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molestie

Chiedere scusa

Sono tra quelli che hanno provato un certo ribrezzo nell’assistere alle accuse contro Asia Argento durante la puntata di Carta Bianca, condotto dalla Berlinguer, con Vladimir Luxuria e il direttore di quel giornalaccio che è Libero.

Se è vero che Senaldi (parecchio in difficoltà, c’è da dire) ha dovuto sostenere quel bullismo che è l’ingrediente principale della sua linea editoriale è vero che Luxuria è apparsa molto diversa da quella che molte volte ha sostenuto battaglie in fondo così simili a quelle del movimento #metoo e #quellavoltache.

Bene. Vladimir oggi si scusa. E non è per niente scontato chiedere scusa di questi tempi, in cui l’essere fragili sembra un vizio. Tanto di cappello, quindi.

Ecco la sua lettera a Asia Argento:

«Sono giorni che mi porto dentro un magone e adesso trovo la forza di chiedere scusa ad Asia e a tutte le donne che si sono sentite ferite dalle mie parole.
Il destino, il karma o la provvidenza (ognuno la chiami come vuole) mi ha fatto conoscere proprio il giorno dopo la trasmissione una donna che mi ha raccontato di una violenza subita 30 anni fa e che quando si era confidata per la prima volta nessuno le aveva creduto. Ha pianto davanti a me e io mi sono sentita di merda.
Di merda perché ero così presa da me e dal predicozzo che avevo preparato da non essere stata in grado di leggere negli occhi le tue lacrime. Perché per troppo tempo mi sono lasciata deviare dai demoni del sospetto e della diffidenza.
Ho esagerato e non ho dimostrato compassione e solidarietà. Mi sono rivista nella puntata e mi sono fatta schifo da sola nel riconoscermi.
Tanti miei amici e persone con cui ho condiviso tante battaglie mi hanno fatto ulteriormente capire con i loro giusti rimproveri e incazzature che ormai avevo perso senno e strada.
Lo so Asia che è troppo tardi e non pretendo che tu possa accettare le mie scuse ma ti giuro che sono sincere. In questi giorni sto molto male e non posso chiedere a nessuno un conforto perché io non sono stata in grado di farlo.
Ti ringrazio anche di non essere mai scesa a insulti transfobi per accusarmi: sei sempre stata con noi nelle battaglie Lgbt e credo anche io che saresti una testimonial contro tutte le violenze.
Vorrei abbracciarti e ritrovare nei nostri occhi non più rancore ma la gioia di vivere che auguro a tutte coloro che hanno sofferto in passato e che vogliono combattere.
Ti voglio bene
Vladimir Luxuria»

Beh, meglio così.

«Gli uomini molestano perché possono farlo. Le donne stanno parlando oggi perché, in questa nuova era, finalmente possiamo farlo.»: Salma Hayek (tradotta bene)

HARVEY WEINSTEIN era un appassionato cinefilo, un uomo capace di assumersi dei rischi, un mecenate di talenti cinematografici, un padre amorevole e un mostro.

Per anni, è stato il mio mostro.

Questo autunno, sono stata avvicinata da dei giornalisti, attraverso diversi canali, compresa la mia cara amica Ashley Judd, perché raccontassi un episodio della mia vita che, benché sia stato doloroso, pensavo di aver superato. Mi ero fatta da sola il lavaggio del cervello al punto di convincermi che fosse passata e che fossi sopravvissuta; ho sfuggito la responsabilità di parlarne con la scusa che c’erano già abbastanza persone intente a gettare luce sul mio mostro. Non pensavo che la mia voce fosse importante, né che avrebbe fatto qualche differenza.

In realtà, quello che stavo facendo era cercare di risparmiarmi la sfida di spiegare alcune cose ai miei cari: perché, quando ho occasionalmente detto di essere stata bullizzata, come molti altri, da Harvey, ho omesso alcuni dettagli. E perché, per così tanti anni, siamo stati in buoni rapporti con un uomo che mi aveva ferita così profondamente. Ero stata orgogliosa della mia capacità di perdonare, ma il semplice fatto che mi vergognassi di descrivere i dettagli di ciò che avevo perdonato mi ha fatto dubitare che quel capitolo della mia vita fosse veramente risolto.

Quando così tante donne si sono fatte avanti per descrivere quello che Harvey aveva fatto loro, ho dovuto affrontare la mia codardia e accettare con umiltà che la mia storia, per quanto importante per me, non era che una goccia in un oceano di dolore e confusione. Ho sentito che a quel punto a nessuno sarebbe importato del mio dolore – forse era un effetto di tutte le volte che mi è stato detto, in particolar modo da Harvey, che non ero nessuno.

