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mafia

Toh!, in Valle D’Aosta non c’è solo la ‘Ndrangheta ma anche la massoneria

Tra le Alpi si rivede, in scala ridotta, una dinamica sofisticata, di quelle presenti in Calabria e in Sicilia (soprattutto a Trapani) finite sotto la lente della Commissione antimafia. L’intreccio tra criminalità organizzata e massoneriasi stava riproponendo anche nel Nord d’Italia, ad Aosta. Protagonisti alcuni personaggi importanti della locale di ‘ndrangheta smantellata mercoledì dai carabinieri e dalla Direzione distrettuale antimafia di Torino nell’ambito dell’operazione “Geenna”.

Loro sono Antonio Raso e Nicola Prettico. Il primo è considerato dagli inquirenti uno dei capi della locale anche per il suo ruolo di collegamento con la politica aostana. Il secondo, invece, è un “partecipe”, ma ha una caratteristica: è stato eletto al consiglio comunale di Aosta nel 2015. Entrambi hanno l’interesse per grembiulini, squadre e compassi, riti e riunioni segrete. “Quel che va subito sottolineato però – si legge nell’ordinanza di custodia cautelare – è come l’affiliazione alla massoneria di alcuni dei partecipanti del locale di Aosta rappresenti un ulteriore elemento di collegamento con esponenti che ricoprono ruoli di rilievo nel settore economico, imprenditoriale e politico sia della società civile valdostana, sia al di fuori dei confini regionali”.

I fatti avvengono nell’estate 2015, dopo l’elezione di Prettico. Ruotano intorno a Giuseppe Scidone (non indagato), calabrese di Palmi residente a Mentone, dove – annotano i carabinieri – ha costituito il circolo “Garibaldi”, ufficialmente un’associazione per assistere gli italiani in Francia, ma forse più probabilmente una loggia massonica, crede la polizia transalpina. È stato responsabile dellaGran Loggia del Gibuti, poi membro della loggia “Janus” a Mentone e infine della “Merouge” di Monaco, legate alla Gran loggia nazionale di Francia e in rapporti con il Grande oriente d’Italia. Da qui, però, si sposta ad Aosta, dove fonda un’obbedienza tutta sua, la “Gran Loggia Non Nobis”, dal motto dei cavalieri templari di cui Scidone si dice appartenente.

Scidone vuole far affiliare alla sua loggia il consigliere comunale, ma lui – vista l’esclusione del suo amico, Vincenzo Marrapodi (ex sindaco di San Giorgio Morgeto, Reggio Calabria) – non accetta. Chi accetta, invece, è Raso che il 19 settembre, dentro una taverna nel centro città, diventa cavaliere dell’Ordine mondiale dei templari insieme a Paolo Contoz, ex consigliere regionale della “Stella alpina”. Sempre lì il giorno dopo “avveniva la costituzione della loggia massonica Aosta n. 1 San Fantino dell’obbedienza massonica ‘No Nobis’”, a cui partecipavano Scidone, la compagna, Raso e Domizio Cipriani (Gran priore dell’ordine cavalleresco) “citato con il suo inconfondibile nome” e inoltre “probabilmente Contoz”. Tutto a norma, secondo il gip: “Allo stato non vi sono elementi per ritenere che la loggia massonica della quale fanno parte alcuni degli indagati abbia le caratteristiche delle associazioni segrete vietate”, quelle citate dalla “legge Anselmi”.

Dopo la creazione di questa loggia, il presunto boss e il massone volevano “affiliare nuovi massoni, cercandoli tra personaggi influenti dell’amministrazione e della classe politica regionale”. Prettico, invece, cerca di restare in una loggia del Grande Oriente (la principale obbedienza massonica) e spiega a un altro fratello massone (Gianluca De Lucia, della Gran Loggia di Gibuti, non indagato) che vuole ricominciare a Torino: “Voglio ripartire con un po’ più di serietà”.

