Vai al contenuto

Giuliano Pisapia

Su Expo Milano e la Lombardia hanno fallito. Punto.

Ma come è possibile che “l’intelligenza milanese” e i dirigenti “etici” in Lombardia non abbiano voglia di alzare la voce e dire che ogni giorno esce una notizia che impressiona per il deleterio lavoro di Comune di Milano, Provincia di Milano e Regione Lombardia (vi sento già: eh ma Pisapia e tutto il resto) su Expo? Come è possibile che tra le decine di proteste alla moda da fare in qualche piazza (dico: contro Formigoni mancava solo che ci chiudessimo nei cessi del Pirellone) non ci sia posto per una manifestazione di accusa e, se serve (eccome se serve) anche di autoaccusa? Perché quando qualcosa funziona è merito della rivoluzione arancione e quando qualcosa fa acqua da tutte le parti è colpa della Regione? Perché il PD che ha la Presidenza della Commissione Antimafia in Regione Lombardia (e Girelli è persona retta e volenterosa) non ammette il fallimento sul piano della legalità? Perché Ambrosoli non chiede a Pisapia se si poteva fare meglio e di più e ne discutono pubblicamente in una delle cento serate delle cento presentazioni dei cento libri dei cento scrittori milanesi? Perché non si può dire che la promessa di un EXPO senza mafie non è stata mantenuta?

Questo è quello che scrive oggi Repubblica (ma ne scrivono un po’ tutti):

Le falle. Per capire di cosa stiamo parlando basta prendere l’opera al momento più famosa dell’Expo, le cosiddette “Architetture di servizio” per il sito, cioè le fondamenta dei capannoni. Famosa per il costo, 55 milioni di euro, ma soprattutto perché attorno a quel contratto ruota l’indagine di Milano sulla banda di Frigerio. Lo ottiene la Maltauro, ma come? Per l’affidamento Expo sceglie di non bandire una gara europea, aperta a tutti, ma di seguire la procedura ristretta. Partecipano sette aziende e dopo la valutazione della commissione vince un’Ati (Associazione temporanea di imprese) che ha come capofila appunto la Maltauro, l’azienda che è accusata di aver pagato mazzette a Frigerio e Greganti. La procura di Milano accerterà cosa è accaduto e come. Per il momento si può dire che a spalancare la porta alla corruzione è stata proprio la legge, permettendo la procedura abbreviata. “Come in molti altri casi per l’Expo  –  scrive il Garante nel suo dossier  –  si è seguito il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa”. A individuare quale sia, deve essere una commissione di 3 o 5 membri, “imparziale e altamente qualificata”. Ma, ed ecco l’anomalia, nell’offerta della Maltauro hanno avuto più peso gli elementi qualitativi “per loro natura soggettivi”, quali l’estetica e il pregio, rispetto al prezzo e ai tempi di esecuzione, “che sono invece dati oggettivi”. Il punteggio qualitativo era 65 punti, quello quantitativo 35 punti. In sintesi, basta avere dei commissari amici e il gioco è fatto. “Ne abbiamo due su tre”, si compiacevano Frigerio e Greganti, al telefono. E lo stesso Maltauro, interrogato dopo l’arresto, ha confermato il sistema.

L’urgenza che non c’è. Ma a impressionare l’Authority è l'”emergenza perenne” che tutto giustifica. Perché, per esempio, viene affidato “in deroga” a Fiera di Milano spa l’allestimento, la scenografia e l’assistenza tecnica (2,9 milioni)? “Non si ravvisano evidenti motivi di urgenza  –  annota Santoro  –  per un appalto assegnato il 28 novembre scorso, un anno e mezzo prima della data del termine dei lavori”. Ancora: con procedura “ristretta semplificata” sono stati dati i 2,3 milioni per il servizio di vigilanza armata a un’Ati (la mandataria è la Allsystem Spa), nonostante quella modalità “è consentita solo per contratti che non superino il milione e mezzo di euro”. Sforamenti simili, ma di entità inferiore, sono avvenuti con l'”affidamento diretto”, utilizzato 6 volte. “Il tetto massimo ammissibile è 40mila euro”, segnala Santoro, ma nella lista figurano i 70mila a un professionista per lo sviluppo del concept del Padiglione 0 e i 65mila per servizi informatici specialistici.

