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Pino Maniaci

Pino Maniaci

PINO_MANIACI-241x300Caracò decide di stargli vicino dopo le ultime intimidazioni nel modo migliore: raccontandolo in un ebook gratuito che trovate qui.

E la storia di Pino e una storia bellissima da raccontare a più persone possibili.

Radiomafiopoli: una chiamata alle armi

Quando abbiamo cominciato a fare Radiomafiopoli eravamo tutti siciliani dentro, in fondo. Anche se di siciliani veri di Sicilia ce n’erano pochi che si contavano sulle dita di una mano: c’era Carmelo che mi ha insegnato la visione disincantata e l’arguzia feroce che sta dentro i palermitani che decidono di prendersi tutto il vento in faccia, c’era Francesca con il piglio di chi ordinatamente colloca le cose e le persone e c’era Pino Maniaci che la satira con l’informazione la serve tutti i giorni come piatto quotidiano.

Poi c’eravamo noi, i non indigeni, che eravamo travolti da questa Sicilia che profumava di fresco profumo di libertà e con una voglia matta (matta, eh, sì) di affilare la parola, la risata, l’amicizia tutti insieme. In fondo l’appuntamento settimanale di Radiomafiopoli, quel mettersi davanti al microfono con la rassegna stampa della settimana e ridere fino alle lacrime durante il montaggio, era un confronto e un conforto con la nostra paura e con il nostro stare così lontani e comunque così insieme. Dentro le mail e le telefonate c’era un ponte. Un ponte.

Ora sono passati anni e alla fine di antimafia e di mafie dentro le carte e nelle parole è scandita la mia giornata. Ebbene sì: un professionista dell’antimafia. Ed è un piacere. Anche se poi alla fine per motivi diversi magari ti accorgi che in fondo il sorriso si è sbiadito, quell’energia così bambina è diventata desueta e malinconica come sono malinconici solo i ricordi e le fotografie di quelli che sorridono in foto ma non ti rispondono più al telefono.

Abbiamo deciso di mettere la nostra malinconia al passo dei tempi per scrollarcela di dosso e per non perdere il nostro scopo originario: non prendersi mai troppo sul serio. Sì, coltivarci il sorriso, il sorriso per serenità, per indignazione, di denuncia, per dovere di informazione e per diritto di non avere paura. Ma comunque il sorriso.

Partiamo. Radiomafiopoli si rimette i vestiti della domenica che aveva lasciato nei cassetti in fondo all’armadio e si esce in piazza. Ogni settimana (tra poco) per “disonorare gli uomini d’onore”. Chi vuole darci consigli, una mano, una notizia o una voce siamo qui. Ora.

Sono andato a riprendere il perché che ci eravamo dati anni fa. Funziona ancora:

«M’hanno chiesto – perché sfottere la mafia? Ho risposto – perché no? Siamo nell’epoca del culto per la credibilità e per l’onore, della comunicazione masticata e poi sputata, della dignità da discount; in tutto questo magma di garantismo avanzano nel borsellino, come la moneta, quelli che a ragion veduta dovrebbero essere il braccio armato della “cosa nostra di chi?” al soldo di qualche incravattato nelle stanze del potere. Perché sfottere la mafia? Perché siamo stanchi di questi falsi miti da fiction che qualcuno vuole convincerci possano tenere sotto scacco una nazione. Perché disonorare la mafia è una questione di onore. Perché è il nostro modo da giullari per urlare il nostro no. Perché fanno ridere mentre si mettono in posa per fare paura. Perché come diceva Peppino la mafia è una montagna di merda. Perché smontare la loro credibilità è il nostro modo per opporsi ad un racket culturale e in più ci divertiamo un mondo».

Incendiano Telejato, accendiamo la voce

Un incendio doloso ha danneggiato gravemente la postazione di Telejatosu Monte Bonifato. Una denuncia è stata sporta dal direttore Pino Maniaci presso la caserma dei Carabinieri di Alcamo. I danni calcolati ammontano a 25mila euro. Che l’incendio fosse doloso non ci sono ormai dubbi, quel che non è chiaro è come sia possibile che le uniche apparecchiature danneggiate siano quelle di Telejato. Si sospetta che il rogo sia partito proprio dal gabbiotto della tv partenicese. Mancano solo tre giorni all’inaugurazione della nuova sede, da cui Telejato comincerà a trasmettere nelle province di Palermo Trapani e Agrigento. La sua voce si sta allargando. E questo fa paura. (qui la notizia)

A Pino Maniaci e a tutta la redazione di Telejato va il mio abbraccio. E va l’abbraccio di tutti coloro che preservano le voci libere in una terra che Pino riesce sempre a perdonare e coltivare di speranza mentre continua a riceverne minacce. Ora vedremo cosa fare e come farlo. Pino non può essere lasciato solo.