Stiamo finalmente diventando consapevoli di un vizio che è stato socialmente accettato e ha insultato e umiliato milioni di ragazze come me, perché in ogni donna c’è una ragazza. Sono ispirata da coloro che hanno avuto il coraggio di denunciare, in particolar modo in una società che ha eletto un Presidente che è stato accusato di molestie sessuali e aggressione da dozzine di donne e che tutti abbiamo sentito affermare che un uomo di potere può fare ciò che vuole alle donne.

Bene, non più.

Nei quattordici anni in cui sono passata faticosamente da studentessa a star delle soap opera messicane a extra in alcuni film americani, ad avere un paio di colpi fortunati in “Desperado” e “Fool Rush in”, Harvey Weinstein era diventato il mago della nuova ondata di cinema che ha portato dei contenuti originali al grande pubblico. Nello stesso tempo, era inimmaginabile che un’attrice messicana potesse aspirare a un posto a Hollywood. E anche se avevo dimostrato che sbagliavano, non ero ancora nessuno.

Una delle forze che mi hanno dato la determinazione di inseguire la mia carriera era la storia di Frida Kahlo, che nell’età dell’oro dei pittori murali messicani faceva dei piccoli quadri intimistici che tutti guardavano dall’alto in basso. Ha avuto il coraggio di esprimere se stessa ignorando lo scetticismo. La mia più grande ambizione era quella di raccontare la sua storia. Divenne la mia missione, raccontare la vita di questa artista straordinaria e mostrare il mio nativo Messico in una luce che combattesse gli stereotipi.

L’impero di Weinstein, che era allora la Miramax, era diventato sinonimo di qualità, raffinatezza e audacia – una casa per artisti complessi e non conformisti. Era tutto ciò che Frida era ai miei occhi e tutto ciò che aspiravo ad essere.

Avevo iniziato un percorso per produrre il film con un’altra compagnia, ma lottai per riaverlo indietro e portarlo da Harvey.

Lo conoscevo un po’ tramite il mio rapporto con il regista Robert Rodriguez e la produttrice Elizabeth Avellan, che era allora sua moglie, con cui avevo fatto diversi film e che mi aveva preso sotto la sua ala. Tutto quello che sapevo di Harvey a quel tempo era che aveva un’intelligenza degna di nota, che era un amico leale e un padre di famiglia.

Sapendo quello che so ora, mi chiedo se non sia stata la mia amicizia con loro – e con Quentin Tarantino e George Clooney – a salvarmi dallo stupro.

(continua qui)

A proposito della fallocrazia di Enrico Brignano: risponde Falvia Piccinni

Flavia Piccini (scrittrice, gradita compagna di scuderia in Fandango Libri) risponde all’intervista di Brignano. E vale la pena leggerla.

 

Leggendo la spiacevole, e a tratti imbarazzante, intervista di Enrico Brignano al Corriere della Sera, non emerge soltanto una straordinaria dose di radicato maschilismo:

Allora anche io ho molestato delle ragazze: in discoteca, avevo 14 anni. Ci provavo e loro non volevano, eddai, dammi un bacetto, eddai. Una l’ho molestata talmente tanto che si è fidanzata con me. E da ragazzino ho anche palpeggiato, facendo la mano morta

– e di incapacità oggettiva di valutare le situazioni –

Bisogna stare attenti a catalogare tutto come molestia, sennò anche io vengo sempre molestato. Mi chiedono di fare delle foto e non voglio. Ma le faccio, perché se no chissà cosa dicono…” – o, meglio – “(Brizzi, ndr) è un intellettuale, gli piace parlare, sedurre. Ha sedotto anche sua moglie così. È già successo: Sofia Loren ha sposato un produttore, Anna Magnani un regista…

Emerge qualcosa che dovrebbe riguardare tutte e tutti noi: una serie di domande.

