Vai al contenuto

Lavoro

«Vado a fare il terrorista»

Il 15 marzo dell’anno scorso all’aeroporto di Bologna alcuni poliziotti notano un giovanotto agitato in coda al check-in del volo per la Turchia. Un biglietto di sola andata e uno zainetto erano  un’accoppiata piuttosto insolita per passare inosservata e così, quando gli uomini delle forze dell’ordine, gli hanno chiesto il motivo del suo viaggio quel passeggero rispose candidamente “vado a fare il terrorista”.

La madre, convocata in Questura, raccontò di essere molto preoccupata per quel figlio che “non sembrava più lui”: “non lo riconosco più – disse -, mi spaventa. Traffica tutto il giorno davanti al computer, vede cose stranissime”. Aggiunse che il ragazzo ormai viveva stabilmente a Londra dopo avere trovato lavoro in un ristorante pachistano e che da quando aveva cominciato a frequentare quell’ambiente i suoi atteggiamenti erano diventati molto preoccupanti.

Da un primo sommario esame del suo telefonino gli investigatori scoprirono video che inneggiavano l’Isis e la sua propaganda. Non fu possibile eseguire una ricerca più approfondita sui suoi dispositivi elettronici poiché il Tribunale del Riesame ordinò la restituzione del materiale informatico al sospettato accogliendo un suo ricorso.

Quel giovane era Yousef Zaghba, il terzo attentatore del London Bridge. Questa storiella, che oggi conosciamo e di cui possiamo scrivere, era stata inviata a suo tempo alla polizia inglese. Com’è andata a finire è cronaca di queste ore.

Buon mercoledì.

 

(continua su Left)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Grufolano sulla nonna di Renzi e intanto affossano la legge sulla tortura (e il “teorema Zuccaro” non esiste)

Forte questo governo Gentiloni. Ancora una volta, dopo quella brutta legge sulla legittima difesa (che si augurano di aggiustare in quel Senato che volevano abolire) ieri alla Camera sono riusciti a partorire una legge sulla tortura che appena nata ha già infranto parecchi record: non è stata votata dal suo primo firmatario Luigi Manconi (come se un ristoratore servisse nel suo ristorante un suo piatto avvisandovi che farà schifo), ha meritato critiche dalle associazioni umanitarie che si occupano di tortura e dai famigliari dei torturati e, per di più, è riuscita a fare arrabbiare anche le forze di polizia. Un capolavoro di inettitudine. Solo che questa volta è il Senato a confidare nella Camera perché “intervenga con le opportune migliorie”. In tempi di referendum i sostenitori della riforma costituzionale lo chiamavano “ping pong” e invece è banalmente dappocaggine.

Forte anche tutto il can can sul teorema Zuccaro: frotte di politici che si sono buttati a pesce che si doveva “fare chiarezza sulle ONG” dimenticandosi di essere pagati proprio per quello. Quando si sono ripresi hanno messo in piedi un’indagine conoscitiva affidata alla Commissione Difesa che finalmente ha prodotto un risultato: non ci sono inchieste in corso sulle ONG (ma va?) e c’è una sola inchiesta (“conoscitiva”) su alcune persone (non meglio specificate). In sostanza: non esistono al momento attuale elementi che possano farci dubitare di eventuali accordi illeciti tra ONG e scafisti. Balle, insomma. Balle grasse e stupide che hanno riempito la bocca di una manciata di politici pressapochisti che oggi invece rimangono muti.

 

(continua su Left)

Perché è pericoloso sparare sui sindacati

L’ha scritto Alessandro Robecchi in modo esemplare:

Naturalmente il concetto di disintermediazione, una volta portato alle estreme conseguenze, genererà un po’ di confusione. Perché affidarsi alla mediazione del chirurgo per quella dolorosa appendicite? Su, coraggio, disintermediate! Uno specchio, un coltello da cucina e fate da soli. Perché affidarsi alla mediazione del tranviere per andare da un posto all’altro della città? Basta disintermediare e guidare l’autobus un po’ per uno. Si potrebbe continuare all’infinito, ma insomma, il concetto è chiaro.