Ben 72 appalti sono stati consegnati “senza previa pubblicazione del bando”, tra cui figurano il mezzo milione a Publitalia per la fornitura di spazi pubblicitari e i 78mila euro per 13 quadricicli alla Ducati energia, impresa della famiglia del ministro dello Sviluppo Federica Guidi. A Fiera Milano congressi  –  il cui amministratore delegato era Maurizio Lupi fino al maggio scorso, quando si è autosospeso  –  viene invece affidata l’organizzazione di un meeting internazionale dal valore di 881mila euro. Anche in questo caso Expo decide di seguire la via della deroga, appoggiandosi a una delle quattro ordinanze della presidenza del Consiglio (il dpcm del 6 maggio 2013). Lo fa in maniera quantomeno maldestra, perché nel giustificativo pubblicato sul sito ufficiale “si rileva un riferimento al comma 9 dell’articolo 4 che risulta inesistente”. Un refuso.

Expo, Milano, Pisapia

Comunque la si pensi vale la pena leggere le riflessioni di Guido Viale su Il Manifesto:

Come per De Magi­stris, Zedda e Doria anche il sin­daco Pisa­pia era stato eletto sull’onda di una mobi­li­ta­zione straor­di­na­ria per par­te­ci­pa­zione, entu­sia­smo, crea­ti­vità. Pisa­pia doveva porre fine alle male­fatte di Leti­zia Moratti. E tra quelle tante male­fatte la peg­giore è senz’altro l’Expò: un “Grande evento” fatto di “Grandi Opere” che non hanno alcuna giu­sti­fi­ca­zione se non distri­buire com­messe, incas­sare tan­genti e tenere in piedi un comi­tato di affari impre­gnato di cor­ru­zione e di mafia che aveva già deva­stato la città per anni. Si badi bene: le tan­genti sono una con­se­guenza e non la causa.
Se ci fos­sero solo le tan­genti, il ter­ri­to­rio non ne rice­ve­rebbe danni irre­pa­ra­bili. Il vero danno sono le Grandi opere, la deva­sta­zione del ter­ri­to­rio e delle rela­zioni sociali; e il modello di busi­ness di cui sono frutto, fon­dato sull’indifferenza per le esi­genze delle comu­nità locali, sullo stra­po­tere di ban­che e finanza, sul subap­palto del subap­palto, che apre le porte alle mafie, sul pre­ca­riato (e ora anche sul lavoro gra­tuito) che hanno fatto dell’Expò il labo­ra­to­rio dell’Italia di Renzi; e, ovvia­mente, anche sulla corruzione.

Avendo ere­di­tato l’Expò dalla Moratti, Pisa­pia si era impe­gnato a ren­derla comun­que meno pesante pos­si­bile. Ma ha tra­dito quel man­dato. Non è in discus­sione la sua one­stà, né la sua buona fede; lo sono le sue scelte. Appena inse­diato è stato tra­sci­nato a Parigi da For­mi­goni per sot­to­scri­vere gli impe­gni con l’Ufficio Inter­na­zio­nale dell’Expò. Da allora l’Expò ha preso il posto dei pro­getti pre­sen­tati in cam­pa­gna elet­to­rale, alcuni dei quali san­citi dalla vit­to­ria di sei refe­ren­dum cit­ta­dini (senza seguito). E con l’Expò ha comin­ciato a dis­sol­versi quell’ondata di entu­sia­smo e di spe­ranze che aveva por­tato Pisa­pia in Comune.

La sensazione è che non si sia riusciti ad andare oltre alla “buonista” narrazione di un Expo diverso da quello che si temeva e poi alla fine è diventato. Certo Pisapia è rimasto incastrato tra Formigoni prima e Maroni poi ma di una netta posizione di dissenso non se n’è mai sentito il profumo. E oggi vale la pena riconsiderare addirittura gli allarmi di Boeri. Questo EXPO così com’è non era nella testa di chi ha votato la giunta milanese e questo è un fatto politico.

