Vai al contenuto

Lavoro

«Caro ministro Poletti, all’estero non l’avrebbero mai assunta»

di Andrea Casadio

“Se centomila giovani se ne sono andati dall’Italia, non è che qui sono rimasti 60 milioni di ‘pistola’. Conosco gente che è andata via e che è bene che stia dove è andata, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Quando ho letto queste parole pronunciate dall’improvvido ministro del Lavoro Giuliano Poletti, ho provato una rabbia e una delusione profonda. Per tre motivi: perché sono un ex-cervello in fuga (ho lavorato per anni alla Columbia University di New York come neuroscienziato, scappando dall’Università italiana), perché ora sono un giornalista e in quanto tale mi occupo di dati e delle storie delle persone, e perché sono uno di sinistra, un progressista.

Poletti, compagno Poletti, ma come si fa a dire una boiata del genere? E non me ne frega nulla delle sue precisazioni tardive. Provi solo un secondo ad immaginare di avere di fronte un ragazzo che è dovuto scappare a Londra a fare il cameriere o il pizzaiolo per trovare un lavoro decente, o uno come me che è fuggito a fare ricerca alla Columbia University di New York perché di lavorare come ricercatore a 1000 euro al mese fino ai cinquant’anni non ne avevo nessuna voglia. Preferisce non averci tra i piedi? Forse ha ragione, perché se l’avessi davanti, io le vorrei porre alcune domande, il pizzaiolo forse le darebbe una randellata in testa con la pala per le margherite.

Caro ministro, ma lei conosce l’Italia, studia, si applica? Credo di no. Guardi questa tabella.

In Italia si laurea solo il 20 per cento della popolazione, meno della metà dei Paesi civili. Oltretutto, chi ha una laurea in Italia è costretto spesso a fare un lavoro che non c’entra niente coi suoi studi. Conosco una marea di giovani che sono laureati in Lettere e lavorano in un call center a 300 euro al mese, o in Legge che fanno i camerieri. Tra i miei amici statunitensi, tutti hanno un lavoro adeguato al loro corso di studi: chi ha la laurea in Ingegneria fa l’ingegnere, chi ha la laurea in Cinema lavora nel cinema, ecc.

Ministro, guardi i dati e mi spieghi, per favore. Da noi si laurea la metà o un terzo dei giovani che si laureano in Gran Bretagna o negli Usa. Lo capisce che se già il misero 20 per cento dei laureati non trova lavoro intellettuale vuol dire che in Italia i posti di lavoro per un lavoro intellettuale non ci sono? Quindi, il problema non è che ci sono troppi laureati (no, sono troppo pochi), è che il mercato del lavoro intellettuale non offre sbocchi, e per questo un giovane laureato è costretto a fuggire all’estero. In altre parole, siamo diventati un paese dove c’è bisogno solo di meccanici, contadini e pastori. Ma per fare quello ci sono già i marocchini, i nigeriani e i rumeni che paghiamo 3 o 4 euro l’ora, magari con i voucher o addirittura in nero. Cioè siamo diventati un paese retrogrado, di azienda manifatturiera, agricoltura e pastorizia, come il Bangladesh o la Colombia. Niente di male, ovviamente, ma basta saperlo.

Lo sa, caro ministro, che negli Usa il 50 per cento dei ragazzi si laurea e la disoccupazione giovanile è al 4 per cento, mentre da noi si laurea il 20 per cento, ma la disoccupazione giovanile è al 36 per cento?

E con il lavoro manuale non siamo messi meglio. Forse, caro ministro, doveva venire con me a Monfalcone, davanti ai cancelli della Fincantieri. Doveva incontrare l’operaio Giampaolo, 29 anni di lavoro sulle spalle, che in lacrime, mentre fiumane di lavoratori uscivano dalla fabbrica, mi ha confessato: “Questa sinistra non mi rappresenta più. Cos’è la sinistra oggi? Guarda: questi operai, oggi ci sono, domani non ci sono più. Chi ci pensa a noi?”. E mi ha spiegato che solo 850 – dei 10.000 operai di Monfalcone – sono assunti a tempo indeterminato direttamente da Fincantieri, mentre tutti gli altri lavorano in ditte terziste che ti assumono con i voucher o con contratti di un giorno, una settimana o un mese (la famosa flessibilità) per paghe da fame di 800-1000 euro al mese. Solo i tanti bengalesi, rumeni o croati possono accettare questi salari da fame, perché vivono in dieci in un appartamento o scappano appena possono a casa loro, oltre-confine. Per questo, molti ragazzi italiani fuggono da Monfalcone e vanno all’estero. E nel resto d’Italia è lo stesso.

In Italia, caro ministro, la scuola è fallita e il sistema lavoro fa ancora più schifo, lo sa? No, forse non lo sa. Perché ho come l’impressione che lei il mercato del lavoro non lo ha mai dovuto affrontare davvero. Guardi, questo è il suo scarno curriculum.

Niente laurea, lei è un perito agrario, ma mica è un problema, siamo abituati ai ministri non laureati. Ehi, non fraintenda: è perfino superfluo dire che io apprezzo e ammiro chiunque, laureato e non laureato. Don’t judge a book from its cover, direbbero all’estero. Capisce cosa vuol dire? Lo sa l’inglese? Credo di no. Mi pare di capire dal suo curriculum che il suo cursus honorum si è svolto tutto tra le protettive e accoglienti braccia del partitone emiliano, quello di sinistra, quello che pensava ai giovani e ai lavoratori. Forse lei non ha mai dovuto emigrare per trovare lavoro, non ha mai dovuto imparare in fretta una lingua straniera perché se non capiva le ordinazioni la licenziavano, non ha mai dovuto sottoporsi all’esame di una decina di spietati professori anglosassoni che valutavano i tuoi lavori scientifici con il crivello e poi ti dicevano di preparare una lezione in inglese in due ore.

