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ROMA

Negare, insistere, insistere, negare.

Leggetevi Luigi Castaldi:

In tal senso occorre denunciare come pericolo pubblico chi si spende nel liquidare come inutile allarmismo il solerte intervento su un focolaio. Non sarà untore, ma al pari dei politici, delle procure, dei preti e del popolino che decenni fa in Sicilia negavano l’esistenza della mafia – de facto – lavora perché la peste diventi endemica.  «Secondo me – dice – questa storia della cupola mafiosa a Roma è una bufala… Forse tutto questo è abbastanza per una delle solite retate nel mondo del delitto, ma non è un po’ poco per definire il contenuto di un patto mafioso corruttivo nella capitale del paese?… Niente è più credibile a Roma, città estranea antropologicamente a tutti quelli che ora indagano su di essa, di una rete di piccola e media criminalità che si avvale di complicità dei bassifondi politici o di alcuni pesci piccoli che vi nuotano. Ma è allo stato delle cose totalmente incredibile la surrealtà di una cupola mafiosa, sia pure in forma originale, che si sia impossessata della città per realizzare fini di guida e orientamento politico della sua vita amministrativa nei modi e nelle forme che sono suggeriti dal linguaggio delle intercettazioni e dalla sua elaborazione nelle notizie relative all’inchiesta… Quella che vi stanno dando non è informazione su un’associazione delinquenziale ma una coglionatura ideologica per creduloni. »(Il Foglio, 4.12.2014).

È il fisiologico rosicchiar di topi dove c’è formaggio, insomma, e si tratta di topi che ruggiscono come leoni, ma topi restano, e chi gli corre appresso è un esaltato con la fissa dei safari. Er Cecato avrà un avvocato, ma pure la cecataggine ne ha uno. Sì, il morto ha un sasso in bocca, ma era un fimminaro e l’avrà fatto fuori un marito cornuto.

Confiscati bar, ristoranti, ville: a Roma anche la ‘ndrangheta pascola indisturbata

Le quote sociali e l‘intero patrimonio aziendale della Macc 4 Srl, con sede nella capitale che si occupa di acquisto, vendita e gestione di bar, ristoranti, pizzerie, rosticcerie, proprietaria del bar Antiche mura; il 30% delle quote del capitale sociale e del patrimonio aziendale, comprensivo dei conti correnti, della Colonna Antonina 2004 Srl titolare, sino al novembre 2009, del noto Bar Chigi; due immobili, tra cui un villino di pregio, a Roma; appezzamenti di terreno agricolo per oltre 12 mila metri quadri; vari rapporti finanziari bancari, postali ed assicurativi: sono i beni confiscati dalla Guardia di finanza di Reggio Calabria.
I beni, secondo le indagini del Comando provinciale di Reggio Calabria e del Servizio centrale investigazione criminalità organizzata di Roma, sono riconducibili, direttamente o indirettamente, a due affiliati di rilievo, Francesco Frisina, di 58 anni, ed il nipote Alessandro Mazzullo (31).
Frisina è figlio di Domenico, già affiliato alla cosca ucciso il 4 luglio 1979, nell’ambito della guerra di ‘ndrangheta che sino al 1990, aveva visto coinvolte le cosche Condello e e Gallico che ha mietuto più di 50 vittime. Mazzullo è figlio di Giuseppe , ritenuto uno dei “rampolli” emergenti della Cosca Gallico, al quale è stato attribuito il ruolo di intestatario fittizio dell’associazione criminale a Roma.
Dalle indagini è emerso come la cosca, proprio grazie a Frisina e Mazzullo ed ai legami da quest’ultimi, instaurati con altri soggetti di elevata caratura criminale a vario titolo collegati alla storica cosca degli Alvaro nelle ramificazioni di Sinopoli e Cosoleto rispettivamente denominate “Carni i cani” e “Testazza o Cudalonga”, già da tempo impiantate nel comprensorio romano, avesse delocalizzato il proprio centro di interessi dalla Calabria alla Capitale. I due, dopo il trasferimento a Roma, in breve tempo, erano riusciti a condurre una serie di operazioni finanziarie finalizzate all’acquisizione, diretta o indiretta, di diversi immobili, nonché alla gestione di varie attività commerciali – in primis nel settore della ristorazione – manipolando le regole di libero mercato con l’alterazione dei dettami commerciali e finanziari del contesto socio-economico romano. Inoltre è emerso che, a fronte dell’esigua capacità di reddito, i due hanno investito ingenti capitali.
Frisina e Mazzullo sono stati anche sottoposti alla sorveglianza speciale di ps per 3 anni e 6 mesi con obbligo di soggiorno nel Comune di residenza o di dimora.

(fonte)

Ora a Roma si esulta per il Meno peggio

Ci pensavo proprio oggi e invece l’aveva già scritto perfettamente Alessandro:

Con l’esplosione della vicenda Alemanno-Carminati, la riabilitazione di Marino è giunta a conclusione. «Meno male che il problema di Roma era la Panda» è stato il commento più scritto e visto in giro delle ultime 24 ore. Ci si è resi conto nelle mani di chi era questa città, come sindaco e amici, fino a 17 mesi fa. Roba da brividi alla schiena. Certo, nell’inchiesta è finito anche un pezzo di Pd. Ma il presidente del consiglio comunale indagato, Mirko Coratti, era proprio tra quei potenti piddini che fino a dieci giorni fa facevano i bulli col sindaco. E l’assessore Daniele Ozzimo era un altro ras delle preferenze, uomo di Umberto Marroni, insomma un’altra delle tribù armate democratiche. Ovvio che rispetto a questa gente il chirurgo in bicicletta faccia la figura dello statista.