Stupisce però che questa febbre da “disintermediazione” si alzi sempre quando si parla di lavoro e di sindacato. Che certo è un corpo intermedio con le sue lentezze e le sue “incrostazioni”, con tutte le sue magagne e difficoltà. E però stupisce questa voglia di “fare da sé”, di autoorganizzarsi, di “uno vale uno” proprio in un momento storico in cui chi lavora – chi abita le infinite varianti di un mondo del lavoro trasformato in giungla selvaggia – pare più indifeso che in passato, come ci insegna il Jobs act ( basta dare un’occhiata alle cifre dei licenziamenti “disciplinari”, così massicciamente sdoganati e prontamente attuati dalle aziende appena gliene è stata data l’occasione).

Certo, il mondo del lavoro subisce (e ancor più subirà) notevoli scossoni, dalla tecnologia, dall’automazione e da altro ancora. Logica suggerirebbe quindi di rafforzare (e certo, migliorare, disincrostare, mi scuso per questo gergo da tecnico della lavatrice) i corpi intermedi che lo difendono, e non di mettere in campo un altro ostacolo al loro lavoro, che in questa fase storica è di difesa dei diritti, furbescamente confusi con privilegi, come se avere un posto di lavoro più o meno fisso fosse essere “casta”.

(il suo articolo è qui)

«Gli immigrati non rubano il lavoro a nessuno»: lo dice l’INPS

Un articolo de La Stampa che vale la pena leggere (prima di commentare):

Quante volte l’avete sentito dire? Quante volte vi siete fatti irretire dalla rassicurante convinzione che gli immigrati rubano lavoro e futuro? Lo sospetta persino Bakari, uno dei giovani africani che ogni mattina pulisce le strade di Roma Nord nel timore di essere arrestato. Non ha bisogno di molto: una ramazza, una paletta, due pezzi di cartone con cui – quasi scusandosi per il disturbo – chiede in italiano qualche centesimo e una manciata di dignità. A Roma l’inefficienza dell’Ama ha raggiunto un livello tale da trasformare truppe di irregolari nel più straordinario spot a favore dell’integrazione. Bakari si aggira attorno a una grande struttura della Polizia, e nessuno sente il bisogno di distoglierlo dalla rimozione meticolosa delle ortiche ai lati di un marciapiede più simile a quelli di Accra che di una capitale europea. Meno male che Bakari c’è: secondo la più classica delle regole del mercato, colma la domanda inevasa di decoro di una città sull’orlo perenne del collasso finanziario.

Gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani, né – se regolari – spingono al ribasso i salari. Non è l’opinione parziale di un romano o di anime belle. Lo dice con dati inoppugnabili una recente ricerca di tre studiosi: Edoardo di Porto dell’Università Federico II di Napoli, Enrica Maria Martino del Collegio Carlo Alberto di Torino e Paolo Naticchioni di Roma Tre. Non è l’unico studio sul tema, ma è il primo che censisce un intero campione di immigrati. Lo hanno fatto grazie ad una borsa VisitInps, il progetto voluto dal presidente Tito Boeri che mette a disposizione della ricerca l’enorme mole di dati dell’Istituto di previdenza. I protagonisti dello studio sono i 227mila lavoratori di 107.000 imprese private (esclusa l’agricoltura) emersi grazie alla più grande sanatoria mai effettuata in Italia, quella decisa a settembre 2002 dal secondo governo Berlusconi che regolarizzò 650mila persone. Le due sanatorie successive furono drasticamente inferiori: nel 2009 furono accolte 222mila richieste su 295mila, nel 2012 passarono appena 60mila richieste su 134mila. Il numero di extracomunitari in rapporto alla popolazione in Italia è volato in quindici anni: dall’1,7 per cento del 1998 all’8 del 2012. Oggi quella crescita è azzerata o quasi: gli immigrati censiti in Italia sono poco più di cinque milioni, due terzi dei quali extracomunitari. In Francia sono 4,3 milioni (ma con un altissimo numero di immigrati di seconda e terza generazione), in Germania i residenti stranieri sono ben sette milioni e mezzo.

