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marcello dell’utri

“L’amico degli eroi” al suo numero zero

A Monte Sant’Angelo (Foggia) il 30 dicembre per l’ottava edizione del Teatro Civile Festival organizzato da Legambiente, in collaborazione con Libera. Io, Cisco e la sua band al completo. Fossi in voi ci farei un pensierino. Se volete produrci la nostra produzione sociale è qui.

Il programma completo lo trovate qui.

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Il nostro progetto #lamicodeglieroi è in bilico: ecco perché.

Berlu-cappellone-800-800x540-680x365Come vi avevo scritto qui (prendendolo un po’ alla larga) oggi si può ufficialmente dire che il presunto “benefattore” che aveva deciso di sottoscrivere un contratto di coproduzione con noi di 7500 euro per il nostro spettacolo (e libro) L’amico degli eroi è ufficialmente non rintracciabile (sono in qualche link sparso per la rete tipo questo). Per i molti che ci chiedono come abbiamo potuto fidarci ripetiamo che in realtà è stato sottoscritto un regolare contratto di partecipazione alla produzione.

Ora però lo spettacolo è in preparazione, ovviamente, nonostante la nostra impossibilità di regolarizzare tutti i pagamenti.

Qualcuno mi chiede anche se il “danno” sia causato “premeditatamente” o no: questo lo lasciamo decidere a chi di dovere.

Di certo continuo a credere che una produzione sociale per il nostro spettacolo sia la formula che meglio rispecchia il nostro modo d’intendere il “fare teatro”.

Come scrivevo già qualche mese fa:

Certo poi alla fine le storie che racconti le paghi e non le cicatrizzi come dovresti, ne soffri le conseguenze e ne acquisisci i benefici, succede così a tutti, in ogni lavoro possibile ma in questi quindici anni alla fine ho imparato che nonostante gli sforzi (più o meno riusciti) di tenere libere le parole ogni libro ed ogni spettacolo sono il risultato del percorso di condivisione. Niente di troppo filosofico, eh: ragionarci insieme, litigarsi una scena o un capitolo, aspettare un cenno di approvazione o banalmente applaudire.  Poi pubblicare o andare in scena sono semplicemente la fase ultima, l’emersione di uno spigolo di tutto il resto.
Fare cultura in questo tempo è un lavoro terribilmente politico, inutile fingere, soprattutto se raccontando storie si decide di dichiarare la propria posizione. Fa politica ciò che dici, come lo scrivi, il pubblico a cui decidi di rivolgerti,  la storia che scegli e l’editore e il produttore.

Per questo ci siamo rimboccati le maniche e siamo partiti. Se volete aiutarci potete farlo qui, oppure condividendo, scrivendone, parlandone.

Come ci hanno azzoppato il progetto di produzione sociale “L’amico degli eroi”. E come non ci fermiamo.

La storia è una storia molto italiana e adesso ve la racconto per bene:

Come sapete stiamo preparando proprio in questi giorni lo spettacolo su Marcello Dell’Utri (e libro) che abbiamo intitolato “L’amico degli eroi”. Avevamo deciso che fosse una produzione “sociale” (attraverso la piattaforma “produzioni dal Basso”) che potesse permettere a noi di essere “liberi” da vincoli politici e a voi di partecipare alla costruzione dello spettacolo oltre che attivamente contribuire.

In poco tempo sulla pagina di raccolta fondi del progetto si era arrivati alla cifra stabilita per la produzione dello spettacolo e del libro di 10.000 euro. Tutto molto velocemente anche perché un produttore privato aveva prenotato ben 300 quote per un cifra di 7.500 euro.

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Ovviamente sapevamo quanto fosse rischioso che una sola persona avesse un peso così importante nel totale della produzione ma dopo alcuni incontri di persona avevamo la sensazione di avere di fronte qualcuno che avesse veramente a cuore il progetto e per di più abbiamo sottoscritto un contratto di partecipazione alla produzione che ci consentiva piena libertà artistica. Ci siamo sbagliati. Il signor Sciascia ad oggi non ha versato un solo euro di quelli promessi da contratto (oltre che dall’etica personale, ma vabbè) e così oggi siamo a pochissimo giorni da un’anteprima nazionale (qui le informazioni) con una produzione che deve ricominciare quasi da zero.

Andrò in scena lo stesso, figuratevi. Stiamo cercando di ottenere un allungamento dei pagamenti dai collaboratori e i fornitori. Non ci si ferma, figurarsi, però abbiamo bisogno di voi, se ne avete voglia. Dobbiamo ridare forza e visibilità al progetto a questo link.

Appena espletate le denunce pubblicherò qui i documenti firmati e le generalità del nostro “amico” (per rimanere in tema). Perché io (e non solo) sono tanto curioso di sapere chi ce l’ha mandato a cercare di sfanculare una nostra produzione. Siamo proprio curiosi, sì.