Qual è (sempre che esista) il confine che una giornalista deve mantenere nel diffondere, attraverso un’intervista, un punto di vista così espressamente maschilista? È lecito sostenere (perché la divulgazione è un sostegno) il ragionamento (che francamente trovo inaccettabile) “A lui piacciono le donne, come a me. Le stesse donne che ora si lamentano spesso, dicendo che agli uomini piacciono sempre meno, la famosa crisi dell’uomo…”? Abbiamo dei mezzi per limitare atteggiamenti così marcatamente patriarcali? Quali sono gli strumenti che abbiamo per mostrare il nostro dissenso? Può bastare boicottare un film? Può bastare boicottare un personaggio in tutte le sue attività? Può bastare scrivere un post o un articolo? Può bastare organizzare dei gruppi che collettivamente diffondano delle notizie avverse e mirino a boicottare i suddetti personaggi? Non diventeremmo forse anche noi, puntando il dito e non aprendo un ragionamento, magari con la furia della (necessaria) rabbia e del (dovuto) disgusto, ugualmente colpevoli di un qualunquismo altrettanto controproducente e dannoso? Non è forse un obbligo morale provare a elaborare dei toni e delle strategie di confronto, e non “macchine del fango” fini a se stesse (anche se, il caso Brizzi, ci mostra come le gogne mediatiche – sulla cui correttezza potremmo disquisire per ore – hanno un reale effetto sulla vita dei diretti interessati e non solo)?

Una risposta trasversale mi viene fornita da un libro che andrebbe sempre tenuto sul comodino: “Lessico familiare” di Chiara Cretella e Inma Mora Sànchez (Settenove, pp. 192). Alla voce “maschilità” si legge:

La costruzione sociale della maschilità è stata fondamentale nell’organizzazione sociale patriarcale. Contrariamente a quello che si può pensare, anche gli uomini possono essere vittime di stereotipi di genere: l’immaginario comune li vuole forti, rudi, muscolosi, aggressivi, devono avere potere, non piangere, non chiedere mai aiuto, non dimostrare debolezza o omosessualità. Anche un certo tipo di relazione con le donne è passato in maniera stereotipica per esempio nel trattarle male e sottometterle, anche a livello sessuale, convinti che in fondo a loro piace (in questo senso si richiama il concetto di vis grata puellae, un verso di Ovidio chiamato in causa anche dal nostro diritto penale riguardo lo stupro). Chi storicamente si è sottratto da questi cliché è stato sanzionato e punito socialmente, perché lo stereotipo maschile è forte quanto quello che investe il femminile (…). Diventa quindi fondamentale comprendere le rappresentazioni del maschile nell’immaginario culturale/mediatico e la loro relazione con le pratiche, le esistenze reali tra i generi in un determinato periodo storico.

Il ragionamento si apre dunque al radicato e ostentato maschilismo moderno, di cui oggi Enrico Brignano si mostra (più o meno consapevolmente) membro inserendosi con orgoglio, appunto, nel concetto di vis grata puellae. E non solo.

 

(fonte)

Il “pizzino” di Neri Parenti alle donne che hanno intenzione di denunciare le molestie

Dunque. Le Iene mandano in onda un servizio in cui dieci ragazze accusano (con tanto di racconto e particolari) il regista Fausto Brizzi di averle molestate in provini che poco hanno a che vedere con il potenziale talento recitativo di ognuna di loro.

Nella giornata di ieri comincia a eruttare una lava di giudizi più o meno sconsiderati da persone più o meno considerevoli. Non mi interessa ora qui analizzarli tutti (ne avremo il tempo, Brizzi è solo il primo nome di una lunga serie) ma vale la pena riprenderne uno, uno solo, che è un paradigma.

A parlare è Neri Parenti, intervistato da Radio Capital. Leggete bene:

“Com’è possibile che 10 persone accusino un regista in maniera anonima?” “Io questo sinceramente non me lo spiego”. E poi:“Anche sul discorso di cercare la notorietà in realtà se tu fai un’intervista a volto coperto la notorietà non ce l’hai e poi questo per la tua carriera professionale non è un aiuto. Io una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film”.

Primo: le donne che denunciano non sono donne. Non si riesce nemmeno a nominarle come “presunte vittime” (perché se Brizzi è “presunto molestatore” non si capisce perché chi denuncia dovrebbe essere “signorina”). La fallocrazia (non solo cinematografica, in questo Paese, ma che sta un po’ dappertutto) è bene condensata nel “signorine”.

Secondo: dispiace per il patetico tentativo banalizzante di Neri Parenti ma le denunce contro Brizzi non sono “anonime” come si sforza di raccontare. Tra le ragazze (comunque facilmente rintracciabili nel caso di un’azione penale dello stesso Brizzi) ci sono la modella Alessandra Giulia Bassi e l’ex miss Italia Clarissa Marchese che hanno raccontato la propria esperienza con nome, cognome e faccia. Gli devono essere sfuggite, povero Neri Parenti: del resto le distrazioni pro domo sua sono una costante tra i furbi di questo Paese.