Il crollo

Se una volta gli immigrati si fermavano in Italia per cercare fortuna, oggi la gran parte di loro si spinge verso nord. Fra il 2008 e il 2013 i permessi di soggiorno per lavoro sono passati da 738mila a 1.442mila, ma negli ultimi anni la progressione è calata fino ad azzerarsi: nel 2013 sono stati appena lo 0,46 per cento in più dell’anno precedente. Chi non ha potuto avere il rinnovo annuale del permesso è lentamente scivolato nel lavoro irregolare. Danesh Kurosh del dipartimento immigrazione Cgil spiega che la progressiva chiusura dei decreti flussi sta ingrossando il sommerso: oggi quelli che lavorano senza una regolare posizione contributiva sono almeno 500mila.

Cosa accadeva quando l’Italia era invece fra i principali Paesi di destinazione e accettava di buon grado le regolarizzazioni? La novità della ricerca Inps è nella precisione dei dati a disposizione: la sanatoria di fine 2002 imponeva alle imprese di assegnare a ciascun lavoratore emerso un codice rimasto negli archivi dell’Istituto.

I numeri  

A fine 2003, appena un anno dopo, nove di quei dieci immigrati lavoravano ancora in Italia. Dopo cinque anni erano ancora l’85 per cento. Ma la cosa ancora più sorprendente è che dopo due anni solo il 45 per cento di quel campione era impiegato nella stessa impresa, dopo cinque più di un lavoratore su tre aveva cambiato provincia. «I dati suggeriscono che queste persone erano e sono disposte ad una mobilità che gli italiani non hanno mai avuto», spiega Di Porto. Per intenderci: la probabilità di cambiare impresa per un lavoratore italiano negli ultimi trent’anni è stata appena del 15 per cento. Inoltre «la persistenza nel mercato italiano associata al rapido cambiamento di impresa e residenza dimostra un eccesso di domanda insoddisfatta per mestieri a bassa qualifica». Questi numeri confermano una tendenza che si noterà anche negli anni della crisi. Linda Laura Sabattini dell’Istat ha fatto notare che mentre i posti scendevano nell’industria, nell’edilizia, nel commercio, gli occupati stranieri aumentavano comunque nei servizi alle famiglie e nella ristorazione: riecco la domanda inevasa. L’evidenza dei numeri Inps non solo conferma l’utilità della forza lavoro immigrata, ma smonta un altro falso mito, ovvero la presunta spinta al ribasso dei salari. Nei dati il fenomeno emerge solo nei primi tre mesi: le retribuzioni medie degli emersi fanno scendere di circa il 16 per cento il salario delle imprese che li regolarizzano. Ma in meno di un anno quel gap si chiude. La sanatoria della Bossi-Fini produsse l’emersione di due-tre lavoratori a impresa nell’arco di tre mesi. Sei mesi dopo il numero degli occupati era lo stesso, a dimostrazione che la gran parte delle aziende, se nelle condizioni di farlo, non aveva interesse ad occupare irregolari.

Raccontare con dovizia di dettagli la storia di ieri aiuta a capire cosa fare oggi e domani. Il ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller stima che dall’Italia solo quest’anno potrebbero transitare fino a quattrocentomila persone, il doppio dell’anno scorso, venti volte quelle sbarcate nel 1997. La mera chiusura delle frontiere rischia di scaricare decine di migliaia di Bakari sulle strade italiane. Il ministro Marco Minniti propone di utilizzare i richiedenti asilo nei Comuni e per lavori di pubblica utilità, ma in mezzo a quelle decine di migliaia di persone ci saranno molti migranti economici. Dimenticate per un momento l’esodo di cinque milioni di siriani, o la tragedia della Libia orfana di Gheddafi. Sui barconi che dal Mediterraneo si spingono lungo le cose siciliane ci sono anzitutto migranti in cerca di fortuna. Giovedì scorso a Pozzallo sono arrivate su una nave 428 persone: più di trecento erano marocchini.