Marcello Dell’Utri il “coglionazzo”

Berlu-cappellone-800-800x540-680x365Prosegue nell’aula bunker l’interrogatorio di Angelo Siino:

Ha mai conosciuto Aldo Ercolano?
Si, era figlio del cognato di Santapaola, lo conoscevo nell’ambito della zona industriale di Catania. Eravamo abbastanza confidenti tra noi così come con altri personaggi della mafia catanese.
Lei ha conosciuto Salvo Andò?
No, me ne parlò l’Ercolano quando mi disse che era venuto nella zona industriale a raccomandare la questione socialista che era in atto allora: la questione dei voti che dovevano andare ai socialisti (votazioni ’87), era già successo in una votazione precedente. Si doveva votare per un personaggio che non contava, Tony Barba, ma era un segnale da dare ai politici per dire noi votiamo socialisti. Si trattava di elezioni regionali.
Lei ha mai sentito parlare da Ercolano o da altri di un progetto di uccidere Salvo Andò?
Non ricordo bene, poi l’Ercolano mi aveva detto che suo padre che allora reggeva il mandamento di Catania che era contrario a fare iniziative contro Andò.
Il pm gli contesta una sua dichiarazione del 24 novembre 1999 al processo di appello Capaci. In quella occasione Siino diceva che Ercolano gli aveva detto che Andò prima si era preso i voti e poi si diceva che era amico del dott. Falcone e quindi doveva essere eliminato.
Si ricordo, la mia esitazione era che i due periodi erano diversi. Di questo progetto se ne parlava dopo l’uccisione di Falcone, Salvo Andò si professava amico di Falcone ed era molto critico nei confronti dell’omicidio perpetrato a Capaci. In quella occasione Ercolano diceva che si doveva ammazzarlo così come Martelli perché si erano fottuti i voti e poi tiravano i calci come gli asini.
Da chi ebbe queste informazioni?
Io ero codetenuto con Francesco Mangion vice rappresentante della famiglia di Catania che, riferendosi a Ercolano mi diceva: ma questo manco lo conosce Salvo Andò, che va dicendo? Sono tutte fesserie. Io lo ascoltavo senza interesse.
Lima con lei ebbe mai a commentare l’incarico a ministero della Giustizia che Martelli conferì a Falcone.
Me lo commentò in parecchie circostanze, quando io mi lamentavo dei detenuti liberati e poi subito riarrestati lui mi diceva: ma tu hai capito quello che hanno combinato gli amici tuoi? Vedi quello che sta succedendo, pensavate che ‘u preside, che era Andreotti, non lo capiva questa situazione? Si sarebbe vendicato… quel cane rognoso, così chiamava Falcone, ora è diventato primo dirigente del ministero della giustizia.
Lima le esplicitò a quale situazione si riferisse?
Si era la questione del decreto che aveva riportato i miei amici mafiosi in galera, quelli che avevano creato l’accordo con Martelli per farlo votare.
Nino chiede con riferimento alla strage di via D’Amelio, lei nel periodo successivo ebbe a commentare o ascoltare commenti da esponenti di uomini di Cosa Nostra.
Si, avvenne in più occasioni, furono soprattutto Pippo Calò e Bernardo Brusca a lamentarsi dicendo chi fu quella bella mente che gli venne in mente di fare questa cosa? Io non sapevo nulla. Sia Brusca che il Calò si lamentavano che loro non avevano saputo niente ed era stato il personaggio che si era preso questa responsabilità. Io dicevo: non lo so non sono alla mia altezza, non so chi possa avere dato questo input.
Brusca e Calò si lamentavano di qualcosa in particolare?
Si non capivano chi e perché aveva deciso una cosa del genere.  Ho avuto modo di parlarne a Termini Imerese, lì ho incontrato Brusca, Calò e Montalto che mi dissero che non sapevano chi fosse stato il personaggio che aveva deciso di uccidere Borsellino, c’erano dei problemi che avevano portato all’accelerazione dell’uccisione di Borsellino. Confermo questa mia dichiarazione, c’era un sacco di gente che diceva che le cose dopo l’uccisione di Falcone si erano quietate e quindi perché avevano fatto quest’altra cosa che aveva portato al 41bis a tante persone? Questo me lo aveva detto Bernardo Brusca e Pippo Calò.
Ci furono altri commenti?
Non ricordo.
Lei ha conosciuto Marcello Dell’Utri?
Si l’ho conosciuto per una circostanza casuale, i fratelli Dell’Utri erano 3, uno di questi era compagno mio di scuola media, gli altri due erano liceali. Erano delle persone che sapevano giocare bene a calcio. Ho avuto modo di conoscerli. Con il fratello piccolo, che poi morì, ero compagno di scuola e avevo più confidenza.
Lei ha mai incontrato a Milano Marcello Dell’Utri?
Si una volta che andai a Milano usciva da un edificio di costruzione del periodo fascista insieme ad altri personaggi che sapevo essere residenti a Milano, o vicini o membri di Cosa Nostra. Io ero andato a Milano e successivamente in Svizzera con Stefano Bontate, siamo nel periodo antecedente agli anni’80, nel periodo in cui c’era Sindona a Palermo.
Quando vide scendere Marcello Dell’Utri riesce a indicare quella scena?
La scena la potrei dipingere, ma non ricordo con chi era, mi pare con personaggi di Cosa Nostra palermitana ma non ricordo chi fossero.
Lei il 15 settembre del ’97 ha riferito: in genere io attendevo in macchina il Bontade, vidi scendere il Bontate, un fratello Martello, forse Alessandro, Mimmo Teresi e uno dei fratelli Dell’Utri che mi fu presentato come Marcello.
Confermo.
Lei ha mai saputo se Marcello Dell’Utri avesse avuto rapporti finanziari con Vito Ciancimino?
Si c’è stato un momento che l’hanno avuti ma Ciancimino lo definiva un coglionazzo, mi venne detto anche da Stefano Bontate. Io dicevo: questo si è comprato la Venchi Unica, poi la Bresciana costruzioni, aveva fatto degli affari con Vito Ciancimino che era legato a un personaggio di Villabate, un consigliere comunale di Palermo della sua corrente. Questo me lo disse Vito Ciancimino e si riferiva ad affari avuti precedentemente a quel momento (fine anni ’70) li aveva avuto nella prima metà degli anni ’70. Anche Stefano Bontate mi parlò di questi rapporti tra Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri. Eravamo in una via famosa di Milano.
Lei nel verbale del ’97 disse: Stefano Bontate mi aveva detto di affari tra Vito Ciancimino e Marcello Dell’Utri nell’edilizia.
Si, la Bresciana costruzioni.
Lei quando era detenuto in relazione alle elezioni del 1994 ha avuto modo di parlare con mafiosi di rango così da avere notizie sulle indicazioni di Cosa Nostra?
Ho avuto modo di avere parecchi contatti all’interno del carcere di Termini Imerese, quando usciva il primo turno d’ora d’aria passava dalle celle e io ero soddisfatto perché tutti gli uomini di alto rango di Cosa Nostra passavano da me per avere consigli da me su questioni politiche ed altro. Io ero stato presentato da un certo Guarneri di Canicattì come uomo d’onore. In quelle occasioni mi venivano chieste indicazioni o mi dicevano quello che dovevano fare. Avevano detto a mia moglie che io dovevo far votare Forza Italia. Io avevo cercato di sminuire la cosa perché non volevo che mia moglie si occupasse di quella cosa. Io sempre con i limiti del 41bis ho avuto modo di sentire altre persone e di fare rinioni e quindi dissi a tutti che si doveva votare per Forza Italia. Anche all’aula bunker di Caltanissetta all’udienza preliminare Leopardo con Piddu Madonia mi disse: Angelo per chi dobbiamo votare? Io dissi forte Forza Italia, ma anche per Violante, per sviare l’attenzione.

