunicazione e i cittadini.

Le parole di odio, lo abbiamo visto chiaramente, possono tradursi in atti di violenza omicida. Azioni che, acclamate e imitate, rischiano seriamente di innescare una spirale di violenza. Per noi è evidente che il nodo mediatico ha contribuito a produrre e legittimare lo scatenarsi delle pulsioni peggiori. Per questo chiediamo ai media di non prestare più il fianco alla propaganda d’odio, ma di compiere anzi uno sforzo nel contrastarla. Intere fette di società (per esempio i migranti e i figli di migranti) nella rappresentazione mediatica esistono pressoché solo come stereotipo o nei peggiori dei casi come bersaglio dell’odio, contraltare utile a chi fa di una propaganda scellerata il suo lavoro principale.

Sappiamo che nei media lavorano seri professionisti che come noi sono molto preoccupati per la piega degli eventi. Servono contenuti nuovi, modalità diverse, linguaggi aperti e trasparenti. Non possiamo permettere che nel 2018, ad 80 anni dalle leggi razziali, ritornino quelle parole (e quegli atti) della vergogna. Dobbiamo cambiare ora e dobbiamo farlo tutti insieme. Ne va della nostra convivenza e della nostra tenuta democratica.

Quello che chiediamo non è un superficiale politically correct. Chiediamo invece una presa in carico di un mondo nuovo, il nostro, che ha bisogno di conoscersi e non odiarsi.

Antonio Gramsci scriveva: Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri. Dipende da noi non lasciar nascere questi mostri. Dipende da noi evitare che torni lo spettro del fascismo nelle nostre vite. Per farlo però dobbiamo lavorare in sinergia e cambiare i mezzi di comunicazione. E dobbiamo farlo ora, prima che sia troppo tardi.