Anche in questo ambito – è scritto nell’ordinanza – la locale di Aosta si muoveva secondo “schemi ricorrenti per le compagini di criminalità di stampo mafioso” che vogliono creare “legami con detta associazione segreta” fortificando il sodalizio “mediante soggetti loro stessi vincolati a regole interne di solidarietà e segretezza”. Questo meccanismo era stato notato anche dalla commissione parlamentare antimafia della scorsa legislatura che aveva studiato i legami tra mafie e massoneria a partire dai casi della Sicilia e della Calabria. Grazie ai militari della Guardia di finanza, la commissione aveva acquisito gli elenchi (incompleti) degli iscritti e fatto compiere degli accertamenti. “La disamina ha dimostrato la presenza di un non trascurabile numero di iscritti alle logge(circa 190) coinvolti in vicende processuali o interessati da procedimenti di prevenzione, giudiziari o amministrativi”. Non erano tutti.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/01/30/ndrangheta-in-valle-daosta-negli-atti-lintreccio-tra-i-clan-e-la-massoneria-volevano-affiliare-i-politici-locali-alle-logge/4932605/

Far West Cadorago

Era il 2014 quando, nella mia insistente curiosità per la mafia travestita di niente nella placida Lombardia, iniziai a parlare di Cadorago.

Sì, lo so, non vi dice niente.

Siamo in provincia di Como. A Cadorago pascola Bartolomeo Iaconis (‘ndranghetista certificato da sentenza di metà degli anni ’90) e soprattutto ci fu il commento solitario e sconsolato dell’attuale responsabile area Polizia Locale Marco Redaelli che raccontò il clima di impunità che si respirava in paese. Se avete tempo e voglia lo trovate nel mio piccolo blog, qui.

Furono in molti a prendersela con me in quel periodo, sempre con i soliti modi: qui si sta tranquilli, vedi la mafia dappertutto, ma figurati, erano le frasi più gentili che mi venivano rivolte. Anche Iaconis si risentì. E vabbè, me ne feci una ragione.

Bene, oggi arriva una notizia (che sembra piccola piccola ma non lo è, in questo periodo di nemici immaginari e di mafie tranquillamente ignorate) che vale la pena leggere:

«Il mandante e l’esecutore materiale. Dieci anni dopo l’omicidio di Franco Mancuso, autotrasportatore di 35 anni freddato con tre colpi di pistola in un bar di Bulgorello, frazione di Cadorago, all’alba di oggi i carabinieri hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare in carcere per due persone accusate di essere i responsabili di quel delitto. Un’esecuzione di ‘ndrangheta, secondo gli inquirenti, che sono certi ora di aver chiuso il cerchio, accertando anche il movente dell’assassinio, una punizione per uno sgarbo fatto dalla vittima a uno degli arrestati. L’operazione delle forze dell’ordine è scattata alle prime ore del mattino. I carabinieri del reparto operativo e del comando provinciale di Como hanno eseguito un’ordinanza emessa dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano su richiesta della direzione distrettuale antimafia. I destinatari sono Bartolomeo Iaconis, 60 anni, originario di Giffone, in provincia di Reggio Calabria, già condannato per associazione di tipo mafioso e considerato uno degli esponenti di spicco del Locale di ‘ndrangheta di Fino Mornasco e Luciano Rullo, comasco di 51 anni. Per l’accusa, Iaconis è il mandante del delitto e Rullo l’esecutore materiale. Il killer, come fanno sapere i carabinieri .»

La verità è un bene prezioso, per questo qualcuno vuole risparmiarla, ma prima o poi arriva.

(Grazie a Rossella Pera per la segnalazione)

«il romanzo è su di noi. Su cosa siamo, su cosa ci stiamo avviando a essere, su cosa diventeremo»: L’Osservatore Romano recensisce Carnaio

(di Giulia Galeotti, L’Osservatore Romano, fonte)

L’oggi e il domani mescolati assieme con lucidità e crudezza: Carnaio (Roma, Fandango 2018, pagine 218, euro 17), l’ultimo romanzo di Giulio Cavalli — scrittore, giornalista e attore sotto scorta per la sua lotta contro la mafia — riflette sul rapporto tra noi e loro. Tra noi, abitanti di un occidente meta e sogno di tanti, e loro, i fuggitivi, i disperati che scappano da privazioni e violenze sperando in una vita migliore.