(link)

L’amico di Marcello e la mafia: Natale Sartori

Associazione a delinquere, false dichiarazioni di redditi per 31 milioni ed emissione di false fatture per 92 milioni. Con queste accuse è finito in carcere a Milano Natale Sartori, messinese, classe ‘58, legato alle figlie di Vittorio Mangano, nonché indagato (e poi prosciolto) per aver favorito la latitanza di Enrico Di Grusa, il genero dell’ex fattore di Arcore. Sartori, ha dimostrato un’indagine della Dia, fino ad almeno gli anni Novanta era in contatto diretto con Marcello Dell’Utri, l’uomo che portò Mangano ad Arcore, oggi condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il campo che unisce Sartori, le figlie dello “stalliere” e Di Grusa è quello delle cooperative di facchinaggio, pulizie, servizi. Nello scorso agosto Cinzia Mangano, una delle tre figlie di Vittorio, è stata condannata in primo grado a Milano a sei anni e quattro mesi per associazione a delinquere. L’inchiesta era partita da una rete di cooperative che, secondo l’accusa, riciclavano denaro sporco anche per aiutare i familiari degli arrestati e i latitanti. Una sorta di succursale della mafia siciliana a Milano, attiva già negli anni ’90. Sartori, inoltre, era stato fotografato nel 2010 dai carabinieri del Ros insieme a Paolo Martino, manager della ‘ndrangheta condannato in secondo grado.

Oltre a Sartori, ora detenuto a San Vittore, altre cinque persone sono finite ai domiciliari nell’indagine, coordinata dal colonnello Gabriele Procucci del nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza e dal pm Carlo Nocerino, che vede 21 indagati. Tra questi un funzionario di Bpm accusato di riciclaggio. L’inchiesta nasce da una segnalazione di Bankitalia su operazioni sospette. Segnalazione a sua volta ricevuta da vari istituti, tra cui Bpm, a proposito del suo dipendente.