Expo: la grande incompiuta

L’Expo rimarrà una grande incompiuta, con tutti i danni di immagine che ne deriveranno per l’Italia e per Milano. Legalità contro efficienza. Come tante volte è accaduto in questo paese, come sempre più sistematicamente è accaduto a botte di commissari straordinari, emergenze e urgenze internazionali. Si è arrivati perfino a sostenere, con argomenti giuridici surreali, che per l’allestimento dei padiglioni stranieri non debbano valere i protocolli, mica si può imporre la nostra legge agli stranieri. Ci si è perfino avventurati a teorizzare che questi padiglioni, in quanto rappresentanza di specifici Stati esteri, debbano essere equiparati alle ambasciate. Un gigantesco extra legem. Quel che è accaduto in un clima di accondiscendenza intellettuale ha avuto evidenza pubblica. Tanto che chi aveva il compito di offrire suggerimenti proprio in tema di rischio mafioso era stato facile profeta: dopo avere perso due anni solo per nominare l’amministratore delegato di Expo, ci sarebbe stata la corsa finale per trasformare in nemico della patria chi avesse sollevato qualunque problema di legalità.

Le parole (più che condivisibili) di Nando Dalla Chiesa.

Buone pratiche antimafiose (mancate): i tempi di EXPO

Eppure si sapeva fin dall’inizio: il rispetto dei tempi nei lavori sarebbe stato il modo migliore per tenere il più possibile lontane le mafie da Expo. E infatti non è andata così. Quindi bisogna stringere i tempi e inevitabilmente allentare (o “snellire”, o “velocizzare” fate voi) la burocrazia. L’allarme, a dire la verità, era stato già lanciato dalla Commissione di “saggi”: Nando Dalla Chiesa più di una volta aveva parlato dell’altissimo pericolo in Expo smentendo (giustamente) in parte il solito buonismo della Giunta Pisapia che si ostina a dichiarare Expo “mafia free” mentre già ci sono state trentatré (33!) imprese interdette perché in odore di mafia di cui sei solo negli ultimi sei mesi. Come scrive Repubblica:

Fra le novità ci sono più poteri di coordinamento affidati al prefetto, ma soprattutto un innalzamento del valore minimo degli appalti che farà scattare il meccanismo dell’informativa antimafia. D’ora in poi,si partirà da contratti che valgono non più 50mila euro (la cifra rimarrà tale per attività considerate a rischio come i servizi di pulizia o di ristorazione), ma 100mila (comunque inferiore ai 150mila indicati nel Codice antimafia). Maglie di fatto un po’ più larghe.

E non ci interessano le rassicurazioni di Pisapia, Maroni e Podestà (in uno stonatissimo unisono di larghe intese) se basta ricordare che nelle ultime indagini antimafia i clan si dicevano disposti anche di accontentasti di “tanti piccoli lavori” come ad esempio la sicurezza:

“Qui minimo per la sicurezza di Expo ci vogliono 500 uomini” dice intercettato Emanuele De Castro che per conto della ‘ndrina gestisce la “bacinella”, il fondo pensionistico che la ‘ndrangheta tiene pronto per sostenere i propri uomini e le loro famiglie. Gli risponde Vincenzo Rispoli: “Se tu su un appalto di questo ci guadagni 5 euro l’uno al giorno, vedi che cifre che si fanno”. Dopodiché discutono sul come ottenere appalti. “Un appalto diretto è impossibile che ce lo danno a noi. E quindi abbiamo bisogno di una serie di ditte tra virgolette pulite”. (dallo spettacolo DUOMO D’ONORE).

I tempi sono stati sforati, questo è il fatto. La promessa non mantenuta. La buona pratica evitata.