«“Questo non è un cadavere del nostro mondo, signor commissario”. Sembrò a tutti una frase rotonda, perfetta». È un giorno di marzo quando, attraccando al pontile, Giovanni Ventimiglia, da tutta la vita pescatore a DF — un paesino del Mediterraneo arroccato sulla costa — trova un cadavere. È di un uomo rimasto in acqua per giorni e giorni, un ragazzo non di quelle parti, forse dell’Est o del Sud, uno di colore: sicuramente uno non «del nostro mondo».

Questo ritrovamento, con cui si apre il romanzo, è il primo di una lunghissima serie: in breve tempo, infatti, il mare scarica su DF orde di cadaveri che vanno a invadere marciapiedi, case, vie, uccidendo chi ci vive. Sono cadaveri tutti identici tra loro: tutti giovani, tutti neri, tutti di identico peso e altezza. Soprattutto, tutti stranieri («Lo spazzino disse che per fortuna non gli avevano mica fatto tanto effetto, solo un giramento di testa, nel vederli così diversi, così altri, mica come noi»).

Le autorità locali non si raccapezzano tra questi cumuli di morti da identificare e gestire, chiedono aiuto ma dalla capitale prendono tempo, impongono accertamenti, tanto che, per non venire sommersi, i cittadini escogitano un sistema per domare l’emergenza, traendone ben presto enormi profitti economici. Perché quei cadaveri, da subito considerati cose, offrono un materiale prezioso da reinvestire per cucinare, generare energia, produrre abiti, borse e mobilio. Un materiale che farà di DF una potenza mondiale.

Una potenza mondiale terribilmente infelice, però: per reggere le fila del cambiamento, infatti, la città si trasforma in una dittatura da cui non è possibile entrare o uscire, in cui non v’è spazio per il dissenso. «Chi non si adatta diventa straniero. Chi è straniero diventa un impiccio, anche se un’ora prima era tua moglie, tuo fratello, tua figlia».

Nel fluire incalzante del romanzo, lo scenario generale sembrerebbe fantascientifico, eppure qualcosa stona terribilmente. Perché le singole tessere che compongono il puzzle di Cavalli — nella loro mostruosa miscela di carne, potere, egoismo e denaro — sono spaccati del nostro oggi. Nel crescendo angosciante guidato dalla paura del diverso, tutti — dal parroco al sindaco, dal medico al conduttore televisivo, dalle forze dell’ordine alla segretaria e alla signora bene — vengono travolti, perdendo ogni bussola. Perché ogni confine tra giusto e ingiusto, tra ammissibile e inammissibile è stato spazzato via.

L’oggi e il domani mescolati assieme con lucidità e crudezza, dicevamo, riflettendo sul rapporto tra noi e loro. In realtà, però, Carnaio è qualcosa di più. Loro, infatti, sono solo il casus belli: il romanzo è su di noi. Su cosa siamo, su cosa ci stiamo avviando a essere, su cosa diventeremo. Quindi, più che fantascienza, si tratta di un’analisi. Schietta e durissima.

di Giulia Galeotti

ArtAPartOfCulture su #Carnaio

(fonte articolo)

C’erano in programma nell’ultimo giorno “La trattativa Stato-Mafia con MarcoTravaglio e Marco Lillo o la Tavola rotonda sull’Africa con vari autori stranieri, Saggi su Israele con, fra gli altri, Pierluigi AllottiAlberto Cavaglion, Arturo Marzano e Alessandra Tarquini od anche Anatomia spassosa e crudele del mondo di internet dell’americano di San Francisco (patria di Facebook) Jarret Kobek, che la cosa la conosce fin dalle origini.

Ma le scelte, quando il menù è troppo ricco, possono portare anche alla sola presentazione di due romanzi molto forti e dalle tematiche molto attuali. Quello che ne viene fuori è però molto di più di un semplice convegno od una conferenza sull’argomento del giorno prima.