Chi racconta le mafie: cosa avrei voluto dire oggi ad Ercolano

Oggi avrei dovuto essere ospite ad Ercolano dagli amici di Radio Siani per il Festival dell’Impegno Civile. Non ci sono potuto andare. Ho mandato due righe. Ecco il testo del mio intervento:

Innanzitutto mi scuso per la mia assenza. Ci armiamo contro le mafie ma soccombiamo all’influenza, siamo fatti così. Mi spiace non potere spendere l’abbraccio che ho tenuto in serbo per Pino Maniaci e la nostra Telejato che può rivedere la luce e continuare a raccontare che la sfrontatezza delle mafie in quei territori ha bisogno di uno sfrontato coraggio quotidiano e sempre in diretta. E avrei raccontato a Ciro com’è difficile qui giù al Nord fare informazione senza i morti ammazzati in giro che aprano le pance e le teste.

Perché il titolo della tavola rotonda proposto dagli amici di Radio Siani “Chi racconta le mafie” mi ha subito posto la domanda: ma chi racconta le mafie? Sappiamo chi cerca di fermarle e arrestarle, sappiamo dove vengono giudicate, conosciamo i meccanismi legislativi che le rallentano (o le favoriscono) ma in questa nostra Italia chi racconta le mafie? I giornalisti, mi si dice. Non tutti, chiaro. Ma molti. E’ vero. Ci basta? Gli scrittori, mi ricordano, anche se poi di solito sono i giornalisti che decidono di prendersi la libertà senza i limiti di battute. Il cinema e il teatro, ogni tanto qualcuno si avventura. Il cinema e il teatro? Pochi pervenuti, forse sono poco attento io, e quasi sempre sono trasposizioni giornalistiche, del resto.

Ecco, in fondo, se fossi stato lì vi avrei annoiato moltissimo su un mio dubbio (mi ci sto arrovellando da qualche mese) che non abbiamo ancora capito bene come raccontarle in giro, le mafie. Dico per strada. Tra la gente. Nei bar. Nelle piazze. L’argomento mafie che entra prepotentemente nei pochi minuti di conversazione in una giornata tra colleghi, coinquilini, i fedeli, tra i mariti con le mogli, negli spogliatoi delle partite di calcetto del mercoledì o nei treni pendolari. Lì ci siamo arrivati? Perché abbiamo un esercito di ostinati in giro (dico, lì siete tutti degli ostinati dell’antimafia che mi rendono orgoglioso di essere vostro concittadino) ma la sensazione è che poi ad un certo punto quel filo cada e si perda. Esce stampato in pagina, diventa un servizio televisivo, si veste da scena teatrale e non riesce a scendere le scale che portano alla gente. Rimane arroccato tra pochi. Un’oligarchia dell’analisi, delle chiavi di lettura e della consapevolezza.

Diventiamo “pop” se ci succede qualcosa. Si va a vedere Cavalli per vedere l’effetto che fa il minacciato al Nord, si invita Pino a raccontare delle lettere anonime o si solidarizza con Ciro per la causa milionaria. E noi (io almeno sicuro, non so se capita anche a voi) a correre e faticare per infilarci tra le pieghe del voyeurismo  qualche concetto vero, qualche valore che non ha bisogno di azzardate temperature emotive, uno slancio di studio e di analisi. Altrimenti siamo tutti animali da tournée, come l’uomo lupo che arrivava nelle piazze qualche decennio fa. Rischiamo addirittura di essere rassicuranti. Se esiste Cavalli a Milano, Pino Maniaci a Partinico, Ciro nelle terre di Cosentino e tutti gli altri nei loro luoghi dove devono stare ecco, in fondo, sembra che possa bastare per sentirsi tutti più sicuri.