Gli emersi dalla sanatoria 2002 erano quasi per la metà (il 45 per cento) dipendenti in due settori, manifattura e costruzioni. Dopo cinque anni quella percentuale era salita al 60 per cento: una conferma in più della tendenza degli immigrati a compensare la scarsa offerta di manodopera. Liliana Ocmim è peruviana, vive in Italia da 25 anni, ha tre figli e fa la presidente del dipartimento immigrati Cisl: «Come è possibile che i giovani italiani all’estero siano disponibili ai lavori umili che qui rifiutano?» La risposta è amara, e dice molto dei problemi del Belpaese.

Immigrati mobili  

Negli anni della crisi la salvezza di quegli immigrati è stata ancora una volta la mobilità: «Molti sono rientrati nel proprio Paese dove hanno trovato il lavoro che qui avevano perso», racconta Mohamed Saady, edile e presidente della Anolf-Cisl. Ocmim allarga le braccia: «Questi numeri confermano quanto siano sbagliate le politiche di chiusura. Più il lavoro è irregolare, più aumenta la concorrenza al ribasso». La ricerca dice una cosa chiara: la sanatoria della Bossi-Fini non fu un regalo a persone poi tornate nell’illegalità, ma un riconoscimento a chi già lavorava in Italia ed è rimasto a lavorare in Italia.

Uno dei luoghi comuni sugli immigrati vuole che siano un salasso per lo Stato. E invece è vero il contrario. Pochi giorni fa a Biennale Democrazia Boeri ricordava che i lavoratori stranieri residenti in Italia versano otto miliardi di contributi sociali all’anno e ne ricevono tre in prestazioni. Vero è che molti di loro domani avranno una pensione, ma non tutti: l’Inps calcola che sin qui gli immigrati hanno regalato al sistema previdenziale 16 miliardi di contributi. Spiega Boeri: «Chiudere le frontiere produce solo tre risultati: più evasione contributiva, schiaccia i salari, aggrava i problemi sociali. Per far sopravvivere l’Europa occorre una politica comune dell’immigrazione, una gestione del problema dei rifugiati e la revisione della convenzione di Dublino. Ma è possibile crederci con i populisti al potere in cinque Paesi dell’Unione?».

(fonte)

Sei incinta? «Pagati il sostituto o ti licenziamo». Succede a Treviso.

Ne scrive qui Silvia Madiotto:

Non si è nemmeno arrabbiata. Stupita, certo, ma non arrabbiata. Come se fosse quasi scontato, come se potesse andare peggio di così. Quando il titolare le ha detto che sarebbe stata lei, incinta di pochi mesi, a dover pagare lo stipendio del suo sostituto per la durata della maternità, e quando le ha detto che in mancanza di questa garanzia avrebbe dovuto rassegnare le dimissioni, ci ha pensato un po’ e ha sospettato che qualcosa non andasse. È stato il sindacato a cui si era rivolta, la Cgil di Treviso, a dirle che non erano ipotesi accettabili e che avrebbe difeso lei e il suo diritto di mamma lavoratrice. Ma rischia di essere solo la punta di un iceberg perché emerge un caso non unico e nemmeno così raro.

La storia è di quelle che lasciano un fondo di amarezza benché si sia risolta nel migliore dei modi. Si svolge in una piccola azienda artigiana del settore cartografico della Marca, due dipendenti, la famiglia coinvolta nella gestione e nella produzione: una sintesi di rapporti umani e professionali paradigmatica nell’imprenditoria del Nordest. Fra i dipendenti c’è anche una venticinquenne apprendista che, qualche giorno fa, comunica al titolare di essere incinta. È una notizia che riempie di gioia una donna ma che, consapevolmente, pone anche dei dubbi su quale sarà la reazione del datore di lavoro. Quante se ne sentono, in giro, fra dimissioni in bianco e contratti non rinnovati a causa di un pancione. La giovane ne parla quindi al titolare che la pone subito davanti a un bivio: «Mi ha proposto che, durante la maternità, dia io a loro i soldi per pagare il mio sostituto – ha raccontato al sindacato -. Mi è parso strano, ma se non lo faccio vogliono che mi dimetta. Altrimenti temo che mi licenzieranno loro». Il suo datore di lavoro infatti ha opposto la spesa che avrebbe dovuto sostenere per anticipare l’Inps, un costo ritenuto insostenibile per l’attività. Nicola Atalmi, membro della segreteria della Cgil, dopo il contatto con la ragazza ha sgranato gli occhi e chiesto subito un incontro con l’artigiano. «La storia ha avuto un happy ending, l’azienda assumerà un sostituto che pagherà mentre la maternità sarà, come da prassi, sostenuta dall’Inps. La cosa che mi ha sorpreso di più è che la lavoratrice non fosse scandalizzata, lo trovava semplicemente strano – spiega -. Il suo contratto di apprendistato, concluso il periodo di prova, le dava il diritto alla maternità ma lei non lo sapeva. E non è un caso unico».