Giulio Cavalli, giornalista, scrittore, drammaturgo è stato sotto scorta per rivelazioni sulla mafia. Caustico quanto basta per dire quello che pensa sullo schifoso mondo che stiamo vivendo ha creato un romanzo, Carnaio (Ed. Fandango), in cui in assenza di risposte dallo Stato centrale, un paese diventa Stato ed il Sindaco-Presidente decide, secondo le linee di pensiero più squallide ed arriviste di far diventare un affare (business, business..) l’afflusso inaspettato ed abnorme di corpi morti arrivati dal mare sul suo territorio.

Si racconta come si può produrre energia per combustione di tutto quello che fa schifo e con cui non si vuol coabitare, che è poi la soluzione migliore in un processo di disumanizzazione, acquisita sempre più come normale.

Del resto – ha detto Cavalli – nello stesso linguaggio, consumato da tutti, esseri umani di serie b e cadaveri sono la stessa cosa. E la domanda è sempre la stessa: come li possiamo usare? Anche chi si oppone (un certo Giovanni Ventimiglia) non ha un linguaggio diverso, nuovo, per contrapporsi al verbo feroce che si instilla e si installa dappertutto e cederà pian piano come sta succedendo a tutti coloro che ancora hanno radici buone e pensiero. In Carnaio le persone riescono a lasciare tutto fuori, come ormai in un Italia incattivita riusciamo a lasciare tutto fuori dal nostro quartiere, dal nostro condominio, dalla nostra porta.

Ha narrato Cavalli che una sera a Pozzallo riuscì a parlare con un pescatore che gli parlò di un corpo che aveva ritrovato ormai lessato dalla lunga permanenza in mare. E quella parola lesso (termine culinario in voga) lo aveva così colpito per l’impermeabilità che abbiamo ormai acquisito rispetto ai fatti più feroci.  “Mors tua vita mea”. Cavalli ha ricordato anche che il libro è stato scritto un anno e mezzo fa quando il mondo distopico che descriveva non era ancora diventato reale. Quando ancora la parola sovranismo non si era identificata con egoismo.

Alle domante fioccanti di Annalisa Camilli sul suo impegno socio-politico ha risposto che ancora la letteratura più che gli editoriali o le trasmissioni TV può aiutare a capire meglio, perché frutto di lunghi studi sull’argomento trattato.

Quello a cui è più interessato è la disumanizzazione crescente di un Paese dove tutti hanno cominciato a perdonarsi tantissimo senza però perdonare agli altri, che vedono di serie b, per cui a breve toccherà anche ai più deboli, ai più fragili, agli sconfitti subire i più forti, che ne faranno uso ed abuso.

Tutto può rientrare in un disegno più grande di sfruttamento delle risorse umane, anche dei loro corpi, nella rivendicazione superiore del diritto di usare la forza da parte dei più potenti (Parigi docet).

Un romanzo che man mano diventa più truce più violento – ha detto la Camilli – senza più speranza? E la criminalità organizzata di cui l’autore ha sempre parlato? Essendo un potere forte, aspetta solo che aumenti la fragilità dei cittadini, per avere più manodopera, pagata sempre di meno, con un impoverimento sempre più avanzato di beni materiali ed idee – ha concluso Giulio Cavalli – .

Idem con patate

«Quale è stato l’esito del sopralluogo tecnico dell’11 giugno presso la sua abitazione? Non ritiene spiegare in aula le motivazioni di quello che, ci auguriamo, sia solo uno spiacevole equivoco? E qualora fosse verificato, il comportamento non perfettamente idoneo e corrispondente all’importantissimo ruolo di ministro della Repubblica quale sarà il suo comportamento?». Nicola Morra, 19 giugno 2013, al tempo capogruppo in Senato del Movimento 5 Stelle.

«Chiediamo al presidente del Consiglio di verificare se il ministro  abbia nascosto una residenza fittizia al fine di trarne vantaggi a fini fiscali e urbanistici. Se il ministro ricoprisse questo ruolo istituzionale nel suo paese di origine avrebbe dovuto già consegnare le dimissioni. È inaccettabile la pretesa del governo che i cittadini sostengano nuovi e pesanti sacrifici quando uno dei suoi membri piu’ autorevoli sembra non rispetti le regole sulle sue residenze. Visto che la lotta all’evasione è un principio fondante di questo governo, è bene che si cominci dai ministri che lo compongono». Gianluca Buonanno, sempre 19 giugno 2013, al tempo vicepresidente dei deputati della Lega Nord.