Ecco, a uno come me, a uno come il mio amico Ottavio – che ora è professore alla Columbia University -, o al mio amico Giancarlo – che era lavapiatti e ora ha una catena di ristoranti e fa le tagliatelle più buone di New York, lei ha detto che: “E’ bene che stiano dove sono andati, perché sicuramente questo Paese non soffrirà a non averli più fra i piedi”. Che rispetto per i lavoratori, proprio da illuminato uomo di sinistra.

Sa cosa penso? Che uno come lei, per dire, alla Columbia University di New York (Usa) dove ho lavorato io, non l’avrebbero mai preso, e neanche al Ristorante Ribalta di New York, guarda caso. Caro compagno Poletti, ma non è che le brucia perché col suo curriculum le è già andata grassa che l’hanno preso alla Legacoop di Budrio (Italy) e poi è persino diventato ministro?

In Italia aumentano gli stipendi (degli amministratori delegati delle società quotate)

Lo stipendio medio degli amministratori delegati di società quotate in Italia è stato nel 2015 di 1.660.000 euro all’anno, in crescita rispetto al 2014, quando è stato di 1.483.854 euro, e al 2013, quando è stato di 1.451.435 euro. I dati emergono dall’Italy Board Index 2016 di Spencer Stuart. Il rapporto analizza le prime 100 società quotate in Italia.

La media dei compensi all’anno totali dei presidenti nel 2015 è stata di 887 mila euro. Il valore massimo è di 5.387.000 euro, quello minimo a 15 mila euro. Un terzo dei presidenti percepisce oltre un milione di euro. Riguardo il compenso medio dei presidenti, l’Italia si posiziona al secondo posto dopo la Svizzera (2.148.120 euro) e prima della Francia (560.666 euro).

Il valore medio a livello europeo dei compensi totali dei presidenti è pari a 457.743. Il numero degli amministratori delegati con retribuzioni oltre il milione di euro è pari al 62% del panel analizzato.

(fonte Ansa qui)

Pazza idea: evitare il referendum sul Jobs Act

Ne scrive Luca Sappino su Left qui:

La bomba l’ha sganciata Poletti, svelando ciò che Left aveva tristemente subodorato – tant’è che sul prossimo numero in edicola, Tiziana Barillà chiede direttamente a Maurizio Landini cosa farà se il Pd dovesse spingere per far finire la legislatura anticipatamente, con una tempistica utile a far slittare il referendum sul jobs act, quello sui voucher e gli altri quesiti “sociali” su cui la Cgil ha raccolto oltre tre milioni di firme. Perché questa, dice Poletti, è l’idea dei più. «Mi sembra», ha detto il ministro ai cronisti, «che l’atteggiamento prevalente sia quello di andare a votare presto. E se si dovesse andare ad elezioni anticipate diventa ovvio che per legge l’eventuale referendum sul jobs act sarebbe rinviato».

[…]

La legislatura, insomma, dovrebbe finire prima di aprile. O prima della data che si assegnerà alla consultazione. Questo perché la legge 352 del 1970 stabilisce che «ricevuta comunicazione della sentenza della Corte costituzionale, il Presidente della Repubblica, su deliberazione del Consiglio dei Ministri», indica con decreto il referendum, fissando la data di convocazione «in una domenica compresa tra il 15 aprile e il 15 giugno». E però, «nel caso di anticipato scioglimento delle Camere», continua la legge, ben chiara nella testa di Poletti, «il referendum già indetto si intende automaticamente sospeso», destinato a slittare ben un anno dopo, almeno, le elezioni. Renzi, così, non rischierebbe di veder demolita, dopo la riforma costituzionale, un’altra sua legge-manifesto.

(l’articolo completo è qui)

Povertà in Italia: +141% in dieci anni

(di Michela Scacchioli per Repubblica)

Si è allargata a macchia d’olio. Ha finito col mettere in ginocchio intere famiglie. Ha snervato e fiaccato i giovani. Ed è più che raddoppiata nell’arco degli ultimi dieci anni. Un balzo drammatico, da capogiro: più 141 per cento. Il suo nome è povertà. Una realtà messa in luce – con tutta l’evidenza possibile – dagli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre scorso.

INFOGRAFICA Welfare e disuguaglianze sociali in Italia

Oggi, infatti, 4,6 milioni di persone vivono nell’indigenza assoluta: quasi l’8% della popolazione residente in Italia. Basti pensare che erano poco meno di 2 milioni nel 2005 (il 3,3% del totale). Un incremento che non ha risparmiato nessun’area della penisola: al nord il numero dei bisognosi è addirittura triplicato. Qualche numero? Sempre nel 2005 i poveri erano 588mila al nord e poco più di un milione al sud mentre adesso sono rispettivamente 1,8 e 2 milioni circa. Persone che non possono permettersi spese essenziali come quelle per gli alimenti, la casa, i vestiti, i mezzi per spostarsi né le medicine.

(naviga nei grafici interattivi per visualizzare i dati – fonti: Istat ed Eurostat)

E il profilo di chi si è indebolito oltre ogni misura ci restituisce un quadro degli effetti causati dalla crisi (economica e occupazionale) iniziata nel 2008: quella che gli esperti chiamano ‘grande recessione’ e che ha cambiato il panorama sociale del nostro Paese.