I rottamatori “ad personam” del PD di Milano

pietroSono completamente d’accordo con quanto scrive Gianni Barbacetto nel suo articolo per Il Fatto Quotidiano sulla riconferma di Bruno Rota alla guida dell’Azienda Trasporti Milanese:

Per l’Atm, il sindaco Giuliano Pisapia ha riconfermato nel consiglio d’amministrazione Bruno Rota e Alessandra Perrazzelli (capo di Barclays Italia). Gli altri tre componenti del cda saranno scelti tra i dipendenti comunali e svolgeranno la loro funzione gratuitamente. È dunque certo che Rota, presidente e direttore generale, resterà il manager di vertice di Atm: sarà certamente riconfermato dalla prossima assemblea dei soci (cioè dal Comune di Milano, socio al 99 per cento). Ma sentite come ha reagito Pietro Bussolati (Pd, ex penatiano), giovane segretario milanese del maggior partito che sostiene la giunta Pisapia: “Accettiamo la scelta del sindaco con rammarico, perché avevamo richiesto un indirizzo politico all’insegna del rinnovamento. E invece passa la conservazione dell’esistente”. Una fucilata sparata non soltanto contro Rota, da sempre inviso al giovane assessore ai Trasporti Pierfrancesco Maran (Pd, ex penatiano), ma anche contro il sindaco.

Pisapia non ha fatto un plissè: “Pensavo che l’epoca dei diktat dei partiti fosse finita. Sono fiero di aver sempre scelto in piena indipendenza e autonomia. Ho deciso nel merito e in base alla professionalità e ai risultati, non alle richieste dei singoli partiti. Mi chiedo come mai il segretario del Pd non si sia “rammaricato” per altre nomine effettuate oggi solo in base al buon lavoro svolto in questi anni”. Traduzione: le decisioni le prendo io, o vi sta bene così oppure cercatevi un altro sindaco; anche perché quando riconfermo un manager che ritengo abbia lavorato bene, mi chiamate “conservatore” e vi rammaricate”, ma è un rammarico ad personam, su misura per il solo Rota. Rota è un manager che ai dirigenti dell’Atm a Natale ha regalato il libro (Un uomo onesto, di Monica Zapelli) che racconta la storia di Ambrogio Mauri, l’imprenditore che nel 1997 si è tolto la vita dopo che per anni era stato tagliato fuori dagli appalti Atm perché si rifiutava di pagare tangenti. Rota è il manager che con Filippo Penati (padre politico dei giovani Maran e Bussolati) ha un conto aperto, visto che Penati, quando era presidente della Provincia di Milano, lo cacciò dal vertice di Serravalle perché si era opposto all’acquisto delle azioni della società dal gruppo Gavio.

Rota è un manager che in questi anni di gestione qualche risultato lo ha ottenuto. Ha supportato il decollo dell’Area C, ossia il blocco del traffico in centro, con conseguente aumento degli utenti dei mezzi pubblici. Ha chiuso i bilanci in utile (+4 milioni lo scorso anno, mentre Roma fa -150 milioni). Ha sempre dato ossigeno al suo azionista di controllo, il Comune di Milano, facendogli quadrare i conti con il dividendo straordinario. Ha un brutto carattere, è vero, e non gli va di costruire relazioni con i leaderini di partito. Ora la guerra del Pd milanese a Rota si sposta sul cosiddetto doppio incarico: i rottamatori di rito ambrosiano chiedono che non cumuli più le cariche di presidente e di direttore generale. È come dire: vattene. Perché solo i due incarichi lo rendono manager operativo dell’azienda e nello stesso tempo gli permettono di avere uno stipendio adeguato al ruolo (258 mila euro lordi senza premi di risultato e senza buonuscita), anche se ben lontano dai livelli dei manager che gestiscono business di dimensioni simili. Chi vincerà la guerra, i rottamatori ad personam o il sindaco?

Questa cattiva abitudine di non volere vedere le competenze tra i manager pubblici (certamente in uno stato generale non entusiasmante) e di farne tutta un’erba un fascio è quanto più lontano ci possa essere dal rinnovamento. E dispiace per Bussolati se ha potuto convincersi che in nome del “Renzismo” avremmo digerito le vecchie pratiche truccate con un fondotinta nuovo.

L’acqua calda delle mafie in Expo

Quando parlavamo di rischio ci dicevano che eravamo i soliti allarmisti che per professione devono creare ombre.