«Insomma uno stivale pieno di fango. Cari piddini quando pensate che uno di questi personaggi debba fare un passo indietro? Guardate che dopo un po’… il fango si solidifica e non lo si riesce a togliere più». Carlo Sibilia, M5s, 3 aprile 2015.

«Non transigo… Se sbagli fuori dalle palle. Sei un ministro della repubblica mica uno stronzo qualsiasi. Via… fori dalle palle», «dimenticate che i cittadini onesti esigono parlamentari onesti», «Non sono per le mezze misure. Non devi sbagliare. Non me ne frega un cazzo se ti penti dopo o che dici non volevo farlo. Hai sbagliato???? bene porti via le palle, chiunque sia destra, sinistra, centro, movimento 5 stelle», «Solo in Italia ci facciamo queste seghe mentali: in qualsiasi altro paese DEMOCRATICO si sarebbe dimessa da sola senza tante rotture di coglioni..», «Intanto una furbina in meno da mantenere… se avesse investito un bimbo in auto, cosa verrebbe detto? “Gli ho solo tranciato un braccio, non l’ho ucciso….” Ragazzi, siamo seri, daiiiiii!», «Avrebbe avuto almeno il buon senso di dimettersi invece di fare quella pagliacciata di negare o di dire … io non sapevo niente….!!», Ha provato a fare la furbetta…ViA !!!», «doveva dimettersi subito. vigliacca attaccava Beppe pure nei programmi sportivi…», «Non si dovranno fare più sconti a nessuno..». Commenti a un post su Facebook, pagina ufficiale del Movimento 5 Stelle, 25 giugno 2013.

«Una p… piena di ipocrisia». Mario Borghezio, Lega Nord, 21 giugno 2013.

«Mi domando che cosa spinge un Ministro della Repubblica ad esprimere solidarietà verso un altro Ministro della Repubblica dimissionario perché potenziale evasore.
In questo modo si ha sempre quella sensazione di disagio: nonostante cambino volti e nomi, la casta è viva più che mai, ed è sempre vigile e pronta ad autodifendersi quando è colpita. La solidarietà la si dà alle vittime di un terremoto, di un incidente sul lavoro, alle vittime delle traversate sui barconi per arrivare in Italia, a chi subisce minacce di morte dalla mafia, alla magistratura che è attaccata quotidianamente ecc. ecc.; di sicuro no ad un evasore fiscale». Post del Movimento 5 Stelle di Castellammare di Stabia, 30 giugno 2013.

Queste sono solo alcune delle dichiarazioni riservate a Josefa Idem, ministro allo Sport per cinquanta giorni durante il governo Letta, quando si scoprì che non aveva pagato regolarmente l’Ici (non lei, suo marito) per un suo immobile e decise (giustamente) di dimettersi.

Dai, davvero, non serve aggiungere altro. Idem con patate, si dice. Non c’è nemmeno bisogno di scrivere chi sono le patate.

Buon martedì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/12/04/idem-con-patate/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Lo zelo di Zuccaro (contro le ONG)

A Catania devono essere sparite le emergenze: niente criminalità, niente roghi tossici, niente corruzione, niente mafia, niente di niente. Il procuratore Zuccaro da due anni ha individuato negli sbarchi l’unico vero problema del Paese e fa niente se il suo battersi strenuamente sia utile solo alla pancia di chi sui migranti ha lucrato (fino a diventare il primo partito) e non abbia nessun risultato giuridico: ciò che conta è il rumore.

Da due anni per Zuccaro non esistono mafia e corruzione: l’emergenza si chiama ONG


A Catania devono essere sparite le emergenze: niente criminalità, niente roghi tossici, niente corruzione, niente mafia, niente di niente. Per la stampa (e anche grazie alle avventate dichiarazioni del procuratore Zuccaro) da due anni ha individuato negli sbarchi l’unico vero problema del Paese e fa niente se il suo battersi strenuamente sia utile solo alla pancia di chi sui migranti ha lucrato (fino a diventare il primo partito) e non abbia nessun risultato giuridico: ciò che conta è il rumore.
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Sono anni che a Reggio Emilia sono ostaggi della ‘ndrangheta

Certo è spettacolare la presa in ostaggio dentro un ufficio postale: ha tutte le caratteristiche per meritarsi una diretta a reti quasi unificate, squarciare l’impaginazione compita di tutti i quotidiani e contemporaneamente alimenta anche la fame di clic. Tutto perfettamente cinematografico, roba da film: il cattivo che fa il cattivo, innocenti persone travolte dalla follia, le telecamere ben appostate e tutto il resto.