Giulio Cavalli
Vanessa Roghi
Helena Janeczek
Igiaba Scego
Sabrina Varani
Christian Raimo
Paolo di Paolo
Michela Monferrini
Frederika Randall
Graziano Graziani
Francesca Capelli
Shaul Bassi
Loredana Lipperini
Shulim Vogelmann
Amin Nour
Reda Zine
Sabrina Marchetti
Amir Issa
Alessandro Triulzi
Francesco Forlani
Fiorella Leone
Francesca Melandri
Ilda Curti
Marco Balzano
Alessandro Portelli
Attilio Scarpellini
Filippo Tuena
Francesco M.Cataluccio
Laura Bosio
Gianfranco Pannone
Antonio Damasco
Franco Buffoni
Evelina Santangelo
Caterina Bonvicini
Lisa Ginzburg
Camilla Miglio
Emanuele Zinato
Andrea Inglese
Andrea Raos
Maria Grazia Meriggi
Alessandra Di Maio
Roberto Carvelli
Francesco Fiorentino
Grazia Verasani
Caterina Venturini
Alessandra Carnaroli
Lorenzo Declich
Gennaro Carotenuto
Silvia Ballestra
Chiara Valerio
Marco Belpoliti
Paola Caridi
Marco Missiroli
Alessandro Robecchi
Valeria Parrella
Nicola Lagioia
Enrico Manera
Jamila Mascat
Maria Luisa Venuta
Rossella Milone
Giacomo Sartori
Antonella Lattanzi
Barbara del Mercato
Amara Lakhous
Rino Bianchi
Carola Susani
Roberto Carvelli
Isabella Perretti
Rosa Jijon
Davide Orecchio
Antonella Lattanzi
Simone Giusti
Simone Siliani
Alberto Prunetti
Chiara Mezzalama
Elisabetta Mastrocola
Teresa Ciabatti
Andrea Tarabbia
Antonella Anedda
Elisabetta Bucciarelli
Francesco Fiorentino
Paola Capriolo
Paolo Morelli
Simona Vinci
Giorgio Vasta
Orsola Puecher
Antonio Scurati
Vins Gallico
Daniele Petruccioli
Enrico Macioci
Maria Grazia Calandrone
Eraldo Affinati
Elena Pirazzoli
Leonardo Palmisano
Emiliano Sbaraglia
Maura Gancitano
Marco Mancassola
Rosella Postorino
Alessandra Sarchi
Carlo Lucarelli
Giorgio Pecorin
Gianni Biondillo
Ornella Tajani
Mariasole Ariot
Giorgio Fontana
Girolamo Grammatico
Francesca Ceci
Brunella Toscani
Tommaso Giartosio
Attilio Scarpellini
Simone Pieranni
Elisabetta Liguori
Giuliano Santoro
Orofino di Giacomelli
Maria Grazia Porcelli
Giovanni Contini
Federico Faloppa
Federico Bertoni
Flaminia Bartolini
Dario Miccoli
Emanuela Trevisan Semi
Alessandro Mari
Tommaso Pincio
Laura Silvia Battaglia
Anna Maria Crispino
Andrea Bajani
Renata Morresi
Francesca Fiorletta
Federica Manzon
Angiola Codacci Pisanelli
Alessandro Chiappanuvoli
Società italiana delle Storiche
Benedetta Tobagi
Giuseppe Genna
Fabio Geda
Daniele Giglioli
Angelo Ferracuti
Alessandro Bertante
Riccardo Chiaberge
Giorgio Mascitelli
Gherardo Bortolotti
Annamaria Ferramosca
Anita Benedetti
Letizia Perri
Luisella Aprà
Masturah Atalas
Rosalia Gambatesa
Barbara Summa
Lorenzo D’Agostino
Anna Toscano
Fabrizio Botti
Chiara Veltri
Sergio Bellino
Barbara Benini
Valentina Mangiaforte
Maria Motta
Emanuele Plasmati
Giuseppe Maimone
Paolo Soraci
Pina Piccolo
Graziella Priulla
Leonardo Banchi
Valentina Daniele
Massimiliano Macculi
Susanna Marchesi
Corrado Aiello
Giovanni Scotto
Liliana Omegna
Domenico Conoscenti
Francesco Falciani
Mario Di Vito
Ileana Zagaglia
Maria Elena Paniconi
Antonio Corsi
Stefano Luzi
Nicola Marino
Barbara Lazzarini
Antonella Bottero
Camilla Mauro
Pietro Saitta
Gianni Montieri
Francesca Del Moro
Adam Atik
Maurella Carbone
Sabrina Fusari
Francesa Perlini
Antonella Bastari
Donatella Libani
Alessandra Pillosu
Lidia Massari
Gianni Girola
Andrea Fasulo
Lidia Borghi
Roberta Chimera
Gaetano Vergara
Camilla Seibezzi
Lisa Dal Lago
Nicoletta Mazzi
Annamaria Laneri
Sandra Paoli
Cristina Nicoletta
Leonardo De Franceschi
Olga Consoli
Chiara Barbieri
Valentina De Cillis
Letizia Perri
Angelo Sopelsa
Alessandra Greco
Simone Buratti
Giacomo Di Girolamo
MariaGiovanna Luini
Costanza Matafù
Lorenza Caravelli
Elena Maitrel Cavasin
Leopoldina Bernardi
Donatella Favaretto
Simona Brighetti
Margherita D’Onofrio
Ivana Buono
Manuela Olivieri
Maria Cristina Mannozzi
Helleana Grussi
Elisabetta Galeotti
Antonio Sparzani

(si può firmare qui)

Il fascismo bisognerebbe evitare di sdoganarlo, oltre che combatterlo

Il blitz fascista di quei quattro vigliacchi di Forza nuova sotto la sede di Repubblica (sempre con i volti coperti, perché il coraggio è qualcosa che si abbaia, da quelle parti, ma poi si rifugge sempre dai modi della democrazia) è solo l’ultimo atto di una recrudescenza di un fascismo di ritorno che si scorge non solo nei simboli (ed ecco perché la legge Fiano non è semplicemente “pittoresca” come in molti hanno tentato di farci credere) ma anche e soprattutto in un notevole senso di impunità che dalle parti delle formazioni di estrema destra (vale per Forza nuova ma vale allo stesso modo per CasaPound) sta largamente prendendo piede.

Forse varrebbe la pena soffermarsi sui tanti (troppi) che in questi ultimi mesi hanno giocato a minimizzare a tutti i costi in cambio di qualche copia (o, in televisione, di qualche punto di share) in più, mentre in tutto il Paese la disperazione e la paura sono diventate il concime perfetto per il ritorno di formazioni nostalgiche di un passato più che buio.