E continua: «Titolari che avanzano richieste inaudite, non solo nei casi di maternità, e pensano che tutti i ragazzi siano disperati al punto da considerare un’opportunità di lavoro come un favore. Chiedono al dipendente di licenziarsi volontariamente per non sostenere ulteriori spese. Ma vengono da noi giovani bisognosi di una massiccia educazione civica sui diritti e sul lavoro. La ragazza in questione non sapeva che una donna incinta non può essere licenziata ed è francamente inaccettabile». C’è un altro elemento che Atalmi evidenzia a partire da questo caso: «Non voleva che usassimo toni troppo duri per non incrinare il rapporto con l’azienda. Le ho fatto notare che se erano arrivati al punto di volerla licenziare, il timore di incrinare ancora di più il rapporto era surreale. Succede spesso che i lavoratori non vogliono arrivare alle vertenze per lo stesso motivo, come se i diritti venissero dopo i rapporti con l’azienda».

Mi terrorizza la ferocia di questi, oltre al terrore

Questa mattina, se mi permettete, non scriverò il mio consueto buongiorno. Quindi non mi dedicherò alle notizia di oggi (da Londra alla bagarre sui vitalizi fino alla prossima celebrazione dei trattati europei) ma vi racconto una sensazione.

Nella casella di posta stamattina molto presto mi è arrivato un messaggio, ovviamente da un profilo Facebook che non è riconducibile a nessuna persona reale: la foto del profilo è un soldato ripreso di spalle e il “nome” una semplice sigla “Dem Ken”. Dice, il messaggio, letteralmente:

«cara zecca, prenditela con gli extracomunitari terroristi, volevi anche tu l’europa dell’accoglienza? eccoti servito!»

Mi sono sforzato di immaginare quale strana connessione possa scattare nell’animo di qualcuno per prendersi la briga di scrivere una frase del genere a un insignificante editorialista, quale sia quell’organo così peloso che possa vomitare in una frase del genere gli accadimenti di Londra.

Poi, per immergermi nella meglio nel cassonetto a toccare con mano il percolato della ferocia, mi sono fatto un giro sulle pagine dei fomentatori professionisti (niente nomi, oggi nessuna pubblicità), ancora:

“Ennesimo attentato terroristico islamico a Londra ci conferma che l’Europa è ormai una fabbrica del terrorismo islamico.
Continuiamo ad importare “arricchimento” culturale…i risultati sono questi”

“QUANDO C’ERA IL FASCISMO MIO PADRE DICEVA SEMPRE TUTTI AVEVANO UN LAVORO E NON C’ERA DELIQUENZA!”

“adesso ho capito perche’ la boldrini vuole dare la cittadinanza ha tutti quelli che arrivano nel nostro paese , cosi risultano italiani quando uccidono qualcuno”

“E adesso ?… I buonisti quale caxxata si inventeranno per l’ennesimo attentato facendo passare per un squilibrato un paranoico ecc. senza ragionare un attimino che questi signori perbene attentatori stanno dichiarando guerra ai fessi della UE fallimentare?”

(continua su Left)

Licenziato dopo un trapianto: bastardi al lavoro

Non è tanto la notizia a provocare la pelle d’oca quanto i commenti: sull’altare della produttività (presunta, tra l’altro, poiché non c’è progresso senza dignità) questo Paese sta scivolando in una patetica deriva di affezione e mitizzazione per i bastardi. E noi chissà se ce ne stiamo accorgendo.