Eppure, c’è da scommetterci, a mamma ‘ndrangheta il gesto di Francesco Amato non avrà sicuramente fatto piacere: anni e anni passati a sommergersi, tutto questo tempo per normalizzare (con tragico successo) la propria presenza sul territorio, un gran daffare per riuscire a fare passare quasi indisturbato un processo che avrebbe dovuto essere uno spartiacque per la consapevolezza della criminalità organizzata al Nord e poi arriva quello schifoso di Francesco Amato che rovina tutto.

Così magari ora qualcuno (anche tra i formidabili ministri) si accorgerà che dopo due anni di udienze si è concluso in primo grado un processo che ha visto 224 indagati, 160 arrestati di cui 117 in Emilia Romagna (dove la mafia non esisteva, ovviamente, per diverse parti politiche), e 54 presunti mafiosi. La sentenza di rito abbreviato aveva condannato già 40 persone mentre quella di quattro giorni fa registra 118 condanne per oltre 1200 anni di carcere. Un maxiprocesso vero e proprio che ha certificato una volta per tutte che non è vero (come si affrettarono a dire in molti, tra politici, imprenditori e associazioni di categoria) che in Emilia Romagna esistano fenomeni mafiosi ma piuttosto che esiste un vero e proprio sistema che opera al Nord esattamente come al sud, coinvolgendo la massoneria, pezzi di magistratura, professionisti, mass media, amministratori, pezzi di Chiesa. C’è la struttura gerarchica con un vero e proprio direttorio (Diletto Alfonso a Brescello, Sarcone Nicolino a Reggio Emilia, Lamanna Francesco a Mantova e Cremona, Villirillo Antonio sostituito poi da Gualtieri Antonio a Parma e a Piacenza e Bolognino Michele a Modena), ci sono gli imprenditori (quelli che avrebbero voluto passare per onesti lavoratori del nord e invece bussavano alla porta della mafia per ottenere liquidità e recupero crediti) e poi c’è la sottovalutazione generale, la minimizzazione di questi mesi e i soliti canoni dell’indifferenza che tornano sempre comodi alle mafie. Volendo esagerare c’è anche il campione del mondo: Vincenzo Iaquinta è stato condannato a due anni per porto abusivo d’armi e suo padre di anni se n’è presi 19 con l’aggravante mafiosa.

Eppure il ministro Salvini, sì, sempre lui, sul processo Aemilia non ha trovato il tempo di fare un misero tweet. Ci dice che gli fa schifo la mafia ogni volta che arrestano un pesce (anche piccolo) nel profondo sud ma non trova mai slancio per parlare di mafia al nord. Mai. E poi c’è la curiosità: ma se Francesco Amato vuole parlare (proprio come nei film) con qualcuno dei capi poiché è convinto di avere ricevuto una condanna ingiusta perché non chiede del ministro alla Giustizia? Perché, se vuole parlare con un capo di governo, non chiede del presidente del consiglio Conte o del presidente Mattarella? Perché è tutto un continuo, lurido, film.

E invece la lotta alle mafie ha bisogno di studio senza proclami, di consapevolezza sociale prima che politica, di una cultura che non scelga di premiare i furbi e i prepotenti, di leggi ben fatte e di un’informazione che analizzi più che inseguire il clamore. Si scoprirebbe che in Emilia Romagna (come in ogni regione di ogni angolo di Italia) sono ostaggi della ‘ndrangheta da un bel po’. Mica solo nell’ufficio postale.

Buon martedì.

 

 

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/11/06/sono-anni-che-a-reggio-emilia-sono-ostaggi-della-ndrangheta/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.