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mafia capitale

La bugia dell’onorevole Micaela Campana (PD)

Ha poco da lamentarsi l’onorevole del PD Micaela Campana che protesta per i possibili fraintendimenti del suo sms a Salvatore Buzzi, uomo coinvolto in pieno nell’inchiesta Mafia Capitale. Chiede che non siano estrapolate le frasi in modo che possano essere fraintese ma a leggere bene l’ordinanza (che abbiamo pubblicata per intero qui) c’è qualcosa di peggio del “bacio virtuale” via sms:

La sera del 20.03.2014, Salvatore BUZZI riceveva notizia del fatto che l’interrogazione, proposta dai parlamentari del PD da lui definiti “amici miei”, a breve sarebbe stata presentata. Già alle ore 18.31, Umberto MARRONI (deputato PD, ndr)  gli inviava un SMS recante il testo: “Ho parlato con Micaela meniamo” e, in riferimento alla stesura del testo, precisava “La sta preparando Micaela”.
[…]
Infine, alle ore 21.03, riceveva l’attesa notizia proprio da Micaela CAMPANA, la quale inviava al BUZZI il seguente SMS: “Parlato con segretario ministro. Mi ha buttato giu due righe per evitare il fatto che mi bloccano l’interrogazione perche non c’e ancora procedimento. Domani mattina ti chiamo e ti dico. Bacio grande capo”.
Alle ore 15.49 del 21.03.2014, Salvatore BUZZI riceveva un SMS dal BARBIERI (assistente dell’onorevole Campana, ndr), che lo informava di un “rigetto” dell’interrogazione per difetto di presupposti, avendo come esclusivo fondamento le notizie di stampa: “Buongiorno mica (Micaela, ndr) aveva depositato interrogazione, ma l’ufficio responsabile ce l’ha rigettata perche non era congrua essendo basata solo su articoli di giornali, ora l’ufficio ce la riscrive affinche non venga rigettata ma ci vorra qualche giorno. Simone”.

Io, fossi in lei, penserei bene anche all’opportunità di dimettermi. Sul serio.

Carminati: da Milano a Roma, da Fausto e Iaio alla ‘ndrangheta passando per Roma

massimo-carminati-206213Una svastica d’oro tempestata di diamanti. Da appendere al collo con una catenina. Bisogna partire da questo gingillo che portava Francis Turatello, storico boss della mala di Milano, prima nemico e poi testimone di nozze di Renato Vallanzasca, ucciso brutalmente in carcere nel 1981, per capire i legami del Re di Roma Massimo Carminati con Milano. Il Cecato, il Nero della Banda della Magliana, il protagonista dell’inchiesta su Mafia Capitale, è infatti nato nel capoluogo lombardo nel 1958. Di origini bergamasche, è qui che ha iniziato a coltivare sin da giovanissimo la passione per la destra eversiva che lo ha portato poi nei Nuclei Armati Rivoluzionari, i temibili Nar. Carminati si trasferisce nella Capitale insieme con la famiglia negli anni ’70, ma continua a mantenere rapporti con il Nord, con la città che in quegli anni vede in piazza San Babila l’avamposto della destra milanese negli scontri con la sinistra antagonista.

«Faceva parte dei Nar con cui noi della destra missina abbiamo avuto sempre da polemizzare. Erano schegge impazzite. Lui per di più teneva i rapporti tra una certa destra militarizzata e la malavita organizzata, quella di Francis Turatello e della mafia del Brenta di Felice Maniero»

E’ la trincea nera dei picchiatori, tra Ordine Nuovo, Terza Posizione o esponenti del Msi di Giorgio Almirante. Il nome di Carminati spunta persino nell’omicidio di Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, i due ragazzi diciottenni del Leoncavallo, uccisi il 18 marzo del 1978. Il Re di Roma, in sostanza, non è un personaggio qualunque. «E’ sempre stato un personaggio border line» spiega un camerata milanese che lo ha conosciuto e che chiede rassicurazioni sull’anonimato. «Faceva parte dei Nar con cui noi della destra missina abbiamo avuto sempre da polemizzare. Erano schegge impazzite. Lui per di più teneva i rapporti tra una certa destra militarizzata e la malavita organizzata, quella di Francis Turatello e della mafia del Brenta di Felice Maniero…». Fu Cristiano Fioravanti, fratello di Valerio, condannato per la Strage di Bologna, a descrivere nei numerosi processi Carminati come un killer spietato, al soldo dei servizi segreti e della Banda della Magliana.