Quando il lavoro non basta. Secondo i dati elaborati da Openpolis (in collaborazione con ActionAid) per Repubblica.it, la probabilità di essere poveri è cresciuta soprattutto tra chi si trova ai margini del mercato del lavoro, come i giovani e coloro che sono in cerca di occupazione. Ma il dato che emerge con prepotenza è che spesso il lavoro – per come si è configurato dopo la crisi – a volte non basta a mettere al riparo da ristrettezze e immiserimenti. Tra le famiglie operaie, ad esempio, il tasso di povertà è salito dal 3,9 all’11,7 per cento. E, con la crisi, il rischio di finire in miseria è aumentato per i lavoratori in 7 Stati Ue su 10. L’Italia è il quarto Paese in cui è cresciuto di più: nel 2005 erano a rischio povertà 8,7 lavoratori su 100, nel 2015 sono diventati 11. Fanno peggio di noi Germania, Estonia e Bulgaria. Tra i lavoratori tedeschi il medesimo rischio è aumentato di oltre 5 punti percentuali. Migliora la situazione in diversi Paesi dell’est Europa, tra cui Polonia, Slovacchia e Ungheria.

In parallelo all’aumento dei poveri, cresce anche il numero di persone che lavorano poche ore a settimana.

Accanto, poi, a tendenze consolidate a livello europeo, si registrano alcune particolarità tutte italiane. Tipo: il più alto tasso di giovani che non studiano e non lavorano (Neet) e una delle più basse percentuali di donne che continuano a lavorare dopo la maternità. Una combinazione che ha impoverito in particolare le famiglie giovani e numerose. Senza risparmiare, purtroppo, i più piccoli: sono quasi raddoppiati i bambini sotto i 6 anni che vivono in una condizione di grave privazione materiale. Per dire: in punti percentuali, solo la Grecia ha registrato un incremento maggiore rispetto all’Italia .

Di certo c’è che dopo oltre 8 anni di crisi economica, la povertà non può più essere considerata un fatto straordinario che riguarda pochi sfortunati. Ha numeri da fenomeno di massa, e il nostro welfare – concepito in un altro momento storico – sembra poco efficace per contrastarla. “Poche risorse vengono destinate alle famiglie in difficoltà, ai senza lavoro e in generale alle situazioni di disagio – sottolinea Openpolis -. Le misure contro l’esclusione sociale sono diverse e frammentate, a volte temporanee, prive di un disegno organico che le tenga insieme”. Un progetto di legge già approvato alla Camera a luglio – e dunque ben prima della crisi di governo – vuole razionalizzare questi interventi e ricondurli verso una misura universale che, a regime, dovrebbe valere 1,5 miliardi di euro per oltre un milione di persone. Un passo in avanti rispetto agli anni scorsi, ma che esclude ancora oltre 3 milioni di cittadini.

Povertà relativa. Oltre alla povertà assoluta “ci sono anche altri modi per contare quante siano le persone in ristrettezze economiche, ma tutti gli indicatori mostrano la stessa tendenza. Il principale metodo alternativo è contare gli individui che si trovano in povertà relativa”. In questo caso il discrimine tra povero e non povero non è la capacità di acquistare un paniere di beni essenziali, ma una linea di povertà convenzionale, che per l’Istat è la spesa media per consumi pro capite. Se si contano le persone al di sotto della linea di povertà relativa, i poveri sono 8,3 milioni, vale a dire il 13,7% della popolazione (contro l’11,1 del 2005).

Rischio esclusione sociale. Ancora più ampio il numero di persone a rischio povertà o esclusione sociale. In questo caso agli individui a basso reddito vengono sommati coloro che vivono in situazioni di grave privazione materiale oppure in famiglie a “bassa intensità di lavoro”. Secondo l’Eurostat, tra 2005 e 2015 la quota di popolazione a rischio povertà o esclusione sociale è passata dal 25,6% al 28,7 per cento. In tutta l’Unione europea, l’Italia ha registrato un peggioramento inferiore solo a quello di Grecia, Spagna e Cipro. Il rischio è cresciuto anche in Svezia e Germania, mentre diminuisce in Francia e Regno Unito. Si registra una forte diminuzione nei paesi dell’Est europeo, che partivano però da situazioni di maggiore disagio.

Le famiglie povere. La quota di famiglie in povertà assoluta è quasi raddoppiata. Erano 819mila nel 2005, mentre oggi sono quasi 1,6 milioni, con un balzo dal 3,6 al 6,10%. Su 100 famiglie, 6 non possono permettersi un tenore di vita accettabile. Ma il disagio è ancora più vasto secondo altri indicatori: il 38,6% delle famiglie non può far fronte a spese impreviste (erano il 29% nel 2005). Sono aumentate del 65% quelle che non possono permettersi di riscaldare la propria abitazione e dell’81% quelle che non consumano pasti proteici almeno 3 volte a settimana.

In quali professioni crescono i poveri. I nuclei familiari più in difficoltà sono quelli in cui la persona di riferimento è un operaio o è in cerca di occupazione. Le famiglie che dipendono da una persona che sta cercando lavoro in un caso su cinque non possono permettersi uno standard di vita accettabile. Come si diceva, tra le famiglie operaie il tasso di povertà assoluta è triplicato rispetto al 2005, passando dal 3,9% all’11,7% del 2015. È più che raddoppiata la probabilità di trovarsi in povertà assoluta se il capofamiglia è un lavoratore autonomo, mentre è diminuita se si è ritirato dal lavoro. La stessa probabilità rimane contenuta per le famiglie dei colletti bianchi, ma rispetto al 2005 è aumentata di quasi dieci volte.

Quanto lavorano gli occupati. Gli oltre 22 milioni di occupati italiani non sono tutti lavoratori a tempo pieno. Per l’Istat è sufficiente un’ora di lavoro a settimana per essere considerati occupati. In diversi casi una situazione lavorativa precaria o part-time può essere il fattore scatenante di una condizione di povertà. Rispetto al decennio scorso, aumentano coloro che lavorano poche o pochissime ore a settimana: il numero di chi è occupato meno di dieci ore è cresciuto del 9% dal 2005, e salgono addirittura del 28% quelli che lavorano tra le 11 e le 25 ore. I lavoratori pagati con i voucher erano meno di 25mila del 2008, sono saliti a quasi 1,4 milioni nel 2015.