Secondo gli investigatori, ci sarebbe stata “un’unica cabina di regia” dietro la frode a gestione ‘familiare’ da 31 milioni di euro che ha portato in carcere Sartori, titolare dell’Alma Group e amministratore di fatto di otto cooperative della “galassia” del gruppo. In cella anche Bruno Righetti, suo uomo di fiducia, mentre sono stati posti ai domiciliari la moglie separata, Provvidenza Giargiana, le loro due figlie Tiziana e Cristina Sartori, e i professionisti Roberto Notargiacomo e Andrea Gorgoglione. Il Consorzio Alma Group, specializzato in pulizie, trasporto merciper conto terzi e movimentazione di magazzino, si è aggiudicato decine di appalti privati, compresi quelli di alcune grandi catene di supermercati come Esselunga, Conad e Il Tirreno. Il gruppo operava ‘a due facce’, scrive il gip Vincenzo Tutinelli: verso i grandi committenti con normali logiche commerciali, ma”‘verso il basso il modus operandi trascende/sconfina nell’illegalità”, con le coop che di fatto diventavano “società a scopo di lucro”.

Secondo l’accusa, ad Alma Group facevano capo otto cooperative fittizie, le quali avrebbero emesso fatture per operazioni inesistenti per 92 milioni, Iva compresa ( e da loro mai versata), a favore di Alma Group consentendo a quest’ultimo di detrarre illegittimamente l’imposta. Si tratta di un sistema fraudolento di cui il “dominus”, si ipotizza, era Sartori.

(click)

Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano. E che protesse, a modo suo, un giovane signore.

Un vecchio articolo (dovrebbe essere del 2008)  che vale la pena non perdere:

Storia di un ragazzo che emigrò da Palermo a Milano. E che protesse, a modo suo, un giovane signore
di ENRICO DEAGLIO