Quando abbiamo trovato delle evidenze ci hanno fatto scrivere dagli avvocati e ci hanno avvertiti nei loro metodi indiretti.

Quando abbiamo chiesto quali fossero le soluzioni adottate hanno detto “abbiate fiducia”.

Quando abbiamo chiesto a Formigoni ci hanno risposto “beh, lui si sa”.

Quando abbiamo chiesto a Maroni ci hanno risposto “non si può mettere in discussione”.

Quando abbiamo chiesto a Pisapia ci hanno detto “come ti permetti di chiedere ad uno dei nostri”.

Ora scrivono che la mafia è in Expo. Alla faccia di tutti: mafiosi, antimafiosi, di destra, di sinistra, buoni, cattivi, dilettanti allo sbaraglio, esperti e tutto il resto. Complimenti. Vivissimi.

Gli annunci sono finiti. E quello che prima era un rischio, ora è un dato di fatto. La mafia è entrata nell’affare di Expo. Testa e soldi dei boss controllano parte dei lavori e delle opere connesse. L’allarme, scaturito dall’inchiesta sull’appaltificio di Infrastrutture Lombarde (Ilspa) governato per dieci anni da Antonio Rognonitrova conferma nella relazione del Prefetto di Milano consegnata alla Commissione parlamentare antimafia in trasferta sotto al Duomo (guarda l’infografica).

È il 16 dicembre 2013, quando Francesco Paolo Tronca davanti ai parlamentari legge un appunto riservato di 56 pagine e svela “una tendenza che si sta delineando e sempre più consolidando di una penetrazione nei lavori Expo di imprese contigue, se non organiche alla criminalità organizzata”. In quei giorni davanti al presidente Rosy Bindi parla anche il procuratore aggiunto Ilda Boccassini. Dice: “In considerazione del tempo ormai limitato (…) è molto forte il rischio di infiltrazioni”. Il dato, di per sé clamoroso e inedito, diventa inquietante quando Tronca affronta la questione delle opere connesse all’evento. Tra le varie, oltre alla Linea 5 della metropolitana infiltrata dal clan Barbaro-Papalia, cita la Tangenziale esterna est, snocciolando numeri che fotografano lo stato di un’infiltrazione consistente.

“Quest’opera – sono le sue parole – presenta la maggior concentrazione di imprese già interdette, sette nell’ultimo periodo”. Più altre due. In totale nove società allontanate per sospetti di collusione con le cosche. Una di queste è la Ci.Fa. Servizi ambientali tra i cui soci compare Orlando Liaticoinvolto in un traffico illecito di rifiuti. Un nome, quello dell’imprenditore milanese, già finito nelle informative dell’antimafia lombarda per i suoi rapporti con importanti clan della ‘ndrangheta. Dal 2009 il coordinamento dell’opera è affidato alla Tangenziale esterna spa. Consigliere delegato è Stefano Maullu, ex assessore formigoniano sfiorato (e mai indagato) da alcune inchieste di mafia.

Con lui nel board societario c’è l’architetto Franco Varini in contatto con Carlo Antonio Chiriaco, l’ex direttore sanitario dell’Asl di Pavia condannato in primo grado a 13 anni per concorso esterno. La spa che gestisce i lavori della tangenziale è anche al centro dell’ultima indagine su Infrastrutture Lombarde. Al suo nome sono legate consulenze pilotate a favore dei legali della cerchia di Rognoni. Oltre agli appalti affidati alla cooperativa emiliana Cmb che con l’Ilspa, negli anni, ha fatto affari d’oro.

Consulenze, dunque. E non solo. Con i clan che si accomodano al banchetto di Expo. Tanto che sul sito oggi lavorano quattro società segnalate dalla Dia per rapporti sospetti con ambienti mafiosi. Spiega Tronca: “Spesso la trama dei rapporti d’affari tra le imprese non appaiono subito evidenti”. Il ragionamento del Prefetto è chiaro. Ma c’è di più. Secondo Tronca, infatti, “molte società per le quali stanno ora emergendo criticità antimafia non risultano censite dalle Prefetture competenti per territorio”. Tradotto: “In maniera elusiva, le imprese colluse hanno sempre lavorato in una zona grigia” in modo “da sottrarsi alla richiesta d’informazioni antimafia”.