Oltre ad aver conosciuto Giusva a Roma, i due erano compagni di scuola, Carminati può vantare le conoscenze dei Nar milanesi. E’ il collante tra il Nord e il Sud, in quel mondo fatto di rapine, spaccio di droga e politica. Tra i suoi sodali c’è Gilberto Cavallini, ora rinchiuso nel carcere di Terni o Lino Guaglianone, ex tesoriere del gruppo terroristico, condannato nel 1992, dalla quarta Corte d’Assise di Milano per associazione sovversiva e partecipazione a banda armata. Guaglianone non è personaggio da poco. Proprietario di alcune palestre di boxe, tra cui la Doria in pieno centro, è stato candidato più volte in regione Lombardia e ha vantato in questi anni appoggi politici nel centrodestra – in particolare Alleanza Nazionale di Ignazio La Russa – che lo hanno portato a sedersi in consigli di amministrazione di importanti società pubbliche.

MILANO, I NERI E LA ‘NDRANGHETA

Del resto se Milano è diventata provincia di Reggio Calabria lo deve anche a quel legame forte tra il colore nero e la criminalità organizzata calabrese, in particolare il clan De Stefano. Tra i Nar con una carriera fulminante sotto la madonnina c’è appunto Guaglianone. L’ex tesoriere costituisce diverse società, partecipa ad altre, si candida al Pirellone e a Palazzo Marino senza essere eletto, ma arriva a sedersi nel consiglio di amministrazione di Ferrovie Nord Milano, società pubblica gestita al 57% da Regione Lombardia e nel collegio sindacale di Fiera Congressi Milano, altra partecipata lombarda. Negli anni ’90 per lui arriva una condanna per banda armata e riciclaggio. Anni dopo finisce nelle carte dell’inchiesta della dda di Milano “Redux-Caposaldo” per alcuni suoi incontri con Paolo Martino, definito dagli inquirenti come il tramite tra i De Stefano di Reggio Calabria e le cosche insediate al nord. Ambienti che non a caso ritornano poi nell’inchiesta su Mafia Capitale, con indagini per associazione a delinquere persino sull’ex sindaco Gianni Alemanno, esponente storico della destra italiana. 

Ambienti che non a caso ritornano poi nell’inchiesta su Mafia Capitale

Grattacapi più grossi però per il giro “nero” arrivano con le indagini su Francesco Belsito, ex tesoriere della Lega Nord. Qui le indagini toccano uno dei punti nevralgici dell’intreccio: lo studio Mgim di via Durini. Non è un mistero che i pm di Reggio Calabria nell’inchiesta sui conti della Lega Nord sia arrivata a contestare anche l’associazione segreta.Secondo il pm Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio della Direzione Nazionale Antimafia le indagini proverebbero la caratteristica di segretezza della presunta associazione fra professionisti e imprenditori in odore di ‘ndrangheta, tanto da rientrare nella fattispecie prevista dalla Legge Anselmi. Non è un caso, tra l’altro, che la vicenda delle società riconducibili alla galassia sia ricostruita anche nella relazione dei commissari prefettizi che portò allo scioglimento del comune di Reggio Calabria. Si legge nelle carte: vi sono i “noti professionisti” Bruno Mafrici (calabrese classe 75, non è neppure avvocato è indagato per riciclaggio, ma compare pure in altre indagini della Dda calabrese, tra queste pure un omicidio del 2008) ,Guaglianone e Giorgio Laurendi, amministratore unico della società Milasl e subentrato a Guaglianone nel ruolo. Milasl è una delle società citate nel decreto di scioglimento del comune di Reggio Calabria, con sede in via Durini 14. Lo stesso Laurendi detiene il 20% dello studio Mgim e figura insieme a Michelangelo Tibaldi, nella compagine di Multiservizi, società partecipata al 51% dal comune di Reggio Calabria, sciolta per mafia alcuni mesi fa per infiltrazioni della cosca.