Vittorio Mangano è morto giovane, neanche 60 anni. Ed è morto male. Carcerato da cinque anni, giallo come un limone per un tumore che gli aveva invaso il fegato, aveva 18 litri di acqua nella pancia l’ultima volta che gliela siringarono. All’inizio di luglio dell’anno scorso, viene trasportato dalla sezione di massima sicurezza di Secondigliano a casa, in via Petralia Sottana, Palermo. I funerali hanno seguito un costume in voga tanto a Palermo quanto nel New Jersey quando il defunto è accomunato a Cosa nostra. “Via i fotografi, rispettate il nostro dolore”, intima la famiglia. “Fotografate tutti, con discrezione”, dà ordine il magistrato. Poche persone, abitanti del quartiere, sono intervenute per l’ultimo saluto nella Chiesa di San Gabriele, quartiere Villa Tasca, i luoghi in cui Mangano aveva abitato e in cui, per diversi anni, aveva esercitato il “controllo”.Era il 23 luglio del 2000 e i giornali non diedero tanto spazio alla sua morte. D’accordo, era un boss ed era stato lo “stalliere” di Arcore. Ma non era un super boss, ed era sempre stato un tipo discreto.Non tutti i giornali, a dire il vero. La stampa controllata dal gruppo Berlusconi dedicò a Vittorio Mangano articoli commossi: era morto un martire, torturato dallo Stato con la carcerazione dura, era morto un uomo che aveva rifiutato di “barattare la dignità con la libertà”. Il Giornale, il Foglio, Panorama – tutti ispirati dalla penna del giornalista Lino Jannuzzi – erano concordi: Vittorio Mangano aveva affrontato il carcere con la potente serenità di un eroe risorgimentale. Che cosa chiedevano i suoi torturatori? Che denunciasse, ai magistrati comunisti, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Se l’avesse fatto, sarebbe stato libero e avrebbe potuto curarsi, ma lui non lo fece. Un eroe popolare, come il partigiano musicato nel “Ma mi, ma mi, ma mi quaranta dì, quaranta nott” da Giorgio Strehler. Gli stessi giornali del gruppo Berlusconi facevano notare che, nonostante condanne all’ergastolo per tre omicidi, traffico di stupefacenti, associazione mafiosa, estorsione, Vittorio Mangano non era un condannato definitivo, e quindi, un “presunto innocente”. Mi sono chiesto perché non lo avessero detto prima, ma forse l’avevano detto e mi era sfuggito. Ma, ragionando, mi sembra che la task force berlusconiana abbia avuto ragione nel tributare onori all’uomo d’onore. Vittorio Mangano, se (sotto tortura o sotto promessa) avesse parlato, sarebbe stato in grado di mettere nei guai tanta gente importante. Ma ora la storia era finita. E, come dicono a Palermo, “quando uno muore bisogna pensare ai vivi”. Mi auguro che abbiano pensato alla famiglia Mangano. Tutta questa vicenda è diventata ora, in campagna elettorale, argomento scottante, da quando la Rai ha trasmesso una dimenticata intervista al magistrato di Palermo Paolo Borsellino. L’aveva registrata il giornalista francese Fabrizio Calvi, nell’ambito di un’inchiesta sui “padrini” europei. Era il 1992, Paolo Borsellino appariva rilassato e non aveva difficoltà a parlare diffusamente della mafia, della sua ascesa a Milano, di Vittorio Mangano, Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi, i primi due all’epoca personaggi sconosciuti al grande pubblico, il terzo invece noto per essere il magnate delle televisioni private. Disse che erano persone che gli erano note dalle segnalazioni di polizia, e su cui era in corso un’indagine a Palermo. Parlava tranquillamente, il magistrato; senza pompa, vestito con una maglietta, raccontava di traffici di droga e della strategia imprenditoriale della mafia siciliana. Non immaginava che due giorni dopo il suo amico Giovanni Falcone sarebbe saltato in aria; che lui ne avrebbe raccolto l’eredità, e che lui stesso sarebbe saltato in aria 50 giorni dopo. E non sapeva neppure, il giudice Paolo Borsellino, che un caro amico di Vittorio Mangano, l’imprenditore Salvatore Sbeglia, stava proprio in quelle ore mettendo a punto il telecomando con il quale sarebbe stato fatto saltare Giovanni Falcone.Nel 1992 Vittorio Mangano, aveva assunto la reggenza della famiglia mafiosa di Porta Nuova – una delle più numerose ed estese di Palermo – e lavorava a pieno ritmo. Un cinquantenne ben vestito e dai modi urbani; non aveva pendenze giudiziarie, poteva circolare liberamente e quindi gli venivano dati anche incarichi di rappresentanza, come il far giungere, attraverso un avvocato di Roma, 200 milioni al giudice Corrado Carnevale. Il suo periodo milanese, i suoi due anni trascorsi a casa di Silvio Berlusconi, gli avevano dato inoltre un certo carisma: Vittorio Mangano era un uomo che aveva conosciuto tante persone importanti. Strana storia. Per cercare di capirla, bisogna tornare indietro nel tempo, alla Milano degli anni Settanta. Anni difficili, per gli imprenditori. Non solo per le vaste agitazioni sociali e la prospettiva di un aumento elettorale del Partito comunista, ma anche per la diffusa violenza che dominava la metropoli. Le Brigate rosse sparavano, l’Anonima sequestri rapiva, la P 2 occupava il Corriere della Sera, la mafia aveva nelle sue mani i più importanti banchieri, Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano e Michele Sindona, il “salvatore della lira”. Cosa nostra era salita da Palermo a Milano in forze, perché a Milano si potevano fare buoni affari. Loro mettevano i loro metodi spicci di gestione, ma soprattutto portavano in dono due merci molto appetibili: il capitale e la protezione. A quei tempi, infatti, Cosa nostra era ricchissima e “liquida”, per il più redditizio commercio che l’Italia abbia mai avuto: acquisto di droga dall’est, raffinazione in Sicilia e spedizione negli Stati Uniti e in Canada. I siciliani avevano praticamente il