Un gap che non sembra poter essere risolto nemmeno dalla cosiddetta piattaforma informatica creata per raccogliere il database delle imprese. Secondo una nota del centro Dia di Milano il sistema è “inutilizzabile a causa di vistose lacune relative alla scarsa intuitività del sistema e alla carenza della documentazione”. A tutto questo si aggiungono le problematiche dei controlli antimafia sui lavori degli stati stranieri. Il punto, sollevato dal Prefetto, segnala come in questi casi l’adesione ai controlli sia solo su “base volontaria” così come previsto da un accordo preso tra il governo Italiano e il Bie. Nessun obbligo, dunque. E tanto terreno fertile per la mafia.

Da Il fatto Quotidiano del 23 marzo 2014 (di Davide Milosa)

Nelle foibe c’è ancora posto

181125457-a66e187a-e4d1-41a2-b80d-7311d054e2c6L’ha scritto il capogruppo in zona 9 a Milano di Rifondazione Comunista-Sinistra per Pisapia, Leonardo Cribio che per il Giorno del Ricordo ha deciso di onorarci con una cazzata degna del più becero comico di Caracas. E il fatto che mi colpisce è che nessuno ne chieda le dimissioni come se un’uscita imbecille della maggioranza debba essere perdonata “più” di quelle di centrodestra. Perché l’idiozia è bipartisan e il cambiamento passa estirpandola tutta ovunque si sia sedimentata. E la condanna “morbida” verso gli amici rispetto ai nemici fa sembrare tutti molto più stupidi e meno credibili.

Sempre il solito, inguaribile Ortomercato di Milano e le mafie

Questa volta c’è un Prefetto che avverte la Commissione Parlamentare Antimafia senza remore o negazionismi con una relazione di cinquantasei pagine consegnata alla Presidente Rosy Bindi e ai membri di Commissione. Nomi e cognomi che sono sempre gli stessi che continuano a circolare da decenni cambiando al massimo di una generazione raccontando benissimo come l’attività investigativa e giudiziaria non bastino per estirpare ma al massimo a “cogliere”. Il Comune di Milano ha tutti i saperi a disposizione per segnare un cambio di rotta forte e deciso e, come continua a ricordare Pisapia, una “legalizzazione” dell’Ortomercato sarebbe un successo per la città. E noi ce lo aspettiamo anzi: lo pretendiamo. Ne scrive Davide Milosa:

 Nelle 56 pagine della relazione consegnata a deputati e senatori arrivati in trasferta sotto al Duomo il 13 dicembre 2013, viene dedicato ampio spazio al rischio d’infiltrazione mafiosa all’interno dell’Ortomercato definito un “centro particolarmente esposto agli interessi dei clan”. Di più: l’infrastruttura che per la distribuzione alimentare copre un bacino di utenza di circa 10 milioni di abitanti, è “un terreno d’elezione dominato dalle diverse espressioni della mafia siciliana (in particolare quella gelese) con la quale, negli anni, hanno collaborato anche clan della camorra e cosche della ‘ndrangheta”. Da questo ragionamento emerge il dato inquietante della presenza di alcune società di movimento terra delle famiglie Trimboli e Catanzariti a loro volta legate alla cosca Barbaro di Platì che da anni pianifica i suoi affari criminali da ville e bar del comune di Buccinasco. Mafia di altisismo livello. Tanto che una recente indagine della Dda milanese ha indicato in Rocco Barbaro, detto u Sparitu, il nuovo referente della ‘ndrangheta in Lombardia.