E infine: “Io una di quelle signorine non la prenderò mai per i miei film” è il manifesto dell’ipocrisia e del corporativismo di quel mondo. Non si capisce esattamente quali siano i motivi che spingano il re dei cinepanettoni a giudicare queste donne inabili al percorso cinematografico (forse la mancata riservatezza sulle palpatine subite?) ma racconta perfettamente perché le donne hanno paura di raccontare e denunciare. Neri Parenti non poteva pensare a una frase più chiara per mandare l’avvertimento del “chi parla pagherà”. Una frase che è come una testa di cavallo lasciata fuori dalla porta. Una cosa così.

Bravo, Neri Parenti. Bravo. Complimenti. Bis.

Buon martedì.

(continua su Left)

“La violenza sulle donne è come la mafia”: parla la giudice Paola Di Nicola

Donne coraggiose di cui c’è terribilmente bisogno. Paola Di Nicola intervistata da AGI:

 

Roma – “Il femminicidio ha la stessa valenza culturale, sociale e criminale della mafia. Si deve pretendere dallo Stato lo sforzo dimostrato nel combattere il fenomeno mafioso perché il femminicidio, inteso in senso ampio, arriva ad ammazzare, nel disinteresse assoluto, più della mafia, uccide la vita e la dignità di intere generazioni, rendendole succubi e incapaci di reagire”. Paola Di Nicola, giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, si dice convinta, conversando con l’Agi, delle forti analogie tra i due fenomeni, ma denuncia la mancanza di quel “salto di qualità” che deve compiere il Paese per debellare i reati di violenza contro le donne. “Se venisse ammazzato ogni giorno un testimone di giustizia, un pentito, lo Stato alzerebbe immediatamente la guardia, come è doveroso che sia, mentre un giorno sì e uno no viene uccisa una donna e il fenomeno appare normale, è accettato, metabolizzato, ci appartiene, è ineluttabile”, prosegue la gip impegnata da anni nel contrasto alla violenza di genere e autrice del libro “La Giudice – Una donna in magistratura“.

 

Contesto di omertà e rifiuto identico a quello mafioso

Riguardo al fenomeno, “non c’è ancora una coscienza culturale, sociale e politica. La donna vittima di violenze si trova in un contesto di omertà, rifiuto, negazione identico a quello di mafia, ma è sostanzialmente sola”. Per scoprire davvero gli autori dei femminicidi, ma anche di tutti i reati contro le donne, per Paola Di Nicola “si devono leggere gli episodi in un’ottica complessiva e con una visione di genere, altrimenti il fenomeno criminale resterà impunito e diventerà tanto diffuso quanto inattaccabile. Come per la mafia, esistono, infatti, i reati-spia, cioè quelli che costituiscono un univoco indicatore di una violenza più pericolosa e più insidiosa, di una quasi certa escalation. Sono le lesioni, i maltrattamenti nelle famiglie e nei contesti lavorativi, le molestie, l’omesso versamento dell’assegno di mantenimento come ricatto economico e come assenza di riconoscimento della figura genitoriale dell’altro, gli insulti sessisti.

Il 70% delle vittime aveva denunciato l’aggressore

Un dato significativo è che il 70% delle donne vittime dei femminicidi aveva già denunciato il proprio aggressore: questo perché troppe volte gli accadimenti vengono valutati in modo isolato, parcellizzato. Come le estorsioni in un contesto mafioso anche i maltrattamenti vanno letti in maniera non episodica e parziale“. Capacità culturale e “lenti di genere” – sostiene Paola Di Nicola – devono entrare nelle aule di giustizia perché persino lì “spesso si respira il pregiudizio di genere, che è radicato in tutti i protagonisti del processo, uomini e donne, e che si riproduce anche in alcune sentenze di assoluzione degli autori di lesioni, stalking, maltrattamenti”. Secondo i dati Istat, sono circa 3 milioni 466 mila le donne che hanno subito stalking nella loro vita.

 

“In alcune sentenze di assoluzione – spiega la gip del Tribunale di Roma – si ritiene che la donna abbia denunciato le violenze strumentalmente e, quindi, non sia credibile, salvo poi scoprire che nessuno ha offerto alcuna prova sulla strumentalità della denuncia. Nei procedimenti relativi ai reati di violenza contro le donne la valutazione di credibilità della vittima è molto spesso più ficcante, intrusiva, specifica, approfondita, accertamento che non si ritrova in nessun altro tipo di delitto. Perché c’è lo stereotipo che la donna mente, che utilizza il processo per propri fini.