monopolio del mercato nordamericano e spuntavano profitti da capogiro. I soldi dai cugini americani arrivavano nella forma più classica: assegni, con cifre che andavano da un milione di dollari in su. Non c’erano controlli bancari all’epoca, né la Banca d’Italia trovava curioso che signori che a malapena sapevano fare la propria firma sulla girata incassassero, senza muovere un muscolo della faccia, miliardi. Miliardi che ora avevano voglia di far fruttare. Scelsero Milano, la metropoli più aperta, pragmatica, la città che non respinge nessuno. E non era solo una questione di riciclaggio di denaro: i ragazzi di Cosa Nostra volevano riciclare se stessi. Volevano le belle macchine, volevano entrare in società, volevano essere dei borghesi come tutti gli altri. Era una grande colonia, quella della mafia siciliana a Milano, roba da farci un film, all’americana. La famiglia Grado controllava l’ortomercato e forniva l’eroina per il nascente mercato dei tossicodipendenti. Luciano Liggio organizzava i sequestri di persona dietro la rispettabile veste di commerciante di vino. Tommaso Buscetta si occupava di bische in accordo-scontro con la vecchia mala della città (e ancora oggi si parla di quando Pippo Bono perse un miliardo da Francis Turatello, nella bisca di via Panizza). I fratelli Bono (Alfredo, con una faccia da democristiano per bene, Pippo che girava in Rolls Royce) accumulavano buone amicizie con la finanza milanese e prendevano il controllo dei casinò del conte Borletti. Poi c’erano i Mongiovì, braccio locale della multinazionale della droga Cuntrera-Caruana. I cugini Salvo, i grandi esattori di Salemi, venivano discretamente ad ordinare le prime due Alfa Romeo blindate direttamente dal presidente dell’Alfa Antonio Massacesi. Ma il più appariscente della compagnia era un certo Filippo Alberto Rapisarda che, venuto dal niente della profonda Sicilia, aveva costruito quello che lui chiamava il terzo gruppo immobiliare italiano. Un tipo sanguigno, ben vestito, capace di improvvisi e violentissimi scoppi d’ira, Rapisarda aveva il suo quartier generale in via Chiaravalle, in uno splendido palazzo dagli ampi saloni e dai soffitti affrescati. Lo aveva dotato di telecamere e lo faceva controllare da un buon gruppo di guardaspalle. In via Chiaravalle, Rapisarda concludeva operazioni di borsa, acquisiva storiche aziende del Nord Italia, ma il luogo era anche un indirizzo conosciuto per gente che aveva problemi con la giustizia e che veniva a chiedere se c’era qualche buon affare cui partecipare. Se la sede fisica di Cosa Nostra a Palermo non è stata mai trovata, quella della sua filiale milanese era ben nota alla polizia. (A questo punto, per non dilungarci troppo in nomi e sigle, rimando ad un ottimo lavoro di due giornalisti, Peter Gomez e Leo Sisti che nel 1997 hanno pubblicato, dall’editore Kaos il libro L’intoccabile, Berlusconi e Cosa Nostra. Dove scoprirete, spesso sobbalzando, quante inchieste, quanti chilometri di intercettazioni, quante segnalazioni di reati fossero in atto allora sui nostri potenti di oggi). Ma che c’entrava Silvio Berlusconi – un giovane imprenditore che più milanese non si può – con questo mondo? C’entrava attraverso il suo “segretario particolare” Marcello Dell’Utri, che invece in quel mondo era molto inserito. E così successe che il giovane Berlusconi venne pesantemente minacciato, perché questo era il sistema dei siciliani. Misero una bomba ai suoi uffici, minacciarono di rapirgli il figlio. Una volta, a Palermo queste cose le chiamavano “fucilate di chiaccheria”. Ovvero: tu spari a uno, ma non per colpirlo, solo per fargli sentire il colpo che passa vicino. Lui si spaventa e allora si comincia a “chiacchierare”. Cioè, si diventa soci. In buona sostanza, Dell’Utri si fece garante della sicurezza di Berlusconi e, per rendere la cosa ufficiale, gli mise vicino un “tutore”. Era un ragazzo di Palermo, che lui aveva conosciuto sui campi di calcio. E così Vittorio Mangano prese possesso della villa di Arcore, una prestigiosa magione di 147 stanze che Silvio Berlusconi aveva appena comprato e aveva pagato poco, grazie alle arti del suo avvocato Cesare Previti. Vittorio Mangano, per prendersi cura del padrone, lo seguiva in molte delle sua attività: controllava la villa, curava i cavalli, mangiava a tavola con gli ospiti illustri del giovane imprenditore, si occupava della sicurezza dei figli Marina e Piersilvio. Nella grande villa aveva portato la sua famiglia e ospitava spesso molti suoi amici. Alcune volte questi amici rubavano un quadro, o un pezzo di argenteria. Spesso erano il fiore fiore dei latitanti di Cosa nostra, che ad Arcore evidentemente sapevano di avere un punto di appoggio. E un sera, visto che c’erano, decisero di fare un sequestro di persona di un ospite in villa, che però non riuscì. Così si scoprì che questo Mangano non era proprio uno stinco di santo e che della compagnia dei rapitori faceva parte anche Pietro Vernengo, questo sì un vero boss specializzato in droga. Ci fu un’inchiesta, Mangano venne accusato, ma in realtà non ebbe molti guai. Si trasferì stabilmente in un grande albergo di Milano, il Duca di Milano, fece per un po’ l’autista di Pippo Bono, rimase in buoni rapporti con Marcello Dell’Utri, commerciò droga e infine se ne tornò a Palermo dove, nel suo ambiente, era conosciuto come una persona importante, perché aveva buoni contatti con Silvio Berlusconi e Cosa nostra gli diede la reggenza della famiglia di Porta Nuova. Che, volendo fare un paragone indebito, è un po’ come se gli avessero dato la vicepresidenza della Confindustria.