Resta il dubbio che se Marino non era un grande amministratore fino un mese fa – e qui basta uscire di casa per averne contezza – non è che lo sia diventato adesso. Resta cioè il dubbio che sia scattata inesorabile la logica del meno peggio.

Mafia Capitale: ecco a cosa serve il razzismo contro i rom

romVoi paghereste seicento euro al mese per vivere in uno stanzone affollato e senza finestre? Sicuramente no. Eppure questa è la cifra che il Campidoglio versa all’ente gestore della “Best House Rom” per ciascun rom ospitato nel centro di accoglienza di via Visso.

Ciò significa che per una famiglia di sei persone le casse pubbliche spendono 3600 euro: il costo di un affitto in una casa di lusso nel centro di Roma. Lo scandalo, uno dei tanti consumati sulla pelle dei cosiddetti “zingari”, è stato denunciato dal consigliere comunale radicale Riccardo Magi nelle ore immediatamente precedenti alla retata che ha portato all’arresto di 37 persone per l’inchiesta “Mondo di mezzo”.

Tra gli arrestati figura Emanuela Salvatori, responsabile dell’ufficio rom del Campidoglio e coordinatrice dell’attuazione del “Piano rom e interventi di inclusione sociale”.

Un altro degli arrestati è Salvatore Buzzi, ramo Lega Coop, che nelle intercettazioni dice: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico de droga rende meno”

Nel business “immigrati” rientrano anche i settemila rom che vivono nei campi attrezzati di Roma. Si tratta degli stessi rom contro i quali manifestano Casapound e le destre romane per capitalizzare voti. Un doppio sfruttamento altamente redditizio: i rom fruttano soldi alla destra e alla sinistra grazie agli appalti delle cooperative che gestiscono i campi, e fruttano voti – specialmente alla destra – perché ripetere che gli zingari sono “culturalmente” ladri (lo ha sottolineato Ignazio La Russa) è sempre un ottimo argomento per scaricare sugli intoccabili la responsabilità di una mala gestione amministrativa.

È vero, gli uomini di Maurizio Carminati – il capo della banda di fascio-mafiosi, ex appartenente alla banda della Magliana – hanno mangiato abbondantemente sull’emergenza profughi e sull’accoglienza dei migranti a Roma, e non soltanto sui rom. Tuttavia sono i rom a essere prigionieri – letteralmente – del sistema che impedisce loro di uscire dai campi e prigionieri di un razzismo che non trova corrispondenze in nessuna etnia.

Che i rom vogliano vivere nei ghetti, all’interno delle baracche, è per esempio una delle tante favole che la politica racconta ai cittadini per dimostrare che i campi nomadi fanno parte della cultura zingara. Non è vero, e lo dimostra il fatto che l’Unione europea è pronta a multare l’Italia proprio perché non sta smantellando i campi attrezzati.

L’inchiesta della Procura di Roma sulla Mafia Capitale sta svelando quello che da tempo associazioni come la 21 luglio denuncia da anni, e cioè che dietro questa falsa necessità dei campi rom si nasconda una speculazione tutta italiana e tutta mafiosa sulla pelle dei settemila rom censiti nella Capitale: siccome questi ghetti pestilenziali hanno bisogno – dice la politica – di sorveglianza continua e persone che si occupino dell’integrazione, allora ecco gli appalti per i vigilantes, gli scuolabus appositi per i rom e così via.

Ma quanto spende il Campidoglio per sole settemila persone, in maggioranza bambini? 42 milioni in tre anni “e non sappiamo dove siano finiti questi soldi”, diceva un funzionario del Comune all’Huffington Post durante una visita del campo di via Gordiani, dove le famiglie vivono in prefabbricati cadenti con i bagni rotti. Di quella cifra, 32 milioni erano arrivati grazie al Piano Nomadi di Gianni Alemanno.

Sempre durante la giunta Alemanno, era stata approvata una norma che nell’applicazione pratica impediva ai rom – molti dei quali italiani – di accedere alle graduatorie delle case popolari. Di questa ennesima misura discriminatoria si era occupato persino il quotidiano britannico “The Guardian”. Anche questo serviva a perpetuare l’esistenza dei campi nomadi, con un duplice scopo: raccontare alla cittadinanza che in fondo gli “zingari” non vogliono vivere come tutti gli altri, e continuare il business degli appalti intorno ai rom.

L’inchiesta che sembra smantellare la cupola fascio-mafiosa – ma c’è di mezzo un pezzo della sinistra – potrebbe servire finalmente a decostruire tutte le menzogne razziste che tutta la politica, in maniera davvero bipartisan, ha utilizzato per dipingere i rom come aggressori, criminali e ladri di bambini. Un racconto che ha fatto breccia anche nelle anime più progressiste.

(fonte)

I caratteri di Mafia Capitale

Per orientarsi in mezzo alle tante opinioni vale la pena leggere piuttosto le parole della Procura di Roma sottoscritte il 28 novembre dal Giudice Flavia Costantini:

I caratteri di Mafia Capitale

Le indagini svolte hanno consentito di acquisire gravi indizi di colpevolezza in ordine all’esistenza di una organizzazione criminale di stampo mafioso operante nel territorio della città di Roma, la quale si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne derivano per commettere delitti e per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione e il controllo di attività economiche, di appalti e servizi pubblici.

Mafia Capitale, volendo dare una denominazione all’organizzazione, presenta caratteristiche proprie, solo in parte assimilabili a quelle delle mafie tradizionali e agli altri modelli di organizzazione di stampo mafioso fin qui richiamati, ma, come si cercherà di dimostrare nella esposizione che segue, essa è da ricondursi al paradigma criminale dell’art. 416bis del codice penale, in quanto si avvale del metodo mafioso, ovverosia della forza di intimidazione derivante dal vincolo di appartenenza, per il conseguimento dei propri scopi.