 

Nelle sentenze motivazioni che non convincono

Una donna vittima di violenze viene di frequente sottoposta nel processo a domande di accusa e difesa estenuanti nelle quali le si chiede di sviscerare i particolari più intimi della propria vita e del proprio modo di essere, approccio impensabile nei confronti, per esempio, della vittima di una rapina”. Ma lo prevede la legge? “Assolutamente no – risponde la giudice – ci sono anche pronunce della Cassazione che reputano sufficiente la denuncia della vittima per condannare per lesioni, stalking, maltrattamenti.

 

E invece molte sentenze assolvono con motivazioni che non convincono: perché manca ad esempio la certificazione medica che dimostra le lesioni oppure perché mancano testimoni. Tutti passaggi sconfessati dal fatto che gran parte dei reati che si consumano in contesti familiari non hanno testimoni – avvengono in camera da letto, in casa quando non è presente altra gente – e che la quasi totalità delle donne vittime di violenza domestica non si fa refertare le lesioni subite per paura. Talvolta in qualche sentenza si arriva addirittura a definire i lividi delle vittime come atti di autolesionismo”.

 

Per Paola Di Nicola, “questo è dovuto al fatto che il pregiudizio di genere appartiene a chiunque e gli stessi magistrati non ne sono estranei perché la magistratura fa parte della realtà sociale e culturale di un Paese. Anche se – riconosce – si sta creando una cultura giudiziaria sempre più avveduta e impegnata a sradicare questo tipo di pregiudizio. In questi anni la magistratura ha fatto coraggiosi e innovativi passi in avanti in questo ambito, a partire dalle Procure, pur nella consapevolezza che dentro e fuori le aule di giustizia la strada sia ancora lunga”. Prima del momento conclusivo del processo c’è, infatti, tutta la fase in cui gli episodi di violenza sono in pieno svolgimento e viene richiesto l’intervento delle forze dell’ordine, dalle quali ancora oggi, non di rado, c’è “una sottovalutazione delle situazioni: ci sono casi di maltrattamenti che vengono liquidati nei verbali come ‘lite coniugale’. Si trascurano poi elementi significativi come lo stato in cui era l’abitazione con piatti e bicchieri rotti per terra, mobili distrutti, coltelli lanciati o il perdurare dell’atteggiamento aggressivo dell’uomo anche alla presenza di polizia o carabinieri”.

 

Necessario liberarsi dai pregiudizi culturali 

Per la gip del Tribunale di Roma, questo è lo stesso pregiudizio culturale che porta i vicini di casa a non segnalare episodi di violenze con la giustificazione di non voler entrare nella privacy di altre famiglie. Quegli stessi vicini di casa che farebbero esattamente il contrario davanti a un furto o a una rapina.”Purtroppo prima vittima dello stesso pregiudizio, dello stesso stereotipo – continua la sua analisi – è anche la donna che subisce violenza e il suo comportamento gioca un ruolo decisivo: prima denuncia lesioni, stalking o danneggiamenti, ma poi ritira la querela – e qui gli inquirenti possono fare ben poco – per non essere accusata di aver distrutto la famiglia o nella speranza illusoria di poter recuperare un rapporto. E anche quando si giunge faticosamente al processo, è la stessa vittima che entra in un’aula di giustizia temendo, spesso a ragione, di non essere creduta, convinta di aver violato la ‘regola’ comune secondo la quale le donne devono tacere quello che subiscono, di essere andata contro e oltre il proprio ruolo e il proprio modello”. Su questi sentimenti della donna fa leva “con astuzia l’imputato, soprattutto quando ci sono figli.

 

Questo atteggiamento, assieme all’assenza della consapevolezza di commettere un reato, accomuna tutti gli autori delle violenze, di diverse classi sociali, strati professionali, contesti culturali, religiosi, da nord a sud. I carnefici, inoltre, colpiscono le donne, non solo perché a un certo punto si è alzato il livello dello scontro, ma proprio perché appartenenti al genere femminile di cui non tollerano autonomia e capacità”. Come si fa a uscire da questa infernale spirale? “Soltanto acquisendo la consapevolezza del pregiudizio – conclude Paola Di Nicola – è possibile liberarsene per costruire una nuova identità capace di scuotere l’immobilismo che ci rende tutti complici di una strage silenziosa ma quotidiana”.