È passato alle cronache come lo “stalliere”, ma Mangano era un servo padrone. Fece bene il suo lavoro, perché Berlusconi non venne più tormentato, ma ancora oggi si possono trovare dei milanesi vecchio stile che ti dicono: “Sì, sarà anche bravo quel Berlusconi, ma non mi piace che abbia fatto allevare i suoi figli da un capo della mafia”. Poi cominciarono a venir fuori altre storie. Quel Filippo Alberto Rapisarda fece bancarotta e se ne scappò latitante. E Marcello Dell’Utri, che, con il suo fratello gemello Alberto era stato suo dipendente, lo seguì nella sua avventura. Storiacce: passaporti falsi, giri brutti, minacce e ricatti. State a sentire questa. Rapisarda se ne stava a Parigi con un passaporto intestato Dell’Utri e faceva una bella vita. Nel 1980 si presenta a lui un sequestratore sardo, tale Giovanni Farina di Tempio Pausania, che aveva rapito un bel po’ di persone ricche (in nome della rivoluzione: il suo riferimento ideologico era Antonio Gramsci) e gli chiede un passaporto perché ha voglia di cambiare vita. Rapisarda glielo procura e Giovanni Farina parte per il Sudamerica con un passaporto intestato a Marcello Moriconi, nato a Gualdo Tadino, provinca di Perugia. Lo prenderà l’attuale vice capo della polizia, Antonio Manganelli. Andrà in galera a Siena, uscirà. E solo l’altro ieri taglierà un pezzo di orecchio all’industriale bresciano Giuseppe Soffiantini.Una bella compagnia, in cui tutti sono amiconi. Ma poi succede che il Rapisarda litiga con Marcello Dell’Utri e si mette a raccontare un sacco di storie. Per esempio: che l’idea della televisione l’ha avuta lui e non il Berlusconi. Che la televisione stessa è stata finanziata da Stefano Bontade (negli anni Settanta il più potente capo mafia di Palermo) e che poi la stessa Cosa nostra ha fornito i miliardi per comprare i diritti dei film americani. In pratica, che Cosa nostra è socia del Biscione. Insieme a lui, qualcosa come 17 “pentiti” palermitani aggiungono dettagli sulle origini e sviluppi di questa curiosa intrapresa palermitana-lombarda. Che, se fosse vera, sarebbe per Cosa nostra il più grande colpo di genio. Ma sarà molto difficile andare a fondo della questione: pezzi di carta non ce ne sono, molta gente nel frattempo è morta, Berlusconi è l’uomo più ricco d’Italia, la sua società è da tempo quotata in Borsa e lui è l’uomo politico più glamour del Paese.La cosa si complica quando Berlusconi “scende in campo”. Si sa che lui era tentennante, ma alla fine venne convinto a “bere l’amaro calice”. Era il 1994 e, come ricorderete, prese un sacco di voti e divenne addirittura presidente del Consiglio. Oggi propone di cambiare la Costituzione, di limitare il potere dei giudici, di abolire il reato di falso in bilancio. Il suo amico Marcello Dell’Utri – che in pochi mesi gli ha costruito Forza Italia – nel frattempo, è diventato un “raffinato bibliofilo”. Nel 1994 sfiorò l’arresto, per mafia. Poi venne eletto deputato. La Procura di Palermo chiese il suo arresto (per mafia), ma il Parlamento ha votato contro. Siede anche all’Europarlamento. Ha avuto una condanna definitiva. Da anni, per difendersi e per spiegare, rilascia un’intervista alla settimana, più o meno. Molti discutono su quale sia la migliore. Per me è quella pubblicata dal Corriere della Sera il 19 giugno 1995. Marcello Dell’Utri usciva da 20 giorni di detenzione nel carcere di Ivrea; era stato arrestato per false fatture della Publitalia di cui era presidente. Ai giornalisti, leggermente allibiti, dichiarò: “Meglio D’Alema che tanti del Polo. Se vogliamo uscire da questa guerra continua che avvelena il Paese, ho la sensazione che D’Alema sia il più disponibile, quello che cerca il dialogo…”.Massimo D’Alema non lo deluse. Presidente della commissione bicamerale per le riforme istituzionali, chiamò a riscrivere la Costituzione proprio un Silvio Berlusconi all’epoca nel pieno di accuse di corruzione. Questi gli chiese solamente di promuovere delle leggi che non lo facessero andare in galera. Un po’ le ha ottenute. Tutte le altre le otterrà se vincerà le prossime elezioni.A conclusione di questa storia, mi sembra di poter dire che i ragazzi di Palermo che sbarcarono a Milano negli anni Settanta hanno sostanzialmente vinto la loro partita. Sono entrati in società, hanno investito i loro quattrini, non hanno trovato particolari resistenze da parte della borghesia del Nord. Pur disponendo di una massa enorme di documenti, nessun partito politico italiano ha mai sollevato il tema. Nessuno ha mai proposto un’inchiesta parlamentare. Così come 30 anni fa la borghesia del Nord accettò l’abbraccio della mafia che, tutto sommato, portava soldi; così oggi nessuno pensa che quello che si è unito si possa separare. Anche perché, a questi siciliani, se gli togli i picciuli, ti mettono le bombe. E l’Italia di oggi non ha voglia di combattere. A dire il vero, un uomo politico che sparò a zero su Berlusconi e la mafia c’è stato. Era Umberto Bossi, appena un anno fa. Oggi è il più fedele alleato di Berlusconi. Così andiamo alle elezioni, con un Berlusconi costretto sempre più ad alzare il tiro, perché i suoi vecchi amici gli tirano la giacchetta: “Silvio, Silvio, ricordati di noi…”, gli dicono. Esattamente come gli dicevano 30 anni fa. Poveracci, Silvio e Marcello: non deve essere stata una bella vita la loro, con tutte le persecuzioni che hanno subito. Non so perché, ma e me Silvio ha sempre dato l’impressione di essere ancora sotto tutela. Spero che la prossima generazione non sia costretta a studiare “giovinezza, opere e martirio di Vittorio Mangano”. Per intanto mi permetto di proporre a Paolo Guzzanti, Lino Jannuzzi, Stefano Zecchi, Vittorio Sgarbi, Tiziana Maiolo, Giuliano Ferrara, Paolo Liguori, Emanuele Macaluso, Vittorio Feltri di organizzare, su di lui, almeno un convegno di studi. In fin dei conti, è l’unico che non ha vinto.