Essa presenta, in misura più o meno marcata, taluni indici di mafiosità, ma non sono essi ad esprimere il proprium dell’organizzazione criminale, poiché la forza d’intimidazione del vincolo associativo, autonoma ed esteriorizzata, e le conseguenti condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano, sono generate dal combinarsi di fattori criminali, istituzionali, storici e culturali che delineano un profilo affatto originale e originario.

Originale perché l’organizzazione criminale presenta caratteri suoi propri, in nulla assimilabili a quelli di altre consorterie note, originario perché la sua genesi è propriamente romana, nelle sue specificità criminali e istituzionali.

Sarebbe un errore di prospettiva annoverare tout court Mafia Capitale nel catalogo delle nuove mafie.

Se è indiscutibile che la sua diagnosi sia frutto dell’utilizzazione – scevra da pregiudizi nel senso più anodino del termine–  di quello che in dottrina è stato definito un modello di tipizzazione contenuto nell’ultimo comma dell’art. 416bis c.p., deve escludersi che la sua genesi sia recente e reputarsi che essa sia radicata da tempo, mentre deve ritenersi che essa sia stata  investigativamente colta nella fase evolutiva propria delle  organizzazioni criminali mature, che fruiscono, ai fini dell’utilizzazione del metodo mafioso, di una accumulazione originaria criminale già avvenuta.

Muovendo da quanto condivisibilmente è stato ritenuto in dottrina, secondo cui «ogni associazione di tipo mafioso ha alle spalle un precedente (e concettualmente distinto) sodalizio-matrice, con originario programma di delinquenza in parte finalizzato proprio alla produzione della «carica intimidatoria autonoma»; finalità apprezzabile e riconoscibile, peraltro, solo a posteriori cioè a metamorfosi avvenuta e dopo la consunzione del sodalizio-matrice nella nuova entità di tipo mafioso», nel caso di specie può ritenersi che la trasformazione sia compiutamente avvenuta.

A usar metafore, il fotogramma di Mafia Capitale, ossia la sua considerazione sincronica, rivela un gruppo illecito evoluto, che si avvale della forza d’intimidazione derivante –anche– dal passato criminale di alcuni dei suoi più significativi esponenti; la pellicola di Mafia Capitale, ossia la sua considerazione diacronica, evidenzia un gruppo criminale che costituisce il punto d’arrivo di organizzazioni che hanno preso le mosse dall’eversione nera, anche nei suoi collegamenti con apparati istituzionali, che si sono evolute, in alcune loro componenti, nel fenomeno criminale della Banda della Magliana, definitivamente trasformate in Mafia Capitale.

Un’organizzazione criminale tanto pericolosa quanto poliedrica che, per dirla con le parole di uno dei suoi più autorevoli e pericolosi esponenti, Massimo Carminati ( il Pirata o ilCecato), opera, soprattutto, in un  mondo di mezzo,  un luogo dove, per effetto della potenza e dell’autorevolezza di Mafia Capitale, si realizzano sinergie criminali e si compongono equilibri illeciti tra il mondo di sopra, fatto di colletti bianchi, imprenditoria e istituzioni, e il mondo di sotto, fatto di batterie di rapinatori, trafficanti di droga, gruppi che operano illecitamente con l’uso delle armi.

Sul piano strutturale, le mafie tradizionali presentano modelli organizzativi pesanti, rigidamente gerarchici, nei quali i vincoli di appartenenza sono indissolubili e inderogabili. Un tale modello organizzativo è, però, storicamente e sociologicamente, incompatibile con la realtà criminale romana, che è invece stata sempre caratterizzata da un’elevata fluidità nelle relazioni criminali, dall’assenza di strutture organizzative rigide, compensata però dalla presenza di figure carismatiche di grande caratura criminale, quali Ernesto Diotallevi,  Michele Senese (zi Michele)  Massimo Carminati (il Pirata, il Cecato) e da rapporti molto stretti con le organizzazioni mafiose tradizionali operanti sul territorio romano e da una connaturata capacità di ricercare e realizzare continue mediazioni, che si risolvono in un equilibrio idoneo a generare il senso della loro capacità criminale. 

Mafia Capitale, in questo differenziandosi e in parte affrancandosi dalle precedenti espressioni organizzate capitoline come la Banda della Magliana, ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma, creando una struttura organizzativa di tipo  reticolare o  a raggiera, che però mantiene inalterata la capacità di intimidazione derivante dal vincolo associativo nei confronti di tutti coloro che vengano a contatto con l’associazione.

In essa, alcuni dei suoi componenti godono di ampi margini di libertà, sì che essi, oltre a essere impiegati attivamente nella mission dell’associazione, svolgono autonomamente e personalmente attività illecite.

Sul piano del core business, l’attività di Mafia Capitale è orientata al perseguimento di tutte le finalità illecite considerate nell’art. 416bis c.p.

Tra esse, le più frequenti finalità perseguite, e non di rado realizzate, sono tuttora la commissione di gravi delitti di criminalità comune, prevalentemente a base violenta, ma soprattutto l’infiltrazione del tessuto economico, politico ed istituzionale, l’ottenimento illecito dell’assegnazione di lavori pubblici.

Un’organizzazione criminale che siede a pieno titolo al tavolo di altre e più note consorterie criminali, condizionandone l’attività sul territorio romano, che ha piena consapevolezza di sé e del suo ruolo nella gestione degli affari illeciti della capitale.