I fatti: Antonio Forchione ha 55 anni e fa l’operaio alla Oerlikon Graziano, un’azienda metalmeccanica di Rivoli (Torino) con 700 dipendenti nella sede piemontese e ben 1500 in tutta Italia. Attenzione: la Oerlikon Graziano era già entrata nelle cronache (quelle melmose) per la “pause collettive” di nove minuti che concede ai propri dipendenti che avevano provocato già un certo disgusto. Ma torniamo a noi: Antonio qualche tempo fa si ritrova con in mano una brutta cartella clinica che gli racconta di un tumore dentro il suo fegato e pochi mesi di vita.

Per fortuna un trapianto riesce ad avere un insperato successo e a gennaio, dopo sei mesi di “malattia”, Antonio ha potuto rientrare in fabbrica. Gli chiedono di usare tutte le ferie arretrate. Accetta. Sa, Antonio, che non potrà rientrare nella sua posizione lavorativa abituale ed è pronto a un demansionamento pur di arrivare alla pensione. Del resto riciclarsi per tornare utili è l’unica strada per molti lavoratori della sua generazioni. L’azienda invece lo licenzia: “inabile al lavoro” c’è scritto nel suo foglio di via.

Inabile al lavoro oggi significa irrimediabilmente inutile. Non ci sono mediazioni. La dignità dell’uomo è tutta nella sua realizzazione. Anche professionale. Così Antonio oggi è ufficialmente “malato”, colpevole di essere guarito. Non c’è posto, tra mille e cinquecento persone, per un trapiantato. Che schifo.

(continua su Left)

Mihai, uomo invisibile: lavoratore in nero morto in cantiere e buttato in discarica

«Stai zitto, non dire niente a nessuno… Bada alla tua famiglia, pensiamo noi a tutto». Meglio farlo scomparire, il cadavere di quel manovale rumeno precipitato dall’impalcatura di un cantiere dalle parti di Venaria Reale, nel Torinese: se lo avessero visto i carabinieri, le rogne sarebbero state inevitabili. Assunto al nero; e poi quella caduta dovuta alla mancanza di imbracature mentre, con un martello pneumatico, era alle prese con la «stonacatura» delle pareti di una villetta da ristrutturare. Ecco perché, durante una mattina del giugno 2009, il corpo senza vita di Mihai Istoc, 45 anni, la moglie e i due figli rimasti ad attenderlo in Romania, venne gettato — come fosse un sacco di spazzatura, e non uomo — dai due titolari dell’impresa edile sotto un divano lasciato in una discarica abusiva tra i boschi dell’Astigiano. Dove dieci giorni dopo venne trovato dai cani di due cacciatori di cinghiali che si erano avvicinati per controllare da dove venisse «quel fetore nauseabondo» nell’aria.
Per quattro anni quello di Mihai rimase un cadavere senza nome. Un fantasma sconosciuto all’anagrafe. Sulla lapide unicamente quelle due lettere: «N. N», non nominato. Una storia non differente da altre che si ripetono in tutta Italia: se si muore sul lavoro, e se non c’è contratto, può capitare che il cadavere sparisca per evitare noie giudiziarie.

Il test del Dna

Se questa volta c’è stato un finale differente, ma pur sempre amaro, è grazie alla testardaggine degli investigatori coordinati dalla procura di Asti. E al test del Dna che ha svelato e ridato dignità a nome e cognome altrimenti nell’oblio. Ma nella motivazione della sentenza — quella del 28 novembre e depositata nella cancelleria del tribunale pochi giorni fa — che in primo grado ha condannato per occultamento di cadavere i due costruttori, Antonino Marino e Vittorio Opessi, emerge anche il risvolto della brutta storia di una «morte bianca» condannata a restare seppellita se, appunto, i cani non avessero trovato quel corpo senza vita.
Nulla sembrava aiutare a riconoscere l’identità. Il cadavere scarnificato, mangiato dai cinghiali. Il volto riposto e schiacciato — si legge nel dispositivo pubblicato da La nuova provincia — per meglio nasconderlo, sotto quel divano portato dal cantiere. Senza documenti nelle tasche.