Forbice generazionale: com’è cambiata. Fino al 2011 non c’erano grandi differenze tra le varie fasce d’età, e i più poveri erano gli over 65 (circa 4,5% si trovava in povertà assoluta). La crisi, distruggendo posti di lavoro e riducendo le opportunità di impiego, ha capovolto questa situazione. In un decennio il tasso di povertà è diminuito tra gli anziani (4,1%) – molti di loro possono contare su un reddito fisso – mentre è cresciuto nelle fasce più giovani: di oltre 3 volte tra i giovani adulti (18-34 anni) e di quasi 3 volte tra i minorenni e nella fascia tra i 35 e i 64 anni.

I Neet e il rischio povertà. I Neet sono i giovani che non studiano, non lavorano e non sono in formazione. A livello europeo gli Stati dove è più alta la percentuale di Neet sono anche quelli dove è più alto il tasso di povertà giovanile. In Italia nella fascia d’età tra i 15 e i 29 anni i Neet sono il 15% e i giovani a rischio povertà il 32,2 per cento. In Austria meno del 5% dei giovani sono inattivi e il rischio povertà si ferma al 15,2 per cento. In Bulgaria al 16,5% di Neet corrisponde un rischio povertà pari al 46,1 per cento.

La difficoltà economica nelle famiglie giovani. Nel 2015 le famiglie più giovani sono anche quelle più povere. Non può permettersi uno standard di vita dignitoso una famiglia su dieci tra quelle con capofamiglia sotto i 34 anni. Si trova in povertà assoluta circa l’8% delle famiglie all’interno delle quali la persona di riferimento ha tra i 35 e i 54 anni, mentre in quelle dove supera i 65 anni la percentuale si riduce al 4 per cento. Rispetto al 2005, il tasso di povertà assoluta è aumentato di 3 volte quando il capofamiglia ha meno di 55 anni, è cresciuto di 2,7 volte quando ha tra i 55 e i 64 anni, mentre è diminuito nei casi in cui ha più di 65 anni.

La povertà infantile. La quota di bambini in situazioni di grave disagio materiale è cresciuta, con la crisi, in 7 Paesi europei su 28. Dopo la Grecia, dove oggi oltre un bambino sotto i 6 anni su cinque vive una condizione di grave privazione materiale, l’Italia è il secondo paese dove è aumentata di più la povertà infantile (+5,3 punti percentuali tra 2006 e 2015). Nel nostro Paese l’11,4% dei bambini sotto i 6 anni vive una grave privazione materiale, ma la situazione è anche peggiore in Bulgaria (33%), Romania (29,6%), Ungheria (21,2%), Grecia (20,7%), Cipro (16%), Lettonia (13,3%) e Croazia (11,6%).

Povertà di genere. Il numero di donne che vivono in povertà assoluta è più che raddoppiato tra 2005 e 2015, un andamento coerente con quello del resto della popolazione. Nel 2005 viveva in povertà assoluta il 3,5% delle donne, percentuale molto simile a quella di tutti i residenti in Italia (3,3%). Una quota che nel 2009 era salita al 4%, sia per le donne che per l’intera popolazione. Nel triennio successivo per le donne si arriva fino al 5,8%, per poi superare il 7% nel 2013, livello su cui si attesta anche nel 2015. Questo dato complessivo nasconde ulteriori situazioni di disagio sociale che riguardano in particolare il genere femminile. Continuano a emergere la difficoltà di conciliare lavoro e famiglia e la differenza salariale tra i sessi – il gender pay gap – che, seppure più contenuta rispetto ad altri paesi europei, in Italia ha registrato uno dei maggiori aumenti durante la crisi. Il divario nelle retribuzioni è peggiorato in cinque Paesi e l’Italia è tra questi. Gli altri sono Portogallo, Lettonia, Bulgaria e Spagna.

La difficoltà economica nelle famiglie numerose. La scarsa partecipazione femminile al mercato del lavoro e la minore retribuzione rispetto agli uomini si riflettono anche nella povertà familiare, perché questo spesso significa dover contare su un solo stipendio. In effetti la povertà assoluta è cresciuta molto nelle famiglie, in particolare in quelle numerose. Tra quelle con tre o più figli, quasi il 20%, cioè quasi una su cinque, non può permettersi un livello di vita dignitoso (erano il 6,9% nel 2005). La presenza di anziani, di solito pensionati, tende a ridurre il tasso di povertà familiare. Le donne sole incontrano ancora più difficoltà. Si trova in stato di grave privazione materiale il 19,8% delle famiglie rette da una madre single con figli.

L’offerta di asili nido. Se la povertà delle famiglie – che è in crescita – dipende anche dalla difficoltà delle donne di accedere al mercato del lavoro, una delle cause è la mancanza di politiche che lo permettano. A cominciare dalla presenza degli asili nido sul territorio nazionale. Nell’arco di dieci anni è aumentato il numero di bambini potenzialmente coperti da questo servizio. Nel 2012 quasi l’80% dei bambini con meno di due anni viveva in un Comune in cui è presente un asilo nido (erano il 63,6% nel 2003). Ma spesso queste strutture non sono sufficienti. La percentuale di iscritti, pur in crescita, resta bassa: oltre l’88% dei bambini tra 0 e 2 anni non frequenta l’asilo nido.

Il welfare: quanto è capace di ridurre la povertà? Spesa in protezione sociale, l’Italia è quinta su 28 stati dell’Unione europea. Eppure la capacità del nostro Stato sociale di incidere sulla povertà è inferiore a molti altri Paesi. La ragione è che la stragrande maggioranza di questa spesa in Italia è impegnata nelle pensioni di anzianità e reversibilità.