Eloquente, in proposito, appare essere un’intercettazione ambientale, avente come protagonista Carminati, capo indiscusso di Mafia Capitale,  a seguito della pubblicazione di un articolo sul settimanale “L’Espresso”, dal titolo “I quattro Re di Roma”, nel quale si faceva riferimento ad una divisione della capitale in zone d’influenza ad opera di distinti gruppi criminali con a capo rispettivamente  Carminati Massimo, Senese Michele, Fasciani Giuseppe e Casamonica Giuseppe.

“Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”

Un bigino da stampare e da tenere in tasca per la prossima strabica rivolta in stile Tor Sapienza:

Per la “cupola” di Roma l’emergenza immigrati era una miniera d’oro: i fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco e il sodalizio criminale ipotizzato dagli inquirenti fa in modo che parte di questi finanziamenti finisca nelle tasche delle cooperative amiche. Gli inquirenti lo chiamano “Sistema Odevaine“: “La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo riconducibile a Buzzi si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell’ordinanza di applicazione delle misure cautelari firmata dal gip Flavia Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla P.A.”.

Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici “che si dividono il mercato“. E il mercato dei fondi statali per i centri di accoglienza per gli immigrati è immenso. Gli inquirenti parlano della “possibilità di trarre profitti illeciti immensi (…) paragonabili a quelli degli investimenti illeciti realizzati in altri settori criminali come lo smercio di stupefacenti. Le intercettazioni parlano chiaro. Al telefono con Pierina ChiaravalleSalvatore Buzzi, numero uno della cooperativa “29 giugno” e braccio operativo dell’organizzazione, domanda: “Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno”.

Il centro del sistema è Luca Odevaine. Ex vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni e capo della polizia provinciale di Roma, “Odevaine è un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati”, scrivono i pm. Perché è così importante la sua figura? “La qualità pubblicistica di Odevaine risiede nell’essere appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale insediato presso il Ministero dell’Interno – Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione” e al contempo è “esperto del presidente del C.d.A. per il Consorzio “Calatino Terra d’Accoglienza”» , ente che soprintende alla gestione del C.A.R.A. di Mineo“. Un’intercettazione in cui Odevaine parla con il suo commercialista fotografa il suo ruolo: “Avendo questa relazione continua con il Ministero – spiega l’ex vice capo segreteria di Veltroni – sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… (inc.) le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…”.

Odevaine è ben pagato, secondo Salvatore Buzzi. Parlando con Giovanni Campennì, il braccio operativo dell’organizzazione spiega: “Mò c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col PD, poi con la PDL ce ne ho tre e con Marchini c’è… c’ho rapporti con Luca (Odevaine, ndr) quindi va bene lo stesso… lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese… ed io ne piglio quattromila”.

Il piatto è ghiotto anche nella sola città di Roma e la cupola è talmente potente da deviare in sede di bilancio pluriennale risorse in favore delle strutture di accoglienza. Gli inquirenti sottolineano la “capacità del sodalizio indagato, di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione del bilancio pluriennale 2012/2014 e relativo bilancio di assestamento di Roma Capitale, avvalendosi degli stretti rapporti stabiliti con funzionari collusi dell’amministrazione locale, al fine di ottenere l’assegnazione di fondi pubblici per rifinanziare “i campi nomadi”, la pulizia delle “aree verdi” e dei “Minori per l’emergenza Nord Africa”, tutti settori in cui operano le società cooperative di Salvatore Buzzi”.

All’epoca dei fatti alla guida del dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute del Comune di Roma (che gestisce la questione immigrati) c’era Angelo Scozzafava, con il quale la “cupola” aveva ottimi rapporti: “Le indagini hanno evidenziato l’ipotesi di una remunerazione dell’attività funzionale di costui da parte di gruppo criminale  – scrivono gli inquirenti – con la promessa dell’assegnazione di un appartamento in una cooperativa” perché “Scozzi” come lo chiamano i sodali, “si fa promotore di attività a favore del gruppo presso altri organi dell’amministrazione comunale, per spingere su finanziamenti a favore del campo nomadi“. Ma dopo le elezioni comunali del 2013 le cose cambiano: il 14 giugno 2013 Buzzi raccontava al telefono a Carminati di trovarsi al Campidoglio “in giro per i Dipartimenti a saluta’ le persone”. La decisione veniva accolta favorevolmente accolta dall’ex Nar che riteneva necessario “vendere il prodotto amico mio, eh. Bisogna vendersi come le puttane ades…adesso”. A quel punto Buzzi raccontava la difficoltà di muoversi nell’ambito della nuova situazione politica romana in quanto in quel momento “solo in quattro sanno quello che succede e sono nell’ordine BianchiniMarinoZingaretti e Meta“, e Carminati rispondeva in maniera eloquente: “E allora mettiti la minigonna e vai a batte co’ questi, amico mio”.

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La Lupa: la mafia romana, i nomi

La mani mafiose sul Campidoglio. Una immagine che si svela con un’inchiesta della Procura di Roma, battezzata Terra di Mezzo, che porta in carcere 28 persone e ha fatto finire nel registro degli indagati il nome di 37 persone tra cui quello dell’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Che risponde di associazione di stampo mafioso. Ai 37 gli inquirenti, coordinati di Giuseppe Pignatone, contestano a vario titolo, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati.

Al centro dell’indagine del Ros, un sodalizio da anni radicato a Roma e facente capo a Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale.Tra gli arrestati anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini. È in alcuni intercettazioni, Tra Mancini e Carminati, che è venuto fuori il nome dell’ex primo cittadino, dei rapporti con alcuni importanti imprenditori romani.