Il senso di impunità che spinge Forza nuova a manifestare a volto coperto e a pubblicare il loro folle comunicato («Oggi è stato solo il ‘primo attacco’ contro chi diffonde il verbo immigrazionista, serve gli interessi di Ong, coop e mafie varie. Da oggi inizia il boicottaggio sistematico e militante contro chi diffonde la sostituzione etnica e l’invasione (…). Questi infami sappiano che non gli daremo tregua, li contesteremo ovunque».) però ha delle radici culturali in cui troppi, più o meno consapevolmente, hanno dato il proprio contributo. Sono diversi infatti i giornalisti, anche di grido, che in questi ultimi mesi hanno voluto darci lezione di “democrazia” avvalorando le tesi di formazioni incostituzionali adducendo le più diverse motivazioni; chi ci ha detto che è giusto “dare la parola a tutti” (e forse ha esagerato nelle ospitate diventate ormai abituali), chi invece è andato a discutere con loro (in eventi organizzati da loro) contribuendo alla normalizzazione e poi c’è chi (al solito) continua a contrapporrre il “comunismo”, sventolato come feticcio, come danno opposto ma identico.

Non può stupire che in questo gioco sporco di patinamento del fascismo alla fine i violenti si sentano pienamente legittimati: continuando ad allargare le maglie delle regole della democrazia inevitabilmente succede che anche gli inaccettabili estremi si ritrovino in gioco.

Il fascismo, in tutte le sue forme, avrebbe bisogno di non essere sdoganato oltre che combattuto.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/12/07/il-fascismo-bisognerebbe-evitare-di-sdoganarlo-oltre-che-combatterlo/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

Inquieta la normalità, del fascismo

Il fascismo di ritorno ha le facce un po’ beote e tutte strizzate per provare a incutere timore di quella quindicina del Veneto Fronte Skinhead che fa irruzione nel bel mezzo di una placida riunione di Como Senza Frontiere, una rete di associazioni che si occupano di migrazione.

Con i crani pelati, il bomber nero entrano con passo da parata militare nella stanza e il “capo” si mette a declamare, con ritmo da recita di fine anno alla scuola materna, un delirante comunicato su turbocapitalismo, sostituzione etnica, di migranti, di razza, di patria.

Stupiscono alcuni punti.

La normalità con cui i rappresentanti delle associazioni evitano di prestare il fianco alla provocazione. È una calma dei giusti che smutanda fin da subito i neofascisti. Di fronte alla fermezza gentile, lasciati a marcire nel sottovuoto spinto delle loro stesse parole alla fine coloro che vorrebbero apparire “duri” sembrano pulcini bagnati.

Peggio ancora stupisce la normalità con cui questi ceffi, invece, si sentono in diritto di manifestare le proprie opinioni (illegali) con modalità illegali. Questi si sentono in dovere di fare ciò che fanno ma, peggio ancora, credono di averne il diritto.

E se il fascismo diventa “normale” non è solo per colpa della recrudescenza di certi gruppi: è l’antifascismo che avrebbe bisogno di una rispolverata. Che poi, a pensarci bene, basterebbe applicare la Costituzione.

Buon giovedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2017/11/30/inquieta-la-normalita-del-fascismo/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui.

A proposito di Ostia e CasaPound

Valer la pena leggere l’articolo di Internazionale:

 

“Zecca de merda, frocio”, gli urlano quelli di CasaPound quando lo incontrano fuori da qualche locale o sull’autobus. Si muovono sempre in gruppo, sono ragazzi del quartiere militanti di estrema destra e prendono di mira quelli impegnati nei collettivi scolastici di sinistra o nelle associazioni, soprattutto i ragazzi che si occupano di senza fissa dimora o migranti.

Raffaele Biondo è alto e magro, capelli ricci, maglione a collo alto: ha 19 anni ed è stato per lungo tempo il rappresentante degli studenti del liceo scientifico Antonio Labriola di Ostia. “C’era un periodo in cui ricevevo minacce quotidianamente per la mia attività politica a scuola”, racconta. Poi il 24 maggio 2016 ha subìto un’aggressione.

“Il coordinamento degli studenti del decimo municipio aveva organizzato una manifestazione contro la mafia e contro il fascismo, la giornata della cultura, a cui avevamo invitato tutte le scuole”, racconta Biondo. Durante l’evento il Blocco studentesco, la formazione giovanile del partito di estrema destra CasaPound, si è presentato e ha protestato perché non era stato invitato.

Una lunga lista
Il giorno successivo, Biondo è stato aggredito da un ragazzo di Blocco studentesco accompagnato da altri otto militanti all’uscita da un locale di Casal Palocco. “Sono uscito verso le otto dal bistrot Ciaocore dove stavo studiando con un mio amico”, racconta. “Nel parcheggio ho incontrato otto ragazzi di Blocco studentesco e abbiamo cominciato a discutere della giornata della cultura che si era svolta il giorno prima in piazza Anco Marzio in maniera abbastanza tranquilla”.