Resta molto limitato il welfare dedicato alla fasce sociali che negli anni della crisi hanno visto aumentare il proprio disagio economico. Le spese per famiglie, bambini e diritto alla casa valgono solo il 6,5% della protezione sociale italiana, contro il 10% della Germania, il 14% della Francia e il 18% del Regno Unito. Per la tutela dalla disoccupazione e dal rischio esclusione, l’Italia spende il 6,5% del budget sociale, contro l’11-12% di Germania, Francia e Regno Unito e il 15,8% della Spagna. Tradotto: i gruppi sociali che in Italia hanno subìto di più la crisi ricevono meno contributi rispetto ad altri Paesi europei.

 Il rischio povertà prima e dopo il welfare. Un modo per valutare la capacità del welfare di sottrarre la popolazione dalla povertà è confrontare il rischio povertà prima e dopo i trasferimenti sociali. I Paesi dove l’indigenza diminuisce di più (in punti percentuali) sono Ungheria (-35,1), Irlanda (-33,2) – dove però prima dei trasferimenti un cittadino su due si trovava a rischio povertà – e Francia (-31,1). In questa classifica l’Italia è 17esima su 28 stati: nel nostro Paese il rischio povertà diminuisce di 26,4 punti dopo i trasferimenti sociali. Agli ultimi posti Malta (-21,9), Lettonia (-20,5) e Estonia (-19,1).

Gli stipendi più bassi d’Europa occidentale? In Italia.

Se la ripresa non decolla la colpa è anche degli stipendi che in Italia restano i più bassi dell’Europa occidentale. Peggio fanno solo Spagna e Portogallo che però si possono consolare con un maggior potere d’acquisto. A mettere i numeri nero su bianco è Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, che in un recente report ha fatto il punto sulle retribuzione del Vecchio continente. La paga media oraria in Italia si ferma a 12,5 euro con un potere d’acquisto pari a 12,3 euro: all’interno dell’Unione europea la media si attesa a 13,2 euro l’ora, ma il dato è condizionato dai bassi salari dei Paesi dell’est entrati nella Ue dopo il 2004. Basti pensare, per esempio, che in Bulgaria il salario orario si ferma a 1,7 euro e in Romania arriva a 2 euro: in entrambi i Paesi, però, il potere d’acquisto è più alto.

Insomma l’Italia resta il fanalino di coda del Vecchio continente condannata a guardare da lontana la ricca Germania, i paesi scandinavi e persino la vicina Francia dove gli stipendi medi arrivano a 14,9 euro. E’ quindi solo una magra consolazione il fatto che lungo la Penisola gli stipendi bassi non siano così tanti rispetto alla media. Sempre secondo Eurostat i lavoratori italiani a basso reddito sono “solo” il 9,4%: si tratta dei dipendenti con un salario orario inferiore ai due terzi della paga oraria. La percentuale italiana è la più bassa della zona euro dopo Francia (8,8%), Finlandia (5,3%) e Belgio (3,8%), mentre la media continentale è al 17,2%.
Il semplice dato può anche sembrare positivo lasciando intendere che in Italia non ci siano troppe disuguaglianze sul fronte degli stipendi. Il problema, tuttavia, c’è ed è evidente: la soglia del basso reddito lungo la Penisola è inferiore a tutte le altre economie comparabili: siamo a 8,3 euro all’ora in Italia, 10 euro in Francia, 10,5 euro in Germania, 13,4 in Irlanda, 9,9 nel Regno Unito, 10,7 in Olanda e 17 in Danimarca. Si scende a 6,6 euro in Spagna, poi è bassissima in Bulgaria (1,1) euro, Romania (1,4 euro), Portogallo (3,4), Slovacchia (2,9), Lettonia e Lituania (2,2), ma sono tutti Paesi che vantano un più alto potere d’acquisto.

A livello assoluto, invece, rimangono pronfonde differenze: il 21,1% delle donne è a basso reddito, contro il 13,5% degli uomini. Inoltre, quasi un uno su tre (30,1%) degli under-30 rientra nella categoria, mentre tra 30 e 59 anni vi ricadono solo quattordici dipendenti su cento.

(fonte)

Intanto, il lavoro.

18% in meno di contratti a tempo indeterminato avviati e +10,8% di licenziamenti rispetto al 2015. Ecco i dati del terzo trimestre 2016 secondo il Ministero del Lavoro. Ecco i dati:

(grazie a Francesco Seghezzi)

Qui, dove le aziende stropicciano le mamme

(bel pezzo di Paolo Fantauzzi per L’Espresso)

Non aspettare la cicogna” recita lo slogan del ministero della Salute ideato per il Fertility day. A 37 anni, e dopo numerosi tentativi, Antonella(il nome è di fantasia) si era decisa: andare in Spagna per coronare il sogno di diventare mamma. Ma come ha iniziato le pratiche per l’inseminazione artificiale, al lavoro sono iniziati i guai. Dopo quattro mesi di malattia segnati da ricorrenti attacchi d’ansia dovuti al trattamento e dopo aver comunicato l’intenzione di sottoporsi a un nuovo ciclo di terapia ormonale, è arrivata la lettera di licenziamento. Motivo: “il progetto futuro ed incondizionato di assentarsi periodicamente”, tale da provocare “notevoli danni e costi per straordinari”. Dopo un calvario giudiziario durato anni, nei mesi scorsi la Cassazione ha confermato la nullità del provvedimento: è discriminatorio cacciare un’impiegata che ha manifestato l’intenzione di sottoporsi a un intervento di fecondazione in vitro.