La vicenda segnalata dal Prefetto al presidente della commissione Rosi Bindi emerge dopo un mirato controllo della Dia nel cantiere del nuovo mercato avicunicolo aperto nel Lotto 3 di via Lombroso esattamente contiguo a quello ittico. L’appalto viene vinto il 17 settembre dalla società Christan Color. Il 23 ottobre Sogemi consegna il cantiere. Quindici giorni dopo si presentano gli investigatori della Direzione investigativa antimafia. In mano hanno un decreto del Prefetto, datato 6 novembre 2013, che invita a eseguire controlli sui camion del movimento terra, settore dell’edilizia nel quale la ‘ndrangheta detiene il monopolio assoluto. Nel mirino così finiscono sei società di trasporti. Ma è su due che pesano forti sospetti di collegamenti con la criminalità organizzata. Alla base ci sono rapporti di affari tra alcuni trasportatori e gli uomini del clan, oltre a frequentazioni “rilevate nell’attività info-investigativa”. Una contiguità, ragiona il Prefetto, “desunta anche dalla presenza di automezzi su terreni nella disponibilità della suddetta famiglia”.

Con in mano questi dati, l’avvocato Stefano Zani, direttore generale di Sogemi, il 17 novembre 2013 decide di chiudere il cantiere. Contemporaneamente scrive all’azienda appaltatrice e alla Rial sas, titolare del subappalto per il movimento terra, intimando entrambe a non far entrare i camion delle sei aziende di trasporti. Quindi invia un esposto alla Procura di Milano “per gli accertamenti su eventuali profili penali”. Naturalmente Sogemi come anche Christian Color non hanno responsabilità nell’aver aperto le porte dell’Ortomercato ai mezzi delle cosche. Colpe, penalmente non rilevanti, potrebbero, invece, essere date alla Rial che da subappaltatrice affida il lavoro “di sbancamento, con carico e trasporto agli impianti di stoccaggio”, alle sei società finite sotto la lente dell’antimafia milanese. In particolare, ragiona Sogemi, la responsabilità di Rial è legata alla ritardata comunicazione delle imprese poi utilizzate per movimentare la terra. Da qui l’ipotesi di revocare alla stessa Rial i lavori. Revoca che potrebbe arrivare già la prossima settimana e potrebbe diventare operativa fra 15 giorni. Intanto negli uffici della Dia in via Mauro Macchi gli investigatori del capo centro Alfonso De Vito stanno ultimando le interdittive antimafia che riguarderanno due società di trasporti.

Insomma, al di là del caso particolare sulla cosca Barbaro, i Mercati generali restano un obiettivo prediletto dei clan. Tanto che spesso dal suo monitoraggio gli investigatori prendono spunto per inchieste che poi nulla hanno a che vedere con l’Ortomercato. E’ successo poche settimane fa per l’arresto di Antonio Papalia, classe ’75, fermato per droga e associazione mafiosa. Il suo nome emerge da un fascicolo poi archiviato aperto dalla Procura di Milano su alcuni episodi di estorsione all’interno della struttura di via Lombroso 54. Stesso civico al quale faceva riferimento fino al 2009 la società di agrumi di Antonio Piromalli, figlio del capo dei capi della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro.

A Milano le scuole secondo Costituzione

In tempo di difficoltà economiche la Giunta Pisapia taglia i fondi alle scuole private. Priorità all’istruzione pubblica insomma, secondo Costituzione.

In tal senso la decisione della Giunta Pisapia è stata applaudita dai genitori di Chiedi Asilo, associazione laica: “Siamo totalmente d’accordo su questa scelta: dovendo tagliare le spese, è giusto partire dalle private. Niente da dire sulle scuole degli enti religiosi, ma dovendo scegliere a chi togliere contributi, è ovvio che non si poteva penalizzare la scuola pubblica, già così deprivata. Abbiamo sempre chiesto maggiore trasparenza e fine dei finanziamenti a pioggia. Speriamo solo che adesso le paritarie non si rifacciano sulle famiglie, aumentando le rette”. Sulla stessa linea il commento della Cgil: “Le scuole private hanno già le loro fonti di guadagno attraverso le rette – dice Patrizia Frisoli (Funzione pubblica) – Piuttosto che chiudere i servizi pubblici, il Comune fa benissimo a tagliare i contributi ai privati, che ricevono comunque sempre troppi fondi, nonostante i tagli”.