All’improvviso uno degli studenti di Blocco studentesco “ha chiesto se ero antifascista”. Quando Biondo ha detto di sì è arrivata la replica: “Allora sei un uomo di merda”, insieme a una testata sulla bocca. “Ho cominciato a vedere tanto sangue e piegato dal dolore non ho reagito”, racconta il ragazzo, mentre l’aggressore e gli altri sono scappati. Biondo è andato al pronto soccorso dove gli hanno dato sette giorni di prognosi. Se l’è cavata con un dente rotto che ha dovuto farsi ricostruire. Ha presentato un esposto alla polizia, ma continua a ricevere minacce e insulti.

 

(continua qui)

‘Quando c’era Lui’: le bufale sul fascismo a cui la gente continua a credere

(un articolo da incorniciare e tenere nel cassetto di Leonardo Bianchi, fonte)

 

A partire dal caso della “spiaggia fascista” di Chioggia, per poi passare alla proposta di legge di Emanuele Fiano o alle dichiarazioni (fraintese) di Laura Boldrini sui monumenti del regime, questo luglio ci siamo confrontati praticamente ogni giorno sul fascismo e la sua eredità.

Per alcuni commentatori, l’Italia non ha mai fatto veramente i conti con il Ventennio e dunque è destinata a essere perennemente attraversata da pulsioni nostalgiche o antidemocratiche. Dall’altro lato episodi come quello di Playa Punta Canna sono definiti innocue “goliardate,” e insieme a derubricazioni di questo tipo continuano a resistere le argomentazioni più o meno revisioniste—del tipo che nel Ventennio, comunque la si pensi, qualcosa di buono è stato fatto; o che comunque non era così malaccio come ci hanno sempre fatto credere.

Quest’ultimi sono dei refrain che si sentono da tempo immemore, ma che con l’avvento dei social stanno vivendo una sorta di seconda epoca d’oro.

In particolare, proprio in concomitanza con le polemiche delle ultime settimane, sul FascioFacebook (e non solo) hanno ricominciato a girare una serie di miti e leggende sulle grandi conquiste sociali ed economiche del fascismo—conquiste che sono contrapposte alla contemporaneità, e servono sostanzialmente a dire: “Vedete? Mentre i politici di adesso non fanno un cazzo, LVI le cose le faceva sul serio!”

Visto che tali bufale riaffiorano di continuo—e dimostrano un’incredibile persistenza proprio perché distorcono verità storiche e le mescolano con la disinformazione—ho pensato di mettere in fila quelle che hanno avuto più successo e risonanza.

IL DUCE HA CREATO LE PENSIONI

Quella di Mussolini che ha creato da zero il sistema pensionistico di cui godremmo tutt’ora è senza dubbio la bufala più persistente e di successo, al punto tale che un anno fa Matteo Salvini ha dichiarato: “Per i pensionati ha fatto sicuramente di più Mussolini che la Fornero. […] La previdenza sociale l’ha portata Mussolini.”

In realtà, non è proprio così. Come si può agevolmente verificare sul sito dell’INPS, la previdenza sociale nasce nel 1898 con la creazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai. Si trattava di un'”assicurazione volontaria integrata da un contributo di incoraggiamento dello Stato e dal contributo anch’esso libero degli imprenditori.”

Nel 1919 l’iscrizione alla Cassa diventa obbligatoria e interessa 12 milioni di lavoratori. Vent’anni dopo, il regime promuove varie misure previdenziali, tra cui le assicurazioni contro la disoccupazione, gli assegni familiari e la pensione di reversibilità. La pensione sociale, tuttavia, è istituita solo nel 1969—ossia a 24 anni dalla morte di Mussolini.

IL DUCE CI HA REGALATO LA TREDICESIMA

Un’altra leggenda che circola molto (soprattutto sotto Natale) è la seguente: se abbiamo un mese di stipendio in più è merito esclusivo della magnanimità di Mussolini. Anche in questo caso, tuttavia, la storia è diversa.

Nel Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro del 1937 venne effettivamente introdotta una “gratifica natalizia.” La mensilità in più era tuttavia destinata ai soli impiegati del settore dell’industria; e non ad esempio agli operai dello stesso settore, che anzi si videro aumentare le ore di lavoro giornaliero fino a 10, e 12 con gli straordinari non rifiutabili.