Mi spaventa pensare a Don Peppe Diana che era riuscito ad infilare la parola antimafia invece nelle borse della spesa di tutte le donne di Casal di Principe. Mi spaventa pensare a Placido Rizzotto che aveva trovato le parole giuste per farla diventare un’emergenza nei campi. Mi spaventa la potenza di Don Puglisi che è riuscito ad infettare di bellezza i vicoli e i sottoscala. La potenza non perché bellezza o intelligenza, la potenza nell’essere così virale, così grande, così forte eppure così semplice da diventare subito quotidiana. Ecco, quella potenza lì. Come facciamo ad armarcene?

Non avrei avuto la risposta, eh. Avrei fatto la domanda con un discorso un po’ più arzigogolato e dentro un po’ di ironia per lenire il caldo. Ma quella potenza lì, per favore, se oggi pomeriggio trovate anche solo un’idea di come possiamo ammalarcene fatemi sapere con urgenza.

Un abbraccio.

 

Telejato si fa in cinque

Ne abbiamo parlato, abbiamo alzato la voce (qui, qui, qui e qui). Oggi Telejato (e noi tutti che le vogliamo bene) ha vinto:

La tv antimafia locale diretta da Pino Maniàci continuerà a trasmettere in consorzio con TeleMed, Radio Monte Kronio e Il Tirreno. Disporrà di cinque canali. Il primo sarà attivo il 4 luglio sul canale 273. Appello per acquistare le attrezzature e ottenere un bene confiscato alla mafia in cui lavorare. La battagliera emittente  ringrazia le  associazioni che l’hanno sostenuta e mette un canale a disposizione delle 40 emittenti che non hanno  superato la soglia dello switch off.

Partinico, 10 giugno 2012 – TeleJato ha superato la difficile prova del passaggio al digitale terrestre. La piccola emittente dal 4 luglio sarà sul canale 273 ed entro la fine dell’anno potrà attivare altri quattro canali. Dunque Telejato non chiude e si fa in cinque. La bella notizia è arrivata con la pubblicazione delle graduatorie provvisorie per l’assegnazione delle frequenze TV del Ministero dello Sviluppo economico, rese note pochi giorni fa.

Con lo switch off del segnale analogico e il passaggio alla televisione digitale terrestre in Sicilia, TeleJato ha seriamente rischiato la chiusura. Come Pino aveva spiegato aOssigeno , la legge ha previsto regole restrittive circa i titolari dei requisiti necessari per accedere al nuovo sistema di trasmissione. In particolare, non consentito alle piccole televisioni comunitarie come TeleJato di accedervi. La prospettiva era di spegnere il segnale.

L’ostacolo è stato superato da Telejato costituendo un consorzio con altre tre emittenti televisive: TeleMed, Radio Monte Kronio e Il Tirreno. «Sono state le altre emittenti, soprattutto l’emittente regionale TeleMed – spiega Maniàci -, a consentirci di raggiungere il punteggio richiesto per passare al nuovo sistema. Da soli non ce l’avremmo fatta». Adesso TeleJato diventa operatore di rete, oltre che fornitore di contenuti, nel nuovo sistema televisivo italiano.

Dunque Pino Maniàci ha vinto, con i suoi famigliari, con le associazioni e i singoli cittadini che hanno sostenuto la battaglia per tenere viva una voce che si è distinta per coraggio e spirito di libertà e impegno contro la mafia. «Noi di TeleJato ringraziamo – tiene a dire Pino Maniàci – tutti coloro che ci sono stati vicini in questa battaglia di democrazia. Soprattutto le associazioni, i giovani, il comitato “Siamo tutti TeleJato” e le scuole che hanno scritto una lettera al presidente della Repubblica Napolitano e al ministro Passera. Continueremo a batterci perché lo stesso diritto sia riconosciuto alle altre emittenti rimaste fuori».

L’articolo di Ossigeno Informazione lo potete leggere qui.

‘Siamo stanchi, Signor Presidente, di essere disincantati’: la lettera degli studenti per salvare Telejato

Questa lettera sta circolando ora nei licei bolognesi, e via via in molte altre scuole. La trovate anche su diecieventicinque.it, la testata bolognese della rete dei Siciliani. “Dieci e venticinque”, il nome del sito, a Bologna vuol dire qualcosa. Bologna che resiste, Bologna allegra e dura, Bologna di tutti noi.

Riccardo Orioles la rilancia e ne ha tutti i motivi. La legga, Signor Presidente. Qua dentro c’è l’Italia che vogliamo.

Egregio Signor Presidente,

ragazzi di tutt’Italia si rivolgono direttamente a Lei, quale massimo rappresentante dello Stato, per trovare una voce all’onda di rancore che sta seppellendo la nostra generazione.