Come mostra la recente legge contro le “dimissioni in bianco”, gli sforzi per tutelare l’occupazione, specie quando riguarda le donne, non mancano. Solo che nella quotidianità tanti buoni propositi vengono resi carta straccia da principali interessati unicamente al tornaconto personale, capaci di aggirare le norme o piegarle a loro vantaggio. Furbetti che sfruttano le dipendenti facendole lavorare durante la gravidanza o impongono condizioni tali da spingerle alle dimissioni non appena rientrano dalla maternità obbligatoria, fra demansionamenti, trasferimenti e permessi negati pure quando spettano di diritto. L’obiettivo è sempre lo stesso: rendere la vita difficile e far mollare l’impiego. Anche le fortunate neo-mamme con un contratto stabile, infatti, sono protette fino al primo anno di vita del bambino. Dal giorno dopo possono diventare carne da macello. E spesso lo diventano.

I numeri del ministero, in aumento, confermano la difficoltà di conciliare l’occupazione con la prole. Tanto da spingere molte madri a dimettersi. Senza considerare quelle precarie, alle quali basta non rinnovare il contratto

Un fenomeno praticamente impossibile da censire, perché per qualche vicenda che finisce davanti a un giudice ce ne sono centinaia che rimangono nel silenzio, senza denunce né vertenze sindacali. Anche perché le vie legali sono spesso impervie: per dichiarare nullo un licenziamento occorre dimostrare che la discriminazione è la motivazione prevalente e l’onere della prova spetta al lavoratore.

MATERNITÀ SENZA RIPOSO
Al tribunale di Roma, ad esempio, è in corso una causa che – se confermata negli addebiti – aprirebbe una nuova frontiera all’astuzia datoriale: una dipendente stabilizzata al quarto mese di gravidanza ma costretta lavorare durante il congedo di maternità, mentre l’Inps le pagava gran parte dello stipendio. «All’inizio non mi pareva vero, ero felicissima del contratto. Poi ho capito» racconta Alessandra (nome di fantasia): «Continuavano a darmi cose da fare, nonostante nelle ultime settimane fossi costretta a restare stesa sul divano. Inoltre anche dopo il parto pretendevano che fossi reperibile pure di notte, con la piccola che si svegliava appena suonava il telefono».

Alessandra ha prodotto chat e mail aziendali a sostegno delle sue argomentazioni, l’azienda controbatte che ha fatto tutto di propria iniziativa, visto che il contratto indicava il domicilio come luogo di lavoro, e senza che nessuno le avesse chiesto alcunché. Lei intanto ha denunciato la vicenda all’Ispettorato del lavoro e all’Inps e ci sono accertamenti in corso per verificare l’ipotesi di truffa ai danni dello Stato. Tra l’altro pure un’altra dipendente, assunta incinta a tempo determinato e non rinnovata poco dopo lo scadere della maternità, sarebbe stata impiegata durante il congedo.

LA MADRE VIAGGIATRICE
Uno dei metodi più ricorrenti per indurre una neo-mamma a lasciare il posto è tuttavia il trasferimento. Come accaduto a Mariangela, spostata a 150 chilometri dalla sede originaria tre giorni dopo il primo compleanno di suo figlio, al termine della tutela garantita dalla legge. Motivo: il presunto calo del fatturato nel negozio in cui lavorava. Lei si rifiuta, contesta le motivazioni e dopo le sanzioni disciplinari arriva il licenziamento. Che la Corte d’Appello di Torino ha però ritenuto discriminatorio: l’azienda, che nel frattempo aveva assunto altri due dipendenti nel punto vendita, è stata condannata a reintegrarla e a pagarle gli arretrati.

Storia quasi identica vicino Padova, dove Lucia Zandarin è stata mandata via una settimana dopo il primo anno di vita della sua secondogenita. Causa scatenante: aver chiesto all’azienda di restare a casa il lunedì usufruendo del congedo parentale. «Nemmeno mi riconoscevano l’orario ridotto per l’allattamento e il medico era arrivato a prescrivermi dei tranquillanti perché la situazione di lavoro era diventata un pensiero fisso» racconta: «E dire che dopo la prima gravidanza, quando dovevo dormire fuori per le trasferte, mi era perfino capitato di girare in auto con l’altra piccola e mia madre». Lucia è riuscita a vedersi riconosciuta i suoi diritti dopo una vertenza sindacale: ha mollato il posto, ma ha ottenuto una congrua buonuscita minacciando una causa per licenziamento discriminatorio.

IL PERMESSO NO
Sempre il congedo parentale è stato vicino Lecco la causa del licenziamento di una segretaria part-time di un poliambulatorio: ci andava quattro giorni a settimana e al termine della maternità voleva stare a casa una volta a settimana, del tutto in linea con la legge. “Necessità inderogabili di organizzazione del lavoro e del regolare funzionamento” dello studio, le motivazioni nella lettera di benservito. Anche in questo caso, licenziamento discriminatorio, ha stabilito la Corte d’Appello di Milano.

Michela Martello, invece, dopo le ferie forzate volevano metterla in cassa integrazione, malgrado la società di prodotti erboristici in cui era impiegata fosse sanissima: «Volevano che mi dimettessi e cercavano di convincermi col fatto che, con un bambino di pochi mesi, avrei avuto diritto all’indennità di disoccupazione». Michela tiene duro ma quando torna si ritrova da sola in una stanzetta: isolata fisicamente dai colleghi, senza telefono, computer né mansione. A fare fotocopie. Proprio come capita alla protagonista del film “Mobbing”. Michela finisce dalla psicologa e alla fine fa causa all’azienda, assistita dalla Cgil ma con le critiche dei familiari che non condividono la decisione di intraprendere le vie legali.

Alla fine il danno subito è tale che il giudice dispone un risarcimento di 60 mila euro. «Sono tanti, è vero» ammette lei «ma davvero non c’è una somma che compensi la perdita di un lavoro che si ama e l’essere trattati in modo disumano. Sono stata in terapia a lungo e tranne il mio compagno nessuno ha appoggiato la mia scelta: è un problema culturale ma dobbiamo ribellarci. Noi donne per prime».