I carabinieri hanno perquisito gli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio per acquisire documenti gli uffici della Presidenza dell’Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio.Contemporaneamente la Guardia di Finanza ha eseguito un decreto di sequestro di beni riconducibili agli indagati, emesso dal tribunale di Roma, per un valore di 200 milioni di euro. Gli inquirenti, infatti, hanno documentato un sistema corruttivo finalizzato all’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate, con interessi anche nella gestione dei centri di accoglienza per gli immigrati.

In manette anche Riccardo Brugia, Roberto Lacopo, Matteo Calvio, Fabio Gaudenzi, Raffaele Bracci, Cristiano Guarnera, Giuseppe Ietto, Agostino Gaglianone, Salvatore Buzzi, Fabrizio Franco Testa, Carlo Pucci, Franco Panzironi, Sandro Coltellacci, Nadia Cerrito, Giovanni Fiscon, Claudio Caldarelli, Carlo Maria Guarany, Emanuela Bugitti, Alessandra Garrone, Paolo Di Ninno, Pierina Chiaravalle, Giuseppe Mogliani, Giovanni Lacopo, Claudio Turella, Emilio Gammuto, Giovanni De Carlo, Luca Odevaine. Il gip ha disposto gli arrestu domiciliari per Patrizia Caracuzzi, Emanuela Salvatori, Sergio Menichelli, Franco Cancelli, Marco Placidi, Raniero Lucci, Rossana Calistri, Mario Schina. Il giudice per le indagini preliminari ha invece rigettato la richiesta di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che sono comunque indagati.

Domenica scorsa era stata perquisita la casa di Marco Iannilli, il commercialista romano, già finito in carcere e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle e coinvolto nel caso Enav. Domenica gli uomini del Ros hanno effettuato delle perquisizioni nella villa di Iannilli a Sacrofano, in provincia di Roma. Perquisita anche la casa di Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma.

di Marco Lillo e Valeria Pacelli

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#TorSapienza un’analisi storica e urbana

[di Adriana Goni Mazzitelli su Comune Info]

tor-sapienzaStoria di una periferia romana che grida la sua separazione. Dal quartiere operaio della prima metà del Novecento alle occupazioni abitative degli anni Duemila, Tor Sapienza ha attraversato l’era dei palazzoni e quella dei campi rom senza poter curare le profonde lacerazioni del suo tessuto sociale. Una periferia composta di insediamenti casuali e frammentari, di enclave vissute nella cultura dell’emergenza e mai messe in condizione di poter comunicare o interagire, di crescere insieme per diventare società. Quando la situazione s’è fatta esplosiva, istituzioni lontane anni luce dalla vita reale di buona parte della città, le stesse istituzioni che in passato hanno favorito la sovrapposizione “temporanea” di strati sociali abbandonati al degrado e all’isolamento, hanno improvvisato un frettoloso e indecente sgombero dei ragazzi fuggiti dalle devastazioni che investono i loro paesi e tanto commuovono finché restano sul piccolo schermo. Un tentativo goffo quanto illusorio di calmare rabbiosi sentimenti nazionalisti e identitari che ben altre risposte dovranno trovare. Quello che generalmente non si racconta, quando si dice che la cittá è il futuro dell’umanitá, è che la chiusura di zone intere (e la decisione di condannarne altre al degrado e all’abbandono) induce le persone a credere che nella guerra tra benestanti e poveri tutto sia ammesso. C’è tuttavia anche un’altra storia di Tor Sapienza, quella delle persone che hanno scritto sulla maglietta: scudo umano contro il razzismo. Che è poi la stessa delle famiglie che dopo aver occupato le case hanno pulito le terre abbandonate, creato degli orti didattici, offerto cene al quartiere e animato la sola speranza di futuro che ci resta

Sono lontana da Roma, in questo momento. Qui a Montevideo sto studiando le politiche che il governo uruguayano ha messo in campo per combattere la miseria attraverso progetti di autorecupero delle periferie e delle case abbandonate in città. Seguo con amarezza quello che sta accadendo a Tor Sapienza, periferia est di Roma, dove ho lavorato negli ultimi quattro anni. Leggo di notti di scontri e attacchi contro il centro di accoglienza che da anni riceve rifugiati in transito nel pezzo di quartiere chiamato Tor Sapienza II, ovvero nel complesso di edilizia sociale Giorgio Morandi.

Da tempo associazioni, comitati di quartiere, università e gruppi di cittadini italiani – ma anche peruviani, eritrei, marocchini, rumeni, sudanesi e rom – provano a bucare l´indifferenza di istituzioni di governo lontane dai territori. Chiedono azioni concrete contro l’abbandono e il sovraffollamento delle periferie. Non che non ci sia posto per tutta questa popolazione. Fino a qualche decennio fa, Tor Sapienza era una borgata in mezzo al verde, poi, con il passar degli anni, s’é trasformata in città. Chiudendo, molte fabbriche hanno lasciato ampi spazi per progetti di “densificazione” abitativa, lo stesso vale per molte altre aree verdi dove gli insediamenti informali marcano la tendenza a una crescita demografica che da qualche parte deve pur trovare posto.

La domanda di soluzioni abitative è dunque cresciuta in modo progressivo ma la risposta delle istituzioni non è mai arrivata. Non poteva che conseguirne un susseguirsi di figure definite, di volta in volta, informali, illegali e in altri modi simili. Non sono altro che risposte concrete all’emergenza di vivere per strada con la propria famiglia, italiana o straniera che sia.