Per l’importanza del documento che Le sottoponiamo, ci auguriamo caldamente che riterrà di renderne note alla Nazione le parole più significative.

Il cuore della presente lettera consiste senza dubbio di un proposito di natura pratica. D’altro canto, la sua causa profonda sta nell’impotenza in cui siamo costretti dalle attuali democrazie rappresentative, sta nell’angoscia di agire, e nella consapevolezza di vivere, proprio per quei principi di progresso che, sebbene continuamente negati da squallore e ottusità, trainano la civiltà europea da che si aprì la ricerca per un criterio di giustizia. E, in verità, il cuore amaro della nostra lettera sta proprio nel valore dell’educazione, della scuola, modello di vita e di politica.

In principio vorremmo tuttavia parlarLe dell’episodio che è stato l’innesco del nostro movimento, e degli interventi che ci siamo auspicati sarebbero seguiti all’appello. Nel corso di un viaggio d’istruzione in Sicilia, all’interno di un itinerario organizzato dall’associazione “Addiopizzo“, alcuni di noi, tra cui i redattori della presente, hanno conosciuto la piccola realtà di Telejato, una rete televisiva comunitaria totalmente dedita all’erosione del potere mafioso. Attraverso lo scherno dei miti e dei bassi modelli dell’illegalità, Telejato ci ha stupiti per determinazione, costanza, per la volontà ferma di migliorare il territorio, e di essere efficace. Valore, l’efficacia, che stiamo lentamente dimenticando, essendo ormai i cittadini italiani abituati a delegare le responsabilità, a lasciare il proprio dovere civico in eredità ad anonime reti amministrative.

Il confronto con Pino Maniaci, proprietario di Telejato, curiosamente, anzichè vertere su temi riguardanti la Mafia in modo specifico, si è concentrato proprio su questo, cioè sulla possibilità dell’individuo di partecipare al bene comune.

Certamente non tutti possono gestire televisioni antimafia, ma l’antimafia vera e propria è forse quella che si crea a partire dall’onestà e dall’interesse per il territorio dei singoli: questa la conclusione cui eravamo insieme giunti, e che, in parte, aveva placato l’insoddisfazione di vederci come al solito disincantati spettatori degli equilibri di potere.

Siamo stanchi, Signor Presidente, di essere disincantati. La conoscenza degli istinti meschini che sembrano dirigere la storia oramai non può più rassicurarci. Quello che le generazioni che ci hanno preceduto ignorano, è che il nostro disimpegno non è stato dovuto a stupidità o leggerezza, ma piuttosto al cinismo nato dalla lucida osservazione della realtà, e dall’abitudine alla sconfitta. Tuttavia, per l’improvvisa incombenza di un disastro sul nostro futuro, quello della crisi, quello di un’inadeguatezza di tutte le istituzioni vigenti – da quelle ideali a quelle concrete – a fronteggiare un passaggio di epoca, guardarvi serenamente non ci è più possibile.

Quando al termine dell’incontro siamo venuti a sapere che Telejato avrebbe chiuso il 30 giugno, al momento dell’entrata in vigore del digitale terrestre in Sicilia, nuovamente siamo rimasti a bocca aperta: nuovamente, le maglie della burocrazia, addirittura le leggi dello Stato sembravano soffocare l’impegno civile da cui esse stesse erano nate. Proprio allora la figlia di Maniaci, Letizia, coraggiosa, rinomata giornalista, è sgattaiolata tra di noi per uscire dallo studio televisivo, a capo chino, come cercando di non farsi notare. Proprio lei che, così giovane, riprende gli scoop e rende possibile il servizio di informazione di Telejato, incurante del rischio che grava sulla famiglia. Per quell’esempio di modestia e di abnegazione in quel momento siamo esplosi in un applauso, ritenendo d’altra parte che null’altro avremmo potuto fare, che le nostre azioni corrette non sarebbero bastate, che Telejato avrebbe chiuso, qualunque cosa ne pensassimo: che il fatto sia giusto o che non lo sia.