Come scritto in questo post, insomma, si trattava di una misura “in piena linea con quelle che erano le normali politiche dell’epoca fascista, in una società […] bloccata sul corporativismo basato non sul diritto per tutti, ma sul privilegio di pochi gruppi e settori.”

La vera tredicesima è stata istituita prima con l’accordo interconfederale per l’industria del 27 ottobre 1946, e poi estesa a tutti i lavoratori con il decreto 1070/1960 del presidente della Repubblica.

SOLO CON IL FASCISMO L’ITALIA HA RAGGIUNTO IL PAREGGIO DI BILANCIO

Nell’immagine qui sopra, si ricorda enfaticamente che il “Governo Fascista” raggiunse il pareggio di bilancio nel 1924, praticamente grazie alla lotta contro gli sprechi e alla riduzione delle tasse. Morale della favola: con tutte le tasse che ci sono adesso, invece, i conti dello Stato non tornano mai. Ergo: la Casta è inetta, ci soffoca con la pressione fiscale, e dunque si stava meglio prima.

Ora, il pareggio di bilancio fu effettivamente raggiunto (nel 1925, e non nel 1924). Ma come tutte le disinformazioni che si rispettino, si evita accuratamente di dire cose successe prima e dopo il raggiungimento di quel traguardo.

L’artefice fu il ministro delle finanze e dell’economia, Alberto De Stefani. Dal 1922 in poi, l’economista spinse per la liberalizzazione dell’economia, cercò di contenere l’inflazione, ridusse la spesa pubblica e la disoccupazione. La sua politica di “neoliberismo autoritario” era però vista di cattivo occhio sia dalla parte più radicale del fascismo, che soprattutto da latifondisti, industriali e grandi capitalisti.

Non a caso, nel luglio del 1925 venne destituito dopo aver presentato ripetutamente le dimissioni; e da lì in poi iniziò ad assumere posizioni sempre più critiche (non in senso democratico o antifascista, ovviamente) nei confronti del regime e della sua nuova politica economica che—tra la Grande Depressione, l’autarchia e tutto il resto—portò il paese allo sfascio. Per citare un articolo che si è occupato di smontare il messaggio implicito di questo mito, “un modello che è crollato su se stesso non è il miglior modello.”

IL DUCE HA RICOSTRUITO I PAESI TERREMOTATI IN UN BATTER D’OCCHIO

Anche la storia della prodigiosa ricostruzione del Duce dopo il terremoto del Vulture (in Lucania) del 23 luglio 1930 è piuttosto ricorrente.

La fonte primaria, ripresa dai siti di estrema destra e replicata in vari meme, è un articolo del Secolo d’Italia pubblicato dopo il terremoto che l’anno scorso ha colpito il centro Italia. In esso si sostiene che in appena tre mesi si costruirono 3.746 case e se ne ripararono 5.190, e si infila pure il commento agiografico “altri tempi, ma soprattutto altre tempre…”

Il dato è però parziale e decontestualizzato. Come si può verificare dal sito dell’INGV, nell’ottobre del 1930 furono ultimate “casette asismiche in muratura corrispondenti a 1705 alloggi” e “riparate dal genio Civile 2340 case.” Solo nel settembre del 1931—a operazioni ultimate—si raggiunge la cifra indicata nell’articolo, che corrisponde a 3.746 alloggi in 961 casette. Insomma: i numeri sono comunque rilevanti per l’epoca, ma non è semplicemente vero che in appena tre mesi fu ricostruito tutto da zero.

IL FASCISMO HA RESO L’ITALIA UN FARO PER LE SCOPERTE SCIENTIFICHE

In questa immagine, rivolta a tutti quelli che “NON L’AMMETTERANNO MAI,” si sostiene con la forza di una bella scritta in maiuscolo che il fascismo avesse reso l’Italia—tra le varie cose—”una nazione faro per scoperte scientifiche.”

Nei primi anni del regime però, come ricostruisce dettagliatamente questo articolo sulla Treccani, il governo “aveva sostanzialmente ignorato tutte le questioni connesso con l’organizzazione della struttura di ricerca scientifica,” che rimaneva quella dell’Italia liberale ed era carica di problemi. Nel 1923 venne avviato il CNR (Consiglio nazionale delle ricerche), la prima struttura deputata a svolgere ricerca “su temi di interesse generale.” La sua attività fu subito caratterizzata dalla penuria dei finanziamenti, segno della “scarsa fiducia nel nuovo ente che ancora nutriva Mussolini.”