Il cinema che si difende dalle accuse di molestie con una “dinamica mafiosa”: parla Ornella Muti

A proposito di molestie, di pessimi ragionamenti e di pessime reazioni, Ornella Muti in un’intervista da leggere su Vanity Fair:

 

Come mai?
«Perché siamo noi che educhiamo questi uomini, siamo noi che li cresciamo, siamo noi le madri. Volendo, potremmo trasmettere altro. E forse essere ascoltate. Ma ci siamo costruite una gabbia da sole e non c’è più compassione. Pensi alle discussioni di questi giorni. Ha visto le reazioni? Una ragazza racconta che un uomo le ha dato fastidio e gli altri, donne comprese, si inalberano: “Ma tu perché ci sei andata? Perché ci sei tornata una seconda volta?”. Nessuno si accorge delle fragilità femminili, ma siamo sempre pronti a uccidere, a fucilare, a giudicare. A nascondere sotto il tappeto il problema che incrina il sistema».
I suoi colleghi e le sue colleghe, almeno in Italia, non parlano volentieri di molestie.
«Non capisce il perché? Il sistema sta barcollando, ma il sistema si difende. Il cinema non è diverso da altri ambiti lavorativi, ma per convinzione generalizzata una donna che si affaccia al mio mestiere è una troia a prescindere. I pregiudizi sono duri a morire. So di cosa parlo. Da bambina, la mia passione era il balletto classico. Mio padre fu laconico: “Mia figlia vuole fare la ballerina? Non esiste, sono tutte puttane”. Mia sorella voleva fare il Liceo artistico, ma dovette scegliere il Classico perché l’Artistico era roba da zoccole. Perché se una donna si permette di interpretare un altro ruolo che non sia la schiava nella vita di qualcun altro è già una troia».
Asia Argento e Miriana Trevisan hanno accusato Weinstein e Tornatore di averle molestate.
«Alla prima, che ha raccontato del suo incontro in albergo, hanno detto: “Vai a cena sola in un hotel con un produttore? Ma tua madre dov’era?”. All’altra anche peggio. Le hanno dato dell’attrice fallita. Una cosa ignobile. Perché, se fosse diventata Sophia Loren invece sarebbe andato bene? Capisce qual è il timore di aprirsi? Se parli, ti si scagliano contro. Racconti e ti dicono: “Che carriera miserabile hai fatto tu, stronza?”. Ma che significa? Non dovresti essere toccata a prescindere dai successi ottenuti con i tuoi film. “Siete delle donnette, siete delle fallite”. Questo dicono. E vorrei capire dove sarebbe la convenienza di denunciare se questo è il trattamento. Poi guardi, si parla di donne molto giovani. Io ho avuto tante amiche giovani che si sono perse, per colpa dei gruppi degli sceneggiatori “nani” dell’epoca in cui iniziai. Li chiamavano i 7 nani. Acchiappavano ’ste ragazze sperdute, le illudevano, le usavano, le lasciavano al loro destino e in un secondo le trasformavano in troie».
Eravamo rimasti alle rivelazioni e alla reazione, salvo rare eccezioni, del mondo del cinema.
«Mi ha sconcertato leggere opinioni di persone che magari si detestano tra loro, ma se vedono messo in pericolo il loro merdaio si uniscono contro di te».
È una dinamica che definirebbe mafiosa?
«Sì, certo che lo è. Noi ci aggiriamo sulle briciole, ma la pagnotta lì rimane e tutti la difendono. È un riflesso naturale: che succederebbe domani, se il pane dovesse sparire all’improvviso?».

 

(continua qui)

«Fammi toccare le tette»: le “molestie” non esistono ma Tavecchio sì (e ci sono anche le prove)

Sedetevi con calma e leggetevi tutto l’articolo della bravissima Federica Seneghini sulle molestie subite da una dirigente sportiva dal signor Tavecchio. Leggetela bene perché c’è dentro tutto: c’è il motivo per cui si denuncia ora (per i duri d’orecchie) e c’è tutto il sistema di fallocratici che in questi giorni si impegna a non parlare delle violenze ma a analizzare (per delegittimare) le vittime. Buona lettura. Buona riflessione.

 

«Ero entrata nel suo ufficio per parlare di calcio, di lavoro. Lui mi ha fatto entrare, mi ha fatta sedere alla sua scrivania, nella sede della Figc, a Roma. Non ho fatto nemmeno in tempo a dire “Presidente, come sta?” che lui, guardandomi dritta negli occhi, mi ha risposto: “Ti trovo in forma, si vede che scopi tanto”. E poi: “Fammi toccare le tette, vieni, dai”. Ero in imbarazzo. Ho provato a dirgli di smettere. Lui per tutta risposta ha chiuso le tende dello studio, per non correre il rischio di essere visto. L’ho respinto, sono riuscita a divincolarmi. Ed è solo un episodio. Gliene potrei raccontare molti altri. Le molestie che sono stata costretta a subire da Carlo Tavecchio sono accadute in tempi recenti».