I nuovi poveri

Non più solo disoccupati, anziani o famiglie numerose: oggi vivono al di sotto della soglia di povertà anche i lavoratori, le famiglie non necessariamente numerose, i giovani. È quanto emerge dal rapporto per il 2016 su povertà ed esclusione sociale in Italia intitolato Vasi comunicanti, pubblicato il 17 ottobre dalla Caritas italiana.

Un quadro cambiato negli ultimi anni, spiega il rapporto che, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’Istat e riferiti al 2015, vede un milione e 582mila famiglie in povertà assoluta, cioè più di 4,5 milioni di individui. “Si tratta del numero più alto dal 2005”, spiega il rapporto Caritas. “E si tratta, parlando di povertà assoluta, della forma più grave di indigenza, quella di chi non riesce ad accedere a quel paniere di beni e servizi necessari per una vita dignitosa. Dal 2007, anno che anticipa l’inizio della crisi economica, la percentuale di persone povere è più che raddoppiata, passando dal 3,1 per cento al 7,6 per cento. La crescita è stata continua, con l’unica eccezione registrata nel 2014, illusoria rispetto a un’inversione di tendenza”.

Anche se mutato, il contesto nazionale vede ancora una volta il Mezzogiorno vivere la situazione più difficile con l’incidenza più alta sia sugli individui (10 per cento) sia sulle famiglie (9,1 per cento). E, proprio al sud, dove vive il 34,4 per cento dei residenti in Italia, si concentra il 45,3 per cento dei poveri di tutta la nazione. Ad aggravare il quadro ci sono i dati forniti dalla Svimez (l’Associazione per lo sviluppo industriale del Mezzogiorno), che parlano di 576mila posti di lavoro persi dal 2008 nel meridione: il 70 per cento delle perdite di tutta Italia, mentre i livelli occupazionali risultano i più bassi registrati dal 1977.

Ma non è solo il sud Italia a peggiorare. “Nel corso del tempo anche aree del centro e del nord hanno vissuto un vistoso peggioramento dei propri livelli di benessere, in modo particolare se paragonati agli anni antecedenti la crisi economica. In soli otto anni anche in queste zone è raddoppiata la percentuale di poveri”.

Cade dopo diversi anni, così, quello che era definito il “modello italiano” di una povertà con connotati circoscritti. “Oggi accanto ad alcune situazioni che rimangono stabili, irrisolte e in molti casi aggravate, si evidenziano alcuni elementi inediti e in controtendenza”, continua il rapporto Caritas. “Sul fronte dell’occupazione, le famiglie maggiormente sfavorite sono quelle la cui la persona di riferimento è in cerca di un’occupazione (tra loro la percentuale di poveri sale al 19,8 per cento). È netto, anche per questi casi, il peggioramento rispetto al periodo precedente alla crisi (si è passati da un’incidenza del 7 al 19,8 per cento). Accanto a tali situazioni negli ultimi anni sembrano aggravarsi le difficoltà di chi può contare su un’occupazione, i cosiddetti working poor, magari sotto occupati o a bassa remunerazione. Tra loro particolarmente preoccupante è la situazione delle famiglie di operai, per le quali la povertà sale all’11,7 per cento. Al di sotto della media, invece, è il livello di disagio delle famiglie di ritirati dal lavoro”.

Gli anziani come risorsa
Altro punto di rottura con il passato è l’età delle persone che vivono in povertà assoluta. “Oggi i dati Istat descrivono una povertà che potrebbe definirsi inversamente proporzionale all’età, con la prima che tende a diminuire all’aumentare di quest’ultima. Se si analizzano i dati disaggregati per classi di età si nota come l’incidenza più alta si registra proprio tra i minori, sotto i 18 anni, seguita dalla classe 18-34 anni; al contrario chi ha più di 65 anni, diversamente da quanto accadeva meno di un decennio fa, si attesta su livelli contenuti di disagio”.

Degli oltre 4,5 milioni di poveri totali, infatti, il 46,6 per cento risulta sotto i 34 anni; in termini assoluti si tratta di 2,1 milioni di individui, e tra loro i minori sono 1,1 milioni. “Gli anziani dunque sono coloro che mediamente sembrano aver risposto meglio a questi anni difficili”, continua il rapporto. “Il tutto probabilmente è ascrivibile sia alle tutele del sistema pensionistico sia al bene casa. Al contrario la persistente crisi del lavoro ha penalizzato giovani e giovanissimi in cerca di una prima o nuova occupazione e gli adulti rimasti senza un impiego. E la mancanza di un lavoro, è doveroso ricordarlo, può rappresentare un elemento di forte rischio sociale specie se cumulato con altre forme di disagio”.

Altra novità, infine, riguarda le tipologie familiari. La povertà assoluta, infatti, raggiunge livelli molto elevati tra le famiglie numerose con cinque o più componenti, specie se al suo interno ci sono tre o più figli minori. “Registrano un forte peggioramento i nuclei composti da quattro componenti, in particolare le coppie con due figli. Quindi, se in passato costituiva un elemento di rischio la presenza di almeno tre figli, oggi si palesano in tutta la loro gravità anche le difficoltà dei nuclei meno numerosi”.

Questo articolo è stato pubblicato dall’agenzia Redattore Sociale.

A cottimo. Semplicemente.

Nonostante gli inglesismi siamo tornati al cottimo. Solo che una volta creava scalpore e invece oggi è terribilmente cool. Ne scrive Marta Fana qui per Internazionale:

«Lo sciopero dei fattorini della Foodora, società che gestisce ordini e consegne di pasti a domicilio, ha mostrato all’Italia il risvolto amaro dietro la comodità del consumo on demand. L’azienda ha recentemente deciso, unilateralmente, di eliminare per i nuovi assunti la remunerazione fissa basata sul numero di ore lavorate e mantenere solo la parte variabile, legata alle consegne: 2,7 euro ciascuna.