Proprio in uno dei locali milanesi della Milasl in via Pareto, gestito dalla società Brick di Tibaldi ha trovato posto la sede di “Lealtà e Azione”, dietro la quale si muovono anche gli Hammerskin, movimento neonazi internazionale. Leader degli Hammer milanesi è Domenico Bosa, detto Mimmo Hammer, gelese classe ’67 e un passato con qualche guaio con la giustizia. Bosa, non indagato, verrà comunque pizzicato da due recenti inchieste del Gico della Guardia di Finanza perché in rapporti con il narcotrafficante montenegrino Milutin Todorivic, che a sua volta intratteneva rapporti con il boss della ‘ndrangheta Pepè Flachi. A fare da sfondo la “bamba” e una malavita che anche a Milano incrocia criminalità organizzata e ambienti dell’estrema destra.

L’OMICIDIO DI FAUSTO E IAIO

Alla fine degli anni ’80 due giornalisti, Fabio Poletti e Umberto Gay scrivono una controinchiesta sull’omicidio di Fausto e Iaio, che fu rivendicato proprio dai Nar come vendetta per la morte di Sergio Ramelli. La vicenda non si è mai risolta. «La nostra fu un’inchiesta sull’ambiente in cui era maturato quell’omicidio, non avevamo individuato i colpevoli», ricorda Poletti. Non ci riusciranno neppure i giudici dopo aver indagato proprio su Carminati, Mario Corsi, detto Marione, ex capo della curva della Roma pure lui tra le carte dell’inchiesta di Mafia Capitale e Claudio Bracci, cognato del Re di Roma. Stefano Dambruoso, nel 1999, ha archiviato l’inchiesta per insufficienza di prove. Eppure anche in quella storia di due ragazzi di diciotto anni trucidati con otto colpi di pistola s’incrociano i misteri d’Italia che ritornano di attualità dopo l’arresto di Carminati, uno degli esponenti più importanti della Banda della Magliana, cerniera tra la malavita organizzata, l’estremismo di destra e servizi segreti deviati. C’è infatti un lato inquietante inella morte dei due ragazzi. E riguarda via Montenevoso, strada dove negli anni ’70, al numero 9, c’era un covo delle Brigate Rosse. Fausto Tinelli viveva al numero 8.

Anche in quella storia di due ragazzi di diciotto anni trucidati con otto colpi di pistola s’incrociano i misteri d’Italia che ritornano di attualità dopo l’arresto di Carminati

E proprio in quella palazzina, come ricostruirà in una puntata Chi l’ha visto, che i servizi segreti hanno una piccola mansarda da dove spiano i brigatisti: dalla finestra della camera di Fausto si vedono le finestre del rifugio brigatista. In via Montenevoso quasi 12 anni dopo sarà ritrovato il memoriale di Aldo Moro, lo statista democristiano rapito il 16 marzo del 1978, due giorni prima di quel massacro di via Mancinelli. Danila Angeli, madre di Fausto, in diverse interviste alla fine del 2000 tirò in ballo i servizi segreti. Dopo l’omicidio di mio figlio», raccontò la madre di Tinelli, «ognuno offriva la sua versione. Chi parlò di regolamento di conti tra spacciatori di droga, oppure una faida tra gruppi della sinistra extraparlamentare. Negli anni ho riannodato i fili della memoria, i pezzi di un piccolo mosaico che mi ha permesso di raggiungere la vera verità che io conosco. Mio figlio è stato vittima di un commando di killer giunti da Roma a Milano, nel pieno del rapimento di Aldo Moro, in una città blindata da forze dell’ordine. Un omicidio su commissione di uomini dei servizi segreti. Gli apparati dello Stato avevano affittato un appartamento al terzo piano del mio palazzo, in via Monte Nevoso 9, esattamente davanti all’appartamento in cui risiedevano appartenenti alle Brigate Rosse, responsabili del rapimento Moro, dove vennero rinvenuti i memoriali del presidente della Democrazia cristiana». Un altro tassello nella storia di Carminati che non ha mai avuto risposta. 

(fonte)

Negare, insistere, insistere, negare.