 

Comincia così il racconto di Maria (il nome è di fantasia ndr). Una dirigente sportiva, una professionista, una donna. Molestata da quello che, da ieri, non è più il presidente della Figc. E sono molestie che duravano da tempo, racconta al telefono al Corriere. E mentre lo fa le trema la voce, perché è scossa, provata, è tesa da giorni. «Si tratta di violenze anche morali, psicologiche. Episodi recenti, mica riferiti a vent’anni fa, come è successo per certi attori di Hollywood». Ha paura, anche. E per quello chiede di rimanere anonima. Ma non ha dubbi che ora, dopo l’ondata di denunce e polemiche che dagli Stati Uniti è arrivata in Italia, sia finalmente il momento di parlare.

 

«E non è più pensabile che una donna che vuole lavorare, che vuole parlare di calcio, sia costretta a subire violenze di questo tipo — continua —. Molte ragazze in passato hanno provato a denunciare, a raccontare. Ma senza prove non vengono credute. Io invece quelle prove ce le ho, audio e video, e ieri le ho consegnate al mio avvocato, dandogli il mandato di presentare denuncia alla Procura della Repubblica».
«Come sappiamo una violenza sessuale deve essere denunciata entro sei mesi per essere perseguibile», spiega al Corriere il legale Michele Cianci. «Ma qui possiamo ipotizzare diversi tipi di reato. Nelle registrazioni ci sono palpeggiamenti, tentativi di bacio, sempre elegantemente respinti dalla mia assistita».

 

Serve alzare la voce. «Quando ho saputo che l’intenzione di Tavecchio sarebbe quella di riciclarsi in un’altra posizione, magari con i Dilettanti, non ho più avuto dubbi che fosse arrivato il momento di parlare», spiega ancora Maria. Poi si ferma. Respira forte nella cornetta. «Questo palazzo, il palazzo della Figc, va rifondato e ricostruito partendo dalle fondamenta. Bisogna azzerare il sessismo che c’è qui dentro. E spero che la mia testimonianza possa servire ad altre donne che hanno subito violenze di questo tipo a farsi avanti. Bisogna trovare il coraggio e parlare».

 

(fonte)

Questa irresistibile voglia di garantismo

Giulia Siviero scrive (finalmente) un pezzo utile per fare chiarezza e lasciare questo rumore di fondo sulla vicenda delle molestie sessuali:

 

«Non è in corso alcuna caccia alle streghe, come qualcuno ha scritto facendo intendere che il posto delle perseguitate è stato preso da alcuni uomini accusati di stupri e di molestie (uomini bianchi e potenti, è bene ricordarlo). Non penso che le donne non possano mentire e non penso che tutte le buone stiano da una parte e tutti i cattivi dall’altra. Se c’è bisogno di una nuova rassicurazione in questo senso, eccola: che non tutti gli uomini siano dei potenziali stupratori e che tutte le persone accusate non siano automaticamente colpevoli è verissimo e ovvio, ci mancherebbe.

Se stiamo parlando di “garantismo giudiziario” c’è un’altra cosa fondamentale di cui tenere conto e che pensavo fosse scontata: una persona accusata pubblicamente da un’altra ha a sua disposizione un importante e indiscutibile strumento di garanzia. Può cioè querelare chi lo ha offeso o denigrato se ritiene che sia stato detto il falso. E se perde tutto in seguito a queste accuse? Di nuovo: chi si sente danneggiato ingiustamente da queste accuse può denunciare chi lo accusa. Deve farlo: è infatti nell’interesse di tutti e di tutte (di chi sporge denunce vere, innanzitutto) che le denunce false vengano punite.

Ma il garantismo “giudiziario” (una volta stabilito che c’è lo strumento della querela a cui può fare ricorso l’accusato) c’entra poco con questa storia. Oltre al garantismo vero e proprio c’è infatti un garantismo che potremmo chiamare delle coscienze.

Anche chi accusa avrebbe avuto a suo tempo uno strumento di garanzia, quello di sporgere denuncia. Strumento che prevede in Italia dei tempi molto precisi (entro sei mesi uno stupro e entro tre mesi una molestia: pochi, ma questa è un’altra storia).
Una volta stabilito che la persona offesa ha sempre a sua disposizione uno strumento di garanzia, dovremmo cercare di capire perché chi sta dall’altra parte e dice di aver subito delle molestie ha scelto di non usare il proprio. (Non parlo per suggestioni: se ci fosse bisogno di conferme l’ISTAT dice da decenni che la percentuale delle denunce è molto bassa, mentre è altissima la percentuale delle donne che afferma di aver subito violenza). Le molte donne che parlano, anche sul punto della non-denuncia raccontano tutte la stessa versione della storia.»