Ora, la riflessione che vogliamo proporre alla Nazione è in merito al significato della parola “politica”. In fondo, l’antimafia è politica. Poichè, se si considera la Mafia come quel fenomeno sociale di affidamento del territorio a interessi esclusivamente patrimoniali, l’antimafia è quel dovere di amore per il territorio, per la Nazione, per la propria comunità, che va ben oltre gli egoismi di parte. E se un certo amore per il bene comune è un dovere civico, allora certamente l’antimafia è politica: perchè non dimentichiamo che “politica” non significa insieme di partiti, lotta di classi o di capitali, ma “questioni della vita cittadina”, e che un tempo aveva traduzione “Res Publica”, e che ora, estesisi i nostri Stati da città a popoli interi, trova significato come “vita comunitaria”. Questa la nostra convinzione.

Quale comunità giovanile avremmo potuto chiederLe in merito a giustizia, meritocrazia, rottura delle briglie della finanza, Unione Europea, e a tante delle idee che animano i nostri dibattiti. Invece, La preghiamo di garantire una qualche forma di sopravvivenza a Telejato.

Da atti concreti, mirati vorremo ripartire, e fatti significativi. Riteniamo che dare vita a Telejato, come emittente di diverso genere oppure riservando una percentuale di frequenze alle reti comunitarie, sia oggi, proprio oggi, una priorità. Riteniamo sia questo il momento giusto – il momento di scarse risorse – per investire sullo spirito comunitario, e che solo in questo modo avremo un’occasione per salvare l’Italia, armonizzare l’Europa e governarla.

Infine, per lo meno, La preghiamo di tutelare la famiglia che di Telejato costituisce l’esistenza.

Noi siamo nati da quella famiglia. Se l’Italia ha come nucleo fondamentale la famiglia, allora è in una famiglia che costruisce i valori civici dell’Italia che la Nazione trova le proprie radici. Siamo cresciuti in un sistema di principi tipicamente familiari, nonchè nella nozione di lavoro come riscatto dell’uomo dall’assoggettamento alla sua fame, e alla sua voracità, per i simili che ama. Purtroppo, questi capisaldi della nostra società civile, abbandonati da molte famiglie, li hanno raccolti soltanto le scuole, realtà che sono state volutamente avulse dal potere ma che, lo si voglia o meno, hanno formato i nostri ideali. E noi riteniamo sia maturato il tempo per cui quegli ideali, dalle famiglie che resistono all’istruzione che li alimenta, passino finalmente al potere effettivo, al potere politico.

Se verrà salvata Telejato e la sua famiglia, si darà un significato alla nostra educazione politica, unica fonte della Nazione stessa. E vedremo fin dove le istituzioni che politiche sono dette, nate per unirci, siano voci della Nazione, e dunque avverse alla Mafia.

1. Liceo Galvani, BO

2. Liceo Minghetti, BO

3. Liceo Fermi, BO

4. Liceo Righi, BO

5. Liceo Copernico, BO

6. Liceo Sabin, BO

7. Istituto Laura Bassi, BO

8. Liceo Manzoni, BO

9. I.I.S. Bartolomeo Scappi, Castel San Pietro Terme (BO)

10. Liceo da Vinci, Casalecchio di Reno (BO)

11. Istituto Giordano Bruno, Budrio (BO)

12. Liceo Mattei, San Lazzaro di Savena (BO)

13. Liceo Tassoni, MO

14. Liceo Parini, MI

15. Liceo Marco Polo, VE

16. Liceo Gioberti, TO

17. Istituto Baldessano-Roccati, Carmagnola (TO)

18. Liceo Cascino, Piazza Armerina (EN)

19. I.I.S. Marzoli, Palazzolo sull’Oglio (BS)

20. Consulta Provinciale Studenti di Brescia

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Dove eravamo – Capaci e via D’Amelio 20 anni dopo

L’amico Massimiliano Perna ha concluso la sua ultima fatica letteraria. E forse è un libro che vale la pena di leggere.

23 maggio e 19 luglio 1992: la mafia e i suoi complici di Stato uccidono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, otto agenti delle scorte e Francesca Morvillo. L’Italia è in ginocchio, scossa, ferita. Sembra il colpo mortale alla speranza di battere la mafia. E invece c’è una cittadinanza che reagisce, c’è il coro “fuori la mafia dallo Stato” urlato di fronte alla cattedrale di Palermo, ci sono i fischi e gli insulti alle autorità, le lenzuola bianche, le associazioni antimafia, il consolidamento di una cultura che ha portato la Sicilia e l’Italia intera a uscire dal silenzio, ad aver meno paura e a reclamare una verità che tarda ad arrivare. Dove eravamo noi in quel momento? Come abbiamo guardato al futuro, in che misura siamo cambiati e quanto le stragi del ‘92 hanno inciso sulla nostra vita e sulle nostre scelte? A vent’anni dagli attentati di Capaci e via D’Amelio, questo libro prova a raccontare quei giorni drammatici, attraverso la testimonianza di chi li ha vissuti. Non solo familiari, magistrati, giornalisti, poliziotti, persone all’epoca già in prima linea nella lotta alle mafie, ma anche donne e uomini che, a partire da quei giorni, hanno iniziato, ognuno nel proprio ambito, a combatterle.