Leggetevi Luigi Castaldi:

In tal senso occorre denunciare come pericolo pubblico chi si spende nel liquidare come inutile allarmismo il solerte intervento su un focolaio. Non sarà untore, ma al pari dei politici, delle procure, dei preti e del popolino che decenni fa in Sicilia negavano l’esistenza della mafia – de facto – lavora perché la peste diventi endemica.  «Secondo me – dice – questa storia della cupola mafiosa a Roma è una bufala… Forse tutto questo è abbastanza per una delle solite retate nel mondo del delitto, ma non è un po’ poco per definire il contenuto di un patto mafioso corruttivo nella capitale del paese?… Niente è più credibile a Roma, città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora indagano su di essa, di una rete di piccola e media criminalità che si avvale di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano. Ma è allo stato delle cose totalmente incredibile la surrealtà di una cupola mafiosa, sia pure in forma originale, che si sia impossessata della città per realizzare fini di guida e orientamento politico della sua vita amministrativa nei modi e nelle forme che sono suggeriti dal linguaggio delle intercettazioni e dalla sua elaborazione nelle notizie relative all’inchiesta… Quella che vi stanno dando non è informazione su un’associazione delinquenziale ma una coglionatura ideologica per creduloni. »(Il Foglio, 4.12.2014).

È il fisiologico rosicchiar di topi dove c’è formaggio, insomma, e si tratta di topi che ruggiscono come leoni, ma topi restano, e chi gli corre appresso è un esaltato con la fissa dei safari. Er Cecato avrà un avvocato, ma pure la cecataggine ne ha uno. Sì, il morto ha un sasso in bocca, ma era un fimminaro e l’avrà fatto fuori un marito cornuto.

Mafia Capitale: ecco a cosa serve il razzismo contro i rom

romVoi paghereste seicento euro al mese per vivere in uno stanzone affollato e senza finestre? Sicuramente no. Eppure questa è la cifra che il Campidoglio versa all’ente gestore della “Best House Rom” per ciascun rom ospitato nel centro di accoglienza di via Visso.

Ciò significa che per una famiglia di sei persone le casse pubbliche spendono 3600 euro: il costo di un affitto in una casa di lusso nel centro di Roma. Lo scandalo, uno dei tanti consumati sulla pelle dei cosiddetti “zingari”, è stato denunciato dal consigliere comunale radicale Riccardo Magi nelle ore immediatamente precedenti alla retata che ha portato all’arresto di 37 persone per l’inchiesta “Mondo di mezzo”.

Tra gli arrestati figura Emanuela Salvatori, responsabile dell’ufficio rom del Campidoglio e coordinatrice dell’attuazione del “Piano rom e interventi di inclusione sociale”.

Un altro degli arrestati è Salvatore Buzzi, ramo Lega Coop, che nelle intercettazioni dice: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico de droga rende meno”

Nel business “immigrati” rientrano anche i settemila rom che vivono nei campi attrezzati di Roma. Si tratta degli stessi rom contro i quali manifestano Casapound e le destre romane per capitalizzare voti. Un doppio sfruttamento altamente redditizio: i rom fruttano soldi alla destra e alla sinistra grazie agli appalti delle cooperative che gestiscono i campi, e fruttano voti – specialmente alla destra – perché ripetere che gli zingari sono “culturalmente” ladri (lo ha sottolineato Ignazio La Russa) è sempre un ottimo argomento per scaricare sugli intoccabili la responsabilità di una mala gestione amministrativa.

È vero, gli uomini di Maurizio Carminati – il capo della banda di fascio-mafiosi, ex appartenente alla banda della Magliana – hanno mangiato abbondantemente sull’emergenza profughi e sull’accoglienza dei migranti a Roma, e non soltanto sui rom. Tuttavia sono i rom a essere prigionieri – letteralmente – del sistema che impedisce loro di uscire dai campi e prigionieri di un razzismo che non trova corrispondenze in nessuna etnia.

Che i rom vogliano vivere nei ghetti, all’interno delle baracche, è per esempio una delle tante favole che la politica racconta ai cittadini per dimostrare che i campi nomadi fanno parte della cultura zingara. Non è vero, e lo dimostra il fatto che l’Unione europea è pronta a multare l’Italia proprio perché non sta smantellando i campi attrezzati.