Col passare degli anni, nonostante i proclami e la propaganda, il CNR non divenne mai incisivo e non produsse nulla di significativo, soprattutto perché la sua unica indicazione di ricerca era quella per l’autarchia—un’indicazione troppo generica. Lo scoppio della seconda guerra mondiale, poi, “allontanò in modo generalizzato i più giovani tra ricercatori, assistenti, tecnici di laboratorio e, in breve tempo, il lavoro scientifico rallentò fino alla quasi totale paralisi.”

Nel 1938, a riprova di quanto al fascismo non fregasse nulla della scienza, l’ambiente scientifico italiano era stato travolto dal più infame e antiscientifico degli atti politici del regime: la promulgazione delle leggi razziali. Il che mi porta all’ultima leggenda che ho scelto per compilare questa lista.

IL DUCE NON ERA RAZZISTA, E NEMMENO IL FASCISMO ERA UN REGIME RAZZISTA

Con ogni probabilità questa è la mistificazione più odiosa, che fa leva sul radicato stereotipo del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco.”

Se è vero che in un primo momento i rapporti tra gli ebrei e il fascismo furono “normali,” e lo stesso Mussolini—nel libro Colloqui con Mussolinidisse che “l’antisemitismo non esiste in Italia,” le cose cambiarono progressivamente con la torsione totalitaria del regime e sfociarono infine nelle persecuzioni.

La maggior parte della storiografia è ormai concorde sul fatto che l’antisemitismo e le leggi razziali non furono introdotte per imposizione della Germania—il Manifesto della razza, ad esempio, pare che sia stato scritto dallo stesso Mussolini.

Piuttosto, come sostiene lo storico Enzo Collotti, la “spinta a una politica della razza nel fascismo italiano” da un lato era “iniziativa e prodotto autonomo” del regime—specialmente dopo il 1933 e l’affermazione del nazismo—e dall’altro era una scelta “connaturata allo stesso retaggio nazionalista, che esaltava la superiorità della stirpe come fatto biologico e non solo culturale.”

Lo stesso discorso si può fare con la “civilizzazione” delle colonie, che si pone in perfetta continuità con quanto detto sopra. Secondo Collotti, la guerra d’aggressione contro l’Etiopia nel 1935 è stata “l’occasione per mettere a fuoco una politica razzista dell’Italia fascista”; e dopo la conquista del paese—mai completata fino in fondo—”fu instaurato un vero e proprio regime di separazione razziale, un vero e proprio prototipo di apartheid.”

Dire che il fascismo non era un regime razzista è negare una delle sue caratteristiche fondamentali. Se si porta all’estremo questo ragionamento, si finisce col dire che il fascismo non era fascista. E non penso che al Duce farebbe molto piacere, no?

Ci ha azzeccato, Gramsci

Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano.

 

(Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921)

“Se permettiamo che una minoranza perda la sua libertà, a causa di persecuzioni o pregiudizi, mettiamo a repentaglio la nostra libertà.”

Grazie a Pippo Civati che ha avuto la pazienza di ripescare uno spezzone da “Don’t be a sucker” film propagandistico anti-fascista promosso dal governo americano dopo la seconda guerra mondiale. Il suo messaggio, purtroppo, è ancora molto attuale.

 

Dacci oggi il nostro fascismo quotidiano

Questo è il manifesto affisso a firma “Noi con Salvini” a Giffoni Valle Piana.

“Ha reso grande l’Italia e faceva lavorare tutti, perché nella patria non dovevano esistere parassiti”, dice.

Si chiude con un chiaro post scriptum: “L’onorevole Fiano è avvisato: accettiamo querele per l’apologia del fascismo, Guido Carpinelli già consigliere provinciale con An”.

Dice (è una notizia che ciclicamente si rimette a circolare) che il fascismo ci “ha dato le pensioni”. Ma è falso: la pensione sociale, tuttavia, è istituita solo nel 1969—ossia a 24 anni dalla morte di Mussolini e la creazione della Cassa Nazionale di previdenza per l’invalidità e la vecchiaia degli operai è del 1898.

Dice che “LUI” ha fatto una legge per gli invalidi omettendo il numero degli invalidi (e morti) che Mussolini e i suoi amichetti (soprattutto il tedesco con i baffi) ha provocato.

Insomma: al solito infila una serie di castronerie. Solo che questa volta le appendono al muro, con una chiara e deliberata modalità promozionale e elettorale.

E Salvini, intanto, promette querela a chi lo definisce canaglia razzista. In effetti che sia una canaglia, solo una canaglia, ne possiamo parlare.

Buon giovedì.

(continua su Left)