L’urban divide

Nel loro programma internazionale sulle cittàUN Habitat, le Nazioni Unite avvertono che l’urban divide, il divario urbano che si sta creando tra la città ricca e quella povera è in aumento vertiginoso: 800 milioni di persone circa vivono negli slums (favelas,bidonville, baraccopoli). Le città statunitensi hanno anticipato la forma della metropoli del futuro. Gli studiosi hanno capito che la crescita vertiginosa avrebbe portato intere porzioni di città ad essere ghetti di povertà, con centinaia di senza tetto e quartieri dediti alla malavita (Angotti 2009). Le cittá latinoamericanehanno mostrato una tendenza che poteva essere complementare o anche opposta: i ricchi si attrezzano sempre più per “rinchiudersi” nel benessere costruendo quartieri esclusivi e “gatted communities” (quartieri privati, blindati, chiusi con delle mura e sorvegliati 24 ore su 24) (Grimson: 2019) .

Nel resto delle cittá del mondo, si confermano entrambi i fenomeni ma non sono così evidenti o, meglio, non si vuole vederli e accettarli. Quello che generalmente non si racconta, quando si dice che la cittá è il futuro dell’umanitá, è che la chiusura di zone intere (e la decisione di condannarne altre al degrado e abbandono) induce le persone a sviluppare una forte convinzione che nella guerra tra benestanti e poveri tutto sia ammesso. In questo modo, si alzano notevolmente i livelli di violenza, mentre scende il rispetto per la vita di chi sta dall’altra parte della barricata. Nessun sofisticato sistema tecnologico sarà sufficiente a garantire la sicurezza, ovunque esisterà sempre un margine per superarlo. E quando questo accadrà, non ci sarà pietà, perché questi sistemi di segregazione urbana sono una dichiarazione di guerra fatta da chi “si vuole proteggere” a chi viene “escluso” (Rossal:2009).

La città europea moderna ha sempre vantato la sua sensibilità nell’evitare di emarginare le popolazioni e nel fare attenzione alla qualità della vita sociale pubblica, ambientale ed estetica dei territori urbani. Per questo ci si è tanto interrogati sul “diritto alla città” e le disuguaglianze sociali (Lefebre 1968). Negli ultimi decenni, però, la capacità di affrontare le disuguaglianze è diminuita e ora ci troviamo di fronte alla crescita di conflitti sociali dovuti in gran parte a un non riconoscimento della diversità culturale e alla marginalità urbana.

Di conseguenza, molti governi si affannano a mostrarsi fermi nel respingere l’immigrazione o nel chiudere le frontiere, piuttosto che nell’iniziare a studiare politiche e programmi per attenuare il disagio e la separazione sociale. In Europa, le città francesi e inglesi ne pagano i prezzi da tempo, come si è visto nelle banlieuparigine (Merklen:2009) e nei quartieri popolari londinesi (Dines&Cattell: 2006).

In Italia alcune città sono più virtuose che altre. A Roma gli ultimi veri interventi per ripensare le periferie in forma integrale risalgono agli anni ’90, con i progetti URBAN (Allegretti: 2004), e al 2002 con i Contratti di Quartiere. Nonostante questa immobilità nello sviluppo di politiche urbane, le periferie romane sono in permanente cambiamento e per l’urbanistica, per i governi e per la societá tutta è fondamentale osservarle con attenzione. Come segnalano Ilardi e Scandurra, guardare Roma è come osservare un’anticipazione dei mutamenti a livello nazionale. “Dalle borgate dei “ragazzi di vita” di Pasolini ai centri sociali occupati, dai territori abbandonati dei rave illegali al movimento ultras, fino, in questi anni 2000, alle tristi e sempre uguali aggregazioni abitative sorte intorno ai centri commerciali, le periferie romane hanno sempre lavorato come grandi laboratori di sperimentazioni culturali, come cantieri di nuove alchimie sociali, come formidabili macchinari che producono metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale” (Ilardi e Scandurra: 2009).

Se questo è vero, si può dire che le periferie di Roma, più di altri quartieri della città, stanno anticipando l’Italia che verrà. Per esempio con un’enorme ricchezza e pluralità culturale, con pezzi di città informale che rivendicano i diritti negati attraverso strategie di controllo e sospensione esplicita delle libertà – come avviene nei campi o nei centri di permanenza temporanea – ma anche con le popolazioni “storiche” ostaggio di un’immobilità politica e della perdita di capacità d’innescare processi locali di dialogo e costruzione di una nuova città. Purtroppo, le periferie romane sono anche i luoghi dove prende il sopravvento un nuovo sentimento nazionalista identitario. Si tratta di un sentimento che sta incubando molta violenza e una netta chiusura verso le migrazioni, è alimentato da movimenti xenophobi e razzisti come Forza Nuova.

Tor Sapienza e dintorni. La periferia est di Roma

Nella nostra presenza-ricerca-azione-vissuto, abbiamo visto come – nonostante questo sia stato all’inizio un quartiere operaio e una borgata con una scala spaziale e sociale a misura umana – Tor Sapienza sia poi diventata una “periferia d’enclave”, una periferia di frammenti che non riescono a interagire. Da qualche anno poi, i frammenti sono in permanente tensione e accendono conflitti che vanno verso la violenza vista in questi giorni, una violenza che purtroppo si respira anche nei gesti quotidiani degli uni verso gli altri.