 

Lo trovate su Il Post qui.

Molestie, ricatti e violenze sul posto di lavoro: nove donne su cento

Tanto per provare ad allargare il campo e capirne di più vale la pena leggere Paolo Baroni su La Stampa:

 

«Ma mica le molestie ci sono solo nel mondo del cinema. Adesso va di moda questa narrazione, ma la questione non si ferma certo solo ad attrici e registi», avvisa Loredana Taddei responsabile delle politiche di genere della Cgil. Basta infatti alzare il velo sul mondo del lavoro per scoprire una realtà, purtroppo quotidiana, che presenta cifre impressionanti e che è fatta di avance, ammiccamenti, battute, ricatti e violenze, che nei casi estremi posso arrivare finanche allo stupro.

 

Gli ultimi dati li ha forniti a fine settembre in Parlamento il presidente dell’Istat Giorgio Alleva spiegando che 9 donne su 100 nel corso della loro vita lavorativa sono state oggetto di molestie o di ricatti a sfondo sessuale. Parliamo di qualcosa come 1 milione e 403 mila casi. Dalla carezza non gradita alla pacca sul sedere, dal bacio rubato sino alla richiesta esplicita di prestazioni sessuali per avere un lavoro, per mantenere il posto o magari per fare carriera. Poi ci sono gli stupri, consumati o anche solo tentati (84% dei casi): 76 mila in tutto sempre considerando l’intero arco lavorativo delle donne.

 

Chi sono le vittime  

Molestie e ricatti sono sostanzialmente trasversali, ma riguardano innanzitutto le donne di età compresa fra i 25 ed i 44 anni, diplomate o laureate, residenti al Nord, nei grandi centri, occupate nel settore dei servizi (trasporti e comunicazioni) e nel settore pubblico. «I ricatti sessuali si verificano nei momenti in cui le donne si trovano più in difficoltà e nascono da una situazione asimmetrica: la donna ricerca lavoro dopo averlo perso, lo cerca al Sud dove è difficile trovarlo, si mette in proprio, vuole fare carriera e la sua carriera dipende dal giudizio o dall’azione di qualche superiore», segnalava tempo addietro Linda Laura Sabbadini che dai tempi dell’Istat segue questi temi. «In molti casi non c’è nemmeno bisogno di esplicitare il ricatto, la donna lo percepisce subito, lo capisce dagli atteggiamenti dei superiori – spiega Taddei -. Quello delle molestie purtroppo è un fenomeno che c’è da sempre e che per questo è considerato normale, tant’è che nella maggioranza dei casi non lo si denuncia nemmeno, perché ci si vergogna o perché si teme di venir ridicolizzati dai colleghi». E in effetti, segnalava Alleva, «solo una donna su 5 racconta la propria esperienza». E, soprattutto, «quasi nessuna ha denunciato il fatto alle forze dell’ordine», lo fa appena lo 0,5%. Per il resto gli esiti finali sono altrettanto sorprendenti: l’11% viene infatti licenziata, il 34% cambia volontariamente lavoro o rinuncia a far carriera, un altro 1,3% è stata trasferita di ufficio. Poi c’è un 4,7% che continua a lavorare ed un 1,4% che cede alle richieste.

 

Norme inadeguate?  

«Certamente, soprattutto in tempi di crisi, pesa molto la sudditanza psicologica della donna, che nel campo del lavoro ha sempre poche opportunità» segnala la presidente della Commissione d’inchiesta parlamentare sul femminicidio Francesca Puglisi (Pd). In Italia occorre rafforzare l’apparato legislativo, come segnala anche l’Ocse in un suo recente rapporto? «Con la legge del 2013 sulla violenza di genere abbiamo fatto molti passi avanti – risponde – ma è vero che sul fronte delle molestie sui posti di lavoro siamo meno attrezzati. Per questo abbiano deciso di ampliare il nostro raggio d’azione e già la prossima settimana ascolteremo Cgil, Cisl e Uil». «La questione delle norme merita una analisi approfondita – risponde a sua volta la Taddei -. Però, in quanto a regole, voglio ricordare che in Italia solo nel 2016 siamo riusciti a recepire l’accordo quadro europeo sulle molestie. Confindustria ha fatto resistenza e ci abbiamo messo 9 anni».