I nuovi lavoratori sono quindi pagati a cottimo in base a un contratto di collaborazione, di quelli in cui non c’è traccia di tutele e diritti minimi (ferie, malattia, contributi). Così funziona la gig economy, “l’economia dei lavoretti”, di cui Foodora fa parte: a chiamata si consuma la cena e a chiamata si sfruttano i lavoratori (su questo vedi l’articolo pubblicato nel numero 1174 di Internazionale).

Il processo produttivo, se di produzione si può parlare, avviene attraverso un’applicazione per smartphone: vengono raccolti gli ordini che sono trasmessi in tempo reale ai relativi ristoranti e infine il fattorino di riferimento della zona riceve la notifica di una nuova consegna da fare. I lavoratori sono fattorini, operai della logistica, sebbene l’azienda preferisca definirli rider.

Ecco che ritorna la questione di un’organizzazione del lavoro funzionale alla massimizzazione dei profitti attraverso la riduzione delle retribuzioni e dei diritti e l’intensificarsi dei turni di lavoro, così come per la logistica della grande distribuzione, di cui si è già parlato.

Le condizioni del lavoro rasentano quelle degli operai di una fabbrica inglese dell’ottocento

Inoltre, anche in questo caso l’economia on demand non rappresenta un’innovazione che sviluppa nuovi mercati, ma ne trasforma di esistenti, abbattendo il costo fisso del lavoro, anacronisticamente, fino al cottimo. Si compie così un vero e proprio ribaltamento: l’assenza di un salario legale impedisce quella che un tempo era definita la libertà nel lavoro e cioè la possibilità di godere di un tempo di vita oltre il lavoro.

Sembra crollare definitivamente tutta la vulgata efficientista legata alla diffusione delle nuove tecnologie: l’abbattimento dei costi di transazione, cioè la facilità con cui si incontrano la domanda e l’offerta, equivale in questo caso a un declassamento del lavoro, ridotto in condizioni che rasentano quelle degli operai di una fabbrica inglese dell’ottocento. Una degenerazione che non riguarda solo l’Italia ma che investe più in generale tutti i paesi a capitalismo avanzato. Ma si sa, in Italia i lavoratori costano meno che nel resto d’Europa anche per la Foodora: per esempio in Francia un fattorino costa a questa azienda sette euro all’ora più due per ogni consegna. Salario a parte, il regime contrattuale francese è lo stesso: nessun rapporto di subordinazione formale, tutti collaboratori, imprenditori di se stessi.

Un processo sempre più radicale di sfruttamento della forza lavoro spesso mascherato da enormi pubblicità che strizzano l’occhio a consumatori sempre più distratti. Per esempio, in pochi si chiedono come sia possibile per la Foodora Italia, che vanta un capitale sociale di appena diecimila euro, essere esponente di spicco di un settore che fattura più di 400 milioni di euro solo in Italia. La Foodora, come le altre piattaforme che si occupano sia di ordini sia di consegne, impone, da un lato, una commissione tra il 20 e 30 per cento dell’ordine ai ristoranti e, dall’altro, una commissione fissa al consumatore, di 2,9 euro a consegna.»

(continua qui)

I Voucher. E quei dati che gridano Vendetta.

Tanto per essere un po’ più precisi del ministro Poletti e delle bugie di governo. 

La corsa dei Voucher continua indisturbata. La dinamica di crescita è sempre più sostenuta: a Luglio è stata superata la quota di 14 milioni di buoni venduti (nell’arco di un solo mese). Se continua così, a fine anno saranno ben 2,2 milioni i lavoratori coinvolti.

Nel corso del Consiglio dei Ministri n. 131 dello scorso 23 Settembre, sono state approvate le modifiche alla disciplina contenuta nel Decreto Legislativo n. 81/2015, altrimenti noto come Jobs Act: le prestazioni di lavoro accessorio devono essere comunicate all’Inail, tramite SMS o email, almeno sessanta minuti prima della loro erogazione. Dovranno essere scambiate alcune informazioni circa il lavoratore coinvolto, i suoi dati anagrafici o il codice fiscale, il luogo, il giorno, l’ora di inizio e fine della prestazione lavorativa.

Nessuna restrizione circa il settore di applicazione, o la durata complessiva del rapporto di lavoro. Nessuna revisione circa il limite retributivo annuo, lasciato inalterato a 7 mila euro complessivi.

Abbiamo raccolto alcuni numeri fondamentali che testimoniano la crescita esponenziale di questo fenomeno, a tutti gli effetti frontiera del precariato. Sì, perché, sebbene le intenzioni fossero quelle di far emergere il sommerso, lo strumento ha finito per fallire l’obiettivo iniziale. Secondo Tito Boeri, se consideriamo gli uomini in età centrali, solo lo 0,2% di essi emerge da rapporti di lavoro nero (cfr. XV Rapporto Annuale INPS).

Accedono ai voucher soprattutto giovani (Il 43% ha meno di 29 anni) e donne (il 51% dei prestatori d’opera). Escludendo i pensionati (che incidono per l’8% sulla platea complessiva), l’età media scende a 30 anni! Nel 23% dei casi, si tratta di lavoratori alla loro prima esperienza. Il Voucher è lo strumento della prima socializzazione al lavoro per i ventenni. Ricevono pochissimo: circa 500 euro l’anno. In tre casi su dieci, il percettore di voucher è un lavoratore dipendente, part-time. Solo lo 0,4% guadagna più di 5 mila euro l’anno mediante i buoni.

(continua qui)

voucher-senza-fine-bis