Quindi è possibile

Quando abbiamo deciso di lanciare una produzione “sociale” per lo spettacolo (e libro) L’amico degli eroi (ne scrivevamo qui) sono stati in molti a dirci che non sarebbe stato possibile raggiungere il risultato senza il contributo di qualche ente, teatro o amministrazione. E invece no: il traguardo è stato raggiunto ieri con largo anticipo ultimo e già oggi stiamo inviando ai nostri “produttori” la seconda scena (o capitolo, che qui si balla sempre tra palcoscenico e pagine). Certo ci siamo incastrati poiché non ci bastano rendicontazioni acrobatiche per accontentare i termini di legge ma su questo progetto lavoriamo sulla soddisfazione, che è una parola bellissima, davvero, se non fosse stata scippata dal marketing metallizzato. Soddisfare i lettori e gli spettatori adesso è il nostro lavoro, senza altri rimbalzi. E io ne sono onorato. Onorato e felice.

Grazie, davvero.

Che poi

Stupirsi e rilanciare in prima pagina la notizia di Totò Riina che conferma il pagamento regolare del pizzo a Cosa Nostra da parte di Silvio Berlusconi (con Vittorio Mangano come utile intermediario) significa non avere compreso, letto e nemmeno mai discusso con nessuno della sentenza di condanna infilitta a Marcello Dell’Utri. In quella sentenza c’è scritto questo e molto altro ma evidentemente è sfuggita. Guarda il caso, a volte, come si dice.

(E guarda il caso è proprio ciò su cui stiamo lavorando noi qui).

Perché produrre con noi “L’amico degli eroi” secondo Carla

berlusconi-mangano-dellutriCarla ci scrive i motivi che l’hanno spinta a coprodurre con noi il progetto “L’amico degli eroi”. Se volete (e potete) darci una mano potete farlo anche voi qui.

Teramo, 23 agosto 2014

Ciao Giulio, sono passate circa due settimane dalla mail con cui chiedevi di scrivere o registrare il perché dell’adesione alla tua produzione sociale “L’amico degli eroi”. Ho provato a farlo in video, ma per ora non viene bene. Riproverò. Forse con le citazioni ho appesantito il mio discorso. Porta pazienza: è deformazione professionale… ed anche un po’ timore che le mie sole parole non bastino a rendere l’idea. Ed allora ecco:

aderisco ai contenuti, alla rabbia, all’indignazione, ai modi, ai toni, al colore, al desiderio, che vedo nel tuo impegno e che per me sono i presupposti per la costruzione di una nuova antropologia: “Penso che sia necessario educare le nuove generazioni al valore della sconfitta. Alla sua gestione. All’umanità che ne scaturisce. A costruire un’identità capace di avvertire una comunanza di destino, dove si può fallire e ricominciare senza che il valore e la dignità ne siano intaccati. A non divenire uno sgomitatore sociale, a non passare sul corpo degli altri per arrivare primo. In questo mondo di vincitori volgari e disonesti, di prevaricatori falsi e opportunisti, della gente che conta, che occupa il potere, che scippa il presente, figuriamoci il futuro, a tutti i nevrotici del successo, dell’apparire, del diventare. A questa antropologia del vincente preferisco di gran lunga chi perde. E’ un esercizio che mi riesce bene. E mi riconcilia con il mio sacro poco.” (Pier Paolo Pasolini)

aderisco soprattutto al COME di questo progetto. Mi riempie di gioia leggerti quando dici “Ho scritto e detto dappertutto che il lavoro vogliamo svolgerlo insieme a tutti i nostri produttori, quindi voi, e insieme raccoglieremo tutti gli eventuali suggerimenti e eventuali critiche”. Trovo sia un grande salto quantico. E’ quello che si chiama “coevoluzione”. La diponibilità, l’apertura all’altro sguardo, la fatica che ne consegue rappresentano il tipo di esperienza che dovremmo imparare a vivere. “Sta diventando generale, ai nostri tempi, una grottesca incapacità dell’intelletto umano a intendere che la vera garanzia della propria persona non si raccomanda già agli sforzi dell’individuo isolato, ma all’universale comunanza umana”. (Fëdor Dostoevskij)

aderisco alla grande voglia di futuro che si respira sempre nelle tue storie e che mi aiuta a riflettere sulle bugie che ci raccontiamo: quelle piccole e quotidiane, quando la vita ci dice di andare avanti ma noi ci fermiamo per paura pigrizia opportunismo o quando c’invita a respirare consapevolezza davanti al bivio per evitare l’inerzia; quelle grandi e collettive, quando scegliamo di fingere di non vedere oppure di opporci. Aderisco alla tua “finzione” (non fiction) perché ho imparato che certe volte fingere serve ad opporsi. “Insomma, gli era presa quella smania di chi racconta storie e non sa mai se sono più belle quelle che gli sono veramente accadute e che a rievocarle riportano con sé tutto un mare d’ore passate, di sentimenti minuti, tedii, felicità, incertezze, vanaglorie, nausee di sé, oppure quelle che ci s’inventa, in cui si taglia giù di grosso, e tutto appare facile, ma poi più si svaria più ci s’accorge che si torna a parlare delle cose che s’è avuto o capito in realtà vivendo.” (Italo Calvino)

aderisco alla felicità di portare nel tuo progetto il mio “sacro poco”, che non è “poco sacro”. “è come andare per il mondo incinti di quello che il mondo, di fatto, al momento, non è, non sa, non può” (Luisa Muraro). Buon lavoro e spero a presto. Ma, soprattutto, Grazie della tua fiducia.