La svolta nel 2012

La svolta del caso arrivò nel 2012, quando l’Interpol segnalò alle autorità italiane la scomparsa del manovale. Una nota vagliata con attenzione dal procuratore di Asti Giorgio Vitari e dal pm Maria Vittoria Chiavazza che decisero di riaprire quel fascicolo a un passo dall’archiviazione. Le denunce di sparizione di tutto il Piemonte vennero ricontrollate una ad una dai carabinieri, individuando possibili collegamenti con la scomparsa del muratore uscito di casa a Torino per cercare un lavoro in cantiere. Sveglia puntata all’alba, nella speranza di essere reclutato al «mercato delle braccia» da un «caporale» per una paga non superiore ai trenta, quaranta euro al giorno. Senza orari, dieci, dodici ore filate. Senza regole, al nero. E senza la certezza di essere pagati. Abitudini vigenti in tutto lo Stivale, tanto al Nord quanto al Sud: il «soldo» pattuito viene pagato a fine lavoro per due terzi. Poi il datore scompare, si nega alle telefonate. «Chi insiste, viene allontanato a spinte dai cantieri, minacciato con la pistola, oppure picchiato. E se per caso hai un malore oppure un infortunio – racconta Marco Bazzoni, uno degli animatori di «Articolo 21», associazione che si occupa di diritti del lavoro – devi stare zitto. E pregare che tu non abbia bisogno di un ospedale, perché altrimenti diventi un problema pesantissimo per i padroncini per cui lavori».

L’ultimo a vederlo fu il fratello

Appunto, un problema per chi ti paga: quel che era divenuto il povero Mihai, ora «solo» un corpo senza vita. L’ultimo a vederlo fu il fratello, che ne denunciò la sparizione. Poi una prima svolta nelle indagini. Il volto del manovale somigliava a quello ricostruito al computer dalla polizia scientifica. Il test del Dna fornì la conferma. I carabinieri scandagliarono tutti i contatti di Istoc, fino a giungere ad un altro manovale romeno. Decisivo al processo, con la sua testimonianza. I due erano amici, e per il pranzo volevano vedersi per consumare un panino assieme. Sotto interrogatorio, fu lui a dire di aver trovato il connazionale: «L’ho raggiunto al cantiere vicino a quello presso cui lavoravo io. Era morto». Mihai era caduto da un’impalcatura, sbattendo violentemente la testa. Era su un ponteggio, senza cinture di sicurezza e imbracature.

«Pensa alla famiglia, stai zitto»

Stando alla testimonianza raccolta dagli inquirenti, i datori di lavoro di Istoc giunti poi in cantiere, avrebbero detto al rumeno di scomparire, intimidendolo. Appunto: «pensa alla famiglia, stai zitto, ci occupiamo noi di tutto». Fatti sparire in qualche modo i documenti e il cellulare del morto, avrebbero architettato la «messinscena», come la definisce Antonio Foti, l’avvocato del testimone. Il cadavere di Mihai venne caricato su un divano preso dal cantiere — probabilmente per meglio trasportare il corpo privo di vita — e gettato, dopo essere andati via in automobile, in quella discarica nell’Astigiano, a una sessantina di chilometri da Venaria Reale e nelle vicinanze dell’abitazione della madre di un dei due costruttori. Poi il passaggio di quei cacciatori, l’indagine che riprende. Un nome e un cognome che vengono riassegnati ad un corpo senza nome. «Ma c’è ancora un rischio – osserva amaro Carlo Soricelli, direttore dell’Osservatorio indipendente di Bologna morti sul lavoro -. E cioè che questo povero lavoratore rimanga uno dei tanti morti che spariscono dalle statistiche, solo perché non assicurate e prive di contratto».

(fonte: Fulloni per il Corriere della Sera qui)

V come voucher: ecco i numeri (ragionati)

Un lavoro enorme di Davide Serafin per Possibile. Una risposta a chi dice che per valutare i voucher bisogna aspettare i numeri. Come scrive Davide (qui):

I numeri, alcuni, importanti, ci sono già. Non serve aspettare. Avete qualche dubbio, cari ministri? L’INPS ha già fatto un importante lavoro di raccolta e analisi dei dati. Li abbiamo messi insieme e interpretati.

voucher_1_1_def

(potete scaricarlo qui)