Non è una storia recente. Quando la situazione si fa esplosiva, la politica prova a calmare gli animi con qualche sgombero fatto a caso, con una pulizia AMA di qualche giornata, oppure promettendo presidi militari. Non si guarda mai alle cause profonde, perché per farlo bisogna studiare la storia di queste periferie, capire quali sono stati i fattori che hanno portato le cose fino a far esplodere la rabbia e la voglia di farsi giustizia da soli. All’esasperazione, la parola che scelgono tanti di quelli che vivono lì, si somma l’ira di chi ne ha viste di tutti i colori. Tutti i partiti hanno attraversato questi territori, tutti hanno fatto promesse che servivano a spegnere incendi, nessuno ha cercato davvero di cambiare il volto di questi luoghi in modo progressivo e con una tempistica sensibile ai tempi di vita delle persone e ai cambiamenti sociali locali.

Nella storia di Tor Sapienza, abbiamo identificato almeno quattro tipologie d’insediamenti che illustrano la crescente separazione fisica e sociale delle popolazioni con difficoltá economiche e quella della popolazione migrata qui da altri continenti. La prima è il quartiere originario, case basse e una fisonomia da piccola città, la seconda è quella dei “palazzoni” per gli ex- baraccati del centro di Roma costruiti negli anni ’70 e ´80, come il Complesso ATER Giorgio Morandi; la terza è quella delle strutture per le migrazioni o le popolazioni “temporanee” e “tollerate”, come i campi rom (per i profughi della guerra dei Balcani) costruiti negli anni ’90 o i Centri di Prima Accoglienza (CPA) per rifugiati e richiedenti di asilo, ricavati da edifici già esistenti negli anni 2000 e gestiti dalla Croce Rossa e da cooperative sociali; e infinela quarta, quella delle occupazioni per il diritto all’abitare, che costituiscono uno dei fenomeni più importanti e interessanti degli ultimi dieci anni a Roma.

Se la situazione attuale delle periferie italiane, e romane in particolare, rappresenta una sfida per la costruzione di una città equa, bisogna analizzare le conseguenze di questa stratigrafia di “enclave” (frammenti), costruite per le popolazioni disagiate e considerate in eccesso o di passaggio. Quasi tutti questi spazi si sono rivelati fallimentari (tranne le occupazioni spontanee, vedi ricerca Pidgin City Careri, Goni Mazzitelli :2012), sia dal punto di vista spaziale che sociale. La raccolta di testimonianze di prima mano sul divenire urbano e socio-culturale di questa zona ci fa comprendere perché queste popolazioni non sono riuscite ad amalgamarsi e a continuare una tradizione di accoglienza di migranti, italiani e non, in questo territorio.

  1. Dalle borgate al quartiere operaio della prima metà del ‘900. Nasce Tor Sapienza

La denominazione del quartiere Tor Sapienza trae origine dalla presenza di una torre, detta “la sapienza nuova”, sorta nel XII secolo e affidata agli studenti di Perugia, grazie alla disponibilità dell’arcivescovo di Fermo. Attualmente, ne rimane il basamento quasi irriconoscibile. Questa torre era un punto di passaggio noto per chi arrivava a Roma e faceva parte di una “cintura storica” di casali e torri medievali. Michele Testa, ferroviere molisano antifascista, viene considerato il fondatore di Tor Sapienza come nucleo urbano. In seguito ai contrasti con il regime, nei primi anni Venti del secolo scorso, creò la Cooperativa Tor Sapienza dell’Agro Romano, che realizzò 25 abitazioni, seguite subito dopo da un altro centinaio.
 Il quartiere nasce così: un piccolo agglomerato di case che si consolida nel 1923, quando la ferrovia costruisce una stazione per i treni, dandole la forma di borgata, ancora semiurbana. Negli anni ’60, anche a Tor Sapienza arriva il boom economico, con il trasferimento delle aree industriali dalla zona Ostiense verso la periferia est. Alcune delle fabbriche più importanti di Roma erano poste in quest’area della città. C’erano la Voxon, la Peroni, la Litograf e la Fiorucci. E con le fabbriche arriva l’immigrazione interna, soprattutto dal Sud ma anche dall’Umbria, dalle marche e da altre regioni.

Sono anni di un benessere diffuso, dove le differenze culturali tra Italiani provenienti da diverse regioni sono sanate dalla situazione economica favorevole e dalla crescita di un quartiere a misura umana. Tor Sapienza viene considerato un quartiere operaio e il Partito comunista sostiene battaglie per la creazione di luoghi da dedicare allo “svago” dopo le molte ore di pesante lavoro. Nelle foto d’epoca, si vedono i campi di bocce ma anche l’occupazione del casale dove ha sede il Centro culturale, ora municipale, Michele Testa.

Il valore fondamentale è il lavoro. Gli uomini mostrano orgogliosi le mani con i calli dopo il carico e lo scarico dei sampietrini che venivano prodotti in uno degli stabilimenti vicini. Ci sono poi i laboratori artigianali, che davano servizi a tutto il quartiere, si fa una vita “casa e bottega”: nell’organizzazione sociale della famiglia, gli uomini sono impegnati nei mestieri manuali e le donne restano a custodire le cucine e la casa. Questo periodo, o epoca “fondante” (Gravano :2003) è rimasto nella memoria e nella costruzione collettiva della cultura locale come quello dei momenti più felici di questa comunità. All’epoca, la diversa provenienza degli italiani che popolavano le campagne romane trasformandole poco a poco in città non era importante, tant’è che, a differenza che in altre regioni italiane, gli immigranti dal Sud venivano detti “meridionali” e non “terroni” come in altre grandi città del nord. Tutt’ora alcuni anziani, quando chiediamo loro da dove provengono, si presentano come “meridionali”.