L’inchiesta della Procura di Roma sulla Mafia Capitale sta svelando quello che da tempo associazioni come la 21 luglio denuncia da anni, e cioè che dietro questa falsa necessità dei campi rom si nasconda una speculazione tutta italiana e tutta mafiosa sulla pelle dei settemila rom censiti nella Capitale: siccome questi ghetti pestilenziali hanno bisogno – dice la politica – di sorveglianza continua e persone che si occupino dell’integrazione, allora ecco gli appalti per i vigilantes, gli scuolabus appositi per i rom e così via.

Ma quanto spende il Campidoglio per sole settemila persone, in maggioranza bambini? 42 milioni in tre anni “e non sappiamo dove siano finiti questi soldi”, diceva un funzionario del Comune all’Huffington Post durante una visita del campo di via Gordiani, dove le famiglie vivono in prefabbricati cadenti con i bagni rotti. Di quella cifra, 32 milioni erano arrivati grazie al Piano Nomadi di Gianni Alemanno.

Sempre durante la giunta Alemanno, era stata approvata una norma che nell’applicazione pratica impediva ai rom – molti dei quali italiani – di accedere alle graduatorie delle case popolari. Di questa ennesima misura discriminatoria si era occupato persino il quotidiano britannico “The Guardian”. Anche questo serviva a perpetuare l’esistenza dei campi nomadi, con un duplice scopo: raccontare alla cittadinanza che in fondo gli “zingari” non vogliono vivere come tutti gli altri, e continuare il business degli appalti intorno ai rom.

L’inchiesta che sembra smantellare la cupola fascio-mafiosa – ma c’è di mezzo un pezzo della sinistra – potrebbe servire finalmente a decostruire tutte le menzogne razziste che tutta la politica, in maniera davvero bipartisan, ha utilizzato per dipingere i rom come aggressori, criminali e ladri di bambini. Un racconto che ha fatto breccia anche nelle anime più progressiste.

(fonte)

I caratteri di Mafia Capitale

Per orientarsi in mezzo alle tante opinioni vale la pena leggere piuttosto le parole della Procura di Roma sottoscritte il 28 novembre dal Giudice Flavia Costantini:

I caratteri di Mafia Capitale

Le indagini svolte hanno consentito di acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza di una organizzazione criminale di stampo mafioso operante nel territorio della città di Roma, la quale si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano per commettere delitti e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di appalti e servizi pubblici.

Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione, presenta caratteristiche proprie, solo in parte assimilabili a quelle delle mafie tradizionali e agli altri modelli di organizzazione di stampo mafioso fin qui richiamati, ma, come si cercherà di dimostrare nella esposizione che segue, essa è da ricondursi al paradigma criminale dell’art. 416bis del codice penale, in quanto si avvale del metodo mafioso, ovverosia della forza di intimidazione derivante dal vincolo di appartenenza, per il conseguimento dei propri scopi.

Essa presenta, in misura più o meno marcata, taluni indici di mafiosità, ma non sono essi ad esprimere il proprium dell’organizzazione criminale, poiché la forza d’intimidazione del vincolo associativo, autonoma ed esteriorizzata, e le conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano, sono generate dal combinarsi di fattori criminali, istituzionali, storici e culturali che delineano un profilo affatto originale e originario.

Originale perché l’organizzazione criminale presenta caratteri suoi propri, in nulla assimilabili a quelli di altre consorterie note, originario perché la sua genesi è propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali.

Sarebbe un errore di prospettiva annoverare tout court Mafia Capitale nel catalogo delle nuove mafie.

Se è indiscutibile che la sua diagnosi sia frutto dell’utilizzazione – scevra da pregiudizi nel senso più anodino del termine–  di quello che in dottrina è stato definito un modello di tipizzazione contenuto nell’ultimo comma dell’art. 416bis c.p., deve escludersi che la sua genesi sia recente e reputarsi che essa sia radicata da tempo, mentre deve ritenersi che essa sia stata  investigativamente colta nella fase evolutiva propria delle  organizzazioni criminali mature, che fruiscono, ai fini dell’utilizzazione del metodo mafioso, di una accumulazione originaria criminale già avvenuta.