Sono 20 i testimoni che, insieme all’autore Massimiliano Perna, hanno scelto di dare, ciascuno a suo modo, il proprio contributo di memoria: Salvatore Borsellino, Maria Falcone, Antonio Ingroia, Raffaele Cantone, Imd, Giulio Cavalli, Nando Dalla Chiesa, Renato Sarti, Lella Costa, Moni Ovadia, don Giacomo Panizza, Sonia Alfano, Dario Riccobono di Addiopizzo Palermo, Pina Maisano Grassi, Fabrizio Moro, Pino Maniaci, Salvo Vitale, Pif e Gianluigi Nuzzi, Giuseppe Casarrubea”.

Se si spegne Telejato

Pino Maniaci e Telejato devono essere spenti. La notizia è di quelle che gelano il sangue perché Pino Maniaci e Telejato (con il suo telegiornale più lungo del mondo) da anni lottano per non essere spenti dalla mafia e invece alla fine a spegnerli sarà lo Stato. Non si sa se per superficialità, per miopia o per convergenza di interessi: certo quando lo Stato compie l’azione che la mafia ha tanto desiderato ne esce sconfitto il buon senso, la tutela del coraggio e la custodia delle fragilità attive.

Non serve solidarietà pelosa. Telejato, Pino e la sua famiglia ne hanno ricevuta a tonnellate in questi anni (buona e non buona). Serve mobilitarsi con un obiettivo chiaro: sappia il Governo cosa sta spegnendo, decida dopo aver conosciuto la vita, il progetto e le lotte di Telejato e dia delle spiegazioni. La mobilitazione deve puntare a chiunque possa scrivere un’interrogazione, un ordine del giorno o una mozione tra gli scranni del Parlamento. E noi possiamo chiederlo (e dobbiamo chiederlo) con insistenza: come Pino quando tiene in mano il microfono.

A chi serve l’Ordine dei Gionalisti?

Non serve (e non è mai servito) a garantire la qualità del prodotto giornalistico, una soglia minima di decenza al di sotto della quale non si può più parlare di giornalismo. Non serve più, ai pubblicisti, che entro il 13 agosto dovranno essere cancellati dall’albo professionale, come prevede il decreto del governo Monti, sulla base di un principio banale ma sacrosanto: chi non ha superato l’esame di Stato non può essere iscritto all’albo professionale. Non serve ai citizen journalist, ai titolari di blog, alle migliaia di giovani colleghi senza tutela che ogni giorno si sforzano di raccontare questo Paese oltre i recinti corporativi dell’appartenenza professionale e che spesso vengono sanzionati ‘’per esercizio abusivo della professione’’. Non serve più sotto il profilo disciplinare, visto che il decreto Monti lo ha svuotato di questo potere, affidandolo ad un collegio esterno.  Non serve ai giornalisti, quelli veri, che non hanno bisogno di un Ordine arroccato a presidio di un’identità ormai virtuale e che negli anni hanno assistito alla mutazione genetica degli elenchi: oggi l’Ordine ha110.000 iscritti, il 70,7% sono pubblicisti, solo il 19 per cento ha un contratto di lavoro, 84 mila di essi sono sconosciuti all’Inpgi e dei restanti 26 mila, 6 su 10 hanno un reddito inferiore a 5000 euro lorde l’anno. Chi sono questi 84 mila e cosa fanno dentro il nostro ordine professionale? Gli resta, come giustificazione della sua esistenza, la formazione professionale, ma è solo un business, fallimentare sotto l’ aspetto didattico e, oggi, anche economico: a Bologna, dove la scuola esiste da anni, hanno sospeso l’ultimo corso, i candidati non ce l’hanno fatta a superare i test di cultura generale. Una riflessione di Giuseppe Lo Bianco. Mentre il ‘giornalista’ Pino Maniaci (un amico di cui ho parlato spesso) chiude Telejato come racconta Ivan Asaro.