Muovendo da quanto condivisibilmente è stato ritenuto in dottrina, secondo cui «ogni associazione di tipo mafioso ha alle spalle un precedente (e concettualmente distinto) sodalizio-matrice, con originario programma di delinquenza in parte finalizzato proprio alla produzione della «carica intimidatoria autonoma»; finalità apprezzabile e riconoscibile, peraltro, solo a posteriori cioè a metamorfosi avvenuta e dopo la consunzione del sodalizio-matrice nella nuova entità di tipo mafioso», nel caso di specie può ritenersi che la trasformazione sia compiutamente avvenuta.

A usar metafore, il fotogramma di Mafia Capitale, ossia la sua considerazione sincronica, rivela un gruppo illecito evoluto, che si avvale della forza d’intimidazione derivante –anche– dal passato criminale di alcuni dei suoi più significativi esponenti; la pellicola di Mafia Capitale, ossia la sua considerazione diacronica, evidenzia un gruppo criminale che costituisce il punto d’arrivo di organizzazioni che hanno preso le mosse dall’eversione nera, anche nei suoi collegamenti con apparati istituzionali, che si sono evolute, in alcune loro componenti, nel fenomeno criminale della Banda della Magliana, definitivamente trasformate in Mafia Capitale.

Un’organizzazione criminale tanto pericolosa quanto poliedrica che, per dirla con le parole di uno dei suoi più autorevoli e pericolosi esponenti, Massimo Carminati ( il Pirata o ilCecato), opera, soprattutto, in un  mondo di mezzo,  un luogo dove, per effetto della potenza e dell’autorevolezza di Mafia Capitale, si realizzano sinergie criminali e si compongono equilibri illeciti tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il mondo di sotto, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano illecitamente con l’uso delle armi.

Sul piano strutturale, le mafie tradizionali presentano modelli organizzativi pesanti, rigidamente gerarchici, nei quali i vincoli di appartenenza sono indissolubili e inderogabili. Un tale modello organizzativo è, però, storicamente e sociologicamente, incompatibile con la realtà criminale romana, che è invece stata sempre caratterizzata da un’elevata fluidità nelle relazioni criminali, dall’assenza di strutture organizzative rigide, compensata però dalla presenza di figure carismatiche di grande caratura criminale, quali Ernesto Diotallevi,  Michele Senese (zi Michele)  Massimo Carminati (il Pirata, il Cecato) e da rapporti molto stretti con le organizzazioni mafiose tradizionali operanti sul territorio romano e da una connaturata capacità di ricercare e realizzare continue mediazioni, che si risolvono in un equilibrio idoneo a generare il senso della loro capacità criminale. 

Mafia Capitale, in questo differenziandosi e in parte affrancandosi dalle precedenti espressioni organizzate capitoline come la Banda della Magliana, ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma, creando una struttura organizzativa di tipo  reticolare o  a raggiera, che però mantiene inalterata la capacità di intimidazione derivante dal vincolo associativo nei confronti di tutti coloro che vengano a contatto con l’associazione.

In essa, alcuni dei suoi componenti godono di ampi margini di libertà, sì che essi, oltre a essere impiegati attivamente nella mission dell’associazione, svolgono autonomamente e personalmente attività illecite.

Sul piano del core business, l’attività di Mafia Capitale è orientata al perseguimento di tutte le finalità illecite considerate nell’art. 416bis c.p.

Tra esse, le più frequenti finalità perseguite, e non di rado realizzate, sono tuttora la commissione di gravi delitti di criminalità comune, prevalentemente a base violenta, ma soprattutto l’infiltrazione del tessuto economico, politico ed istituzionale, l’ottenimento illecito dell’assegnazione di lavori pubblici.

Un’organizzazione criminale che siede a pieno titolo al tavolo di altre e più note consorterie criminali, condizionandone l’attività sul territorio romano, che ha piena consapevolezza di sé e del suo ruolo nella gestione degli affari illeciti della capitale.

Eloquente, in proposito, appare essere un’intercettazione ambientale, avente come protagonista Carminati, capo indiscusso di Mafia Capitale,  a seguito della pubblicazione di un articolo sul settimanale “L’Espresso”, dal titolo “I quattro Re di Roma”, nel quale si faceva riferimento ad una divisione della capitale in zone d’influenza ad opera di distinti gruppi criminali con a capo rispettivamente  Carminati Massimo, Senese Michele, Fasciani Giuseppe e Casamonica Giuseppe.