Dopo l’epoca “d’oro” fondante, anche a Tor Sapienza arrivano le crisi. C’è quella del petrolio, poi la graduale chiusura delle fabbriche, che alla fine degli anni ’70 cominciano a ridurre il personale, fino a trasferirsi lentamente in altri luoghi oppure direttamente chiudere. Questa lenta agonia è stata piuttosto sofferta dalla popolazione che, in molti casi, ha dovuto trasferirsi inseguendo la ricerca di nuovi lavori. Così ci racconta un cittadino di 63 anni: “Le famiglie storiche del quartiere saranno rimaste una quindicina. Le coppie con figli, per la mancanza di case, sono andate verso la zona di Colle Prenestino. Il quartiere è stato sempre di classe media operaia con un po’ di media borghesia. C’era anche qualche ingegnere e qualcun altro con titoli di studio ma erano quasi tutti operai quelli che prendevano casa qui vicino al lavoro”. Con la chiusura delle fabbriche, e il primo abbandono della popolazione locale diretta verso altri luoghi della città, chiudono anche tanti negozi e il quartiere entra in una fase di depressione. “ Per la gente di Tor Sapienza, questi cambiamenti avevano creato un forte senso di delusione. C’è stato anche un calo nel senso della collaborazione alla polis, alla costruzione della città e alla vita politica”. (Intervista a Carlo Gori, di Tor Sapienza in Arte)

  1. I palazzoni, il quartiere entra nella Roma “moderna” degli anni ’70 e ´80

Si arriva così alla costruzione dei “palazzoni”, ovvero al complesso edilizio di case popolari Morandi, che verrà costruito di fronte al quartiere originale collegando quello che fino ad allora era un quasi-paese, isolato dalla città, a una crescente espansione urbana della Roma “moderna”. Anche come tipologia edilizia, l’impatto è notevole. Rispecchia gli interventi modernisti della tendenza dell’epoca acostruire alti palazzi per risparmiare cementificazione al territorio. Gli alloggi costruiti saranno dati agli ultimi baraccati della città (Pallotini&Modigliani 1997). Come ci racconta un operatore della associazione Antropos, che lavora nella mediazione sociale con giovani e bambini del comprensorio: “Queste sono case date a persone che vivevano negli ultimi residui di baracche degli anni ’70, venivano dalla stazione Prenestina e dagli scantinati del Porticciolo. Questa era una collinetta, e qui è stato realizzato il comprensorio: 504 appartamenti su questa collinetta. Se calcoli 4 persone a famiglia, hai più di un comune qua dentro”.

L’urbanista Bernardo Secchi segnalava così il grande fallimento di questa strategia volta ad affrontare la povertà: “Si era stati troppo superficiali a pensare di dare casa, senza fermarsi a capire che si stava raggruppando tutto il disagio sociale nelle periferie” . Chiaramente, questo significava anche la riattivazione dell’industria delle costruzioni con fondi pubblici. Non si tratta di un fenomeno isolato ma di una modalità ben nota per riattivare l’economia in tutto il mondo attraverso la costruzione di città, secondo le analisi di David Harvey (Harvey:2012). In questo modo, la città ha però aumentato le sue disuguaglianze sociali creando i primi ghetti “pianificati”, dove il “capitale sociale” a disposizione era sempre quello di famiglie che avevano difficoltà ad arrivare alla fine del mese.

Molti paesi europei hanno riconosciuto negli anni il grande errore commesso.Queste opere sono state duramente condannate, visti i pessimi risultati conseguiti nelle generazioni successive in tutta Europa. In alcuni casi, in Germania e Francia, sono state addirittura demolite. È sembrata quella la sola possibilità di disgregare le bande e la criminalità organizzata che si erano formate al loro interno.

Per l’area storica di Tor Sapienza, negli anni ‘70 e ‘80 il Morandi è stato un corpo estraneo intorno al quale creare una cultura di resistenza, o meglio di difesa. Un quartiere tradizionale dove il lavoro era stato il principale valore di coesione della comunità, vedeva emergere un comprensorio di case popolari con famiglie che vivevano di sostegni sociali dello stato, segnato da tassi di delinquenza crescente:un mondo con il quale sembrava impossibile poter dialogare. Anche all’interno del comprensorio, però, non mancavano certo le difficoltà: “In questa architettura, dici una parola e rimbomba ovunque, tutto è in comunicazione. Da ogni punto, puoi vedere tutto, sembra un carcere. Qui intorno non c’era niente, solo prati, quindi la sera i ragazzi si riunivano qua sotto, sulle panchine di cemento. Le persone che non volevano essere disturbate dal rumore hanno iniziato a metterci la colla e l’olio bruciato, il livello di conflittualità interno è diventato altissimo”. (operatore associazione Antropos).

Sotto i palazzoni erano stati creati dei negozi, come in tante altre banlieu europee. L’idea era di ricostruire la dimensione di un intero quartiere in un comprensorio di edilizia popolare. Intorno al complesso c’è la chiesa e ci sono le scuole, cosi come un parco pubblico. All’inizio in quell’area c’era anche una biblioteca comunale ma all’intervento urbanistico non sono state accompagnate politiche permanenti di sostegno economico. Le diverse attività pubbliche, cosi come i commercianti, sono state abbandonate subito al loro destino. Non appena chi gestiva quegli spazi ha capito che doveva fare i conti con la microcriminalità che si stava creando e con l’apertura di centri commerciali della grande distribuzione che schiacciava la possibilità di creare un’economia locale, tutti hanno chiuso lasciando la spina centrale abbandonata.

Negli anni ’90, malgrado le sperimentazioni di animazione sociale e culturale e gli sforzi di riqualificazione fisica del comprensorio avessero stimolato l’interesse dell’amministrazione comunale, gli interventi rimanevano settoriali, senza riuscire a disinnescare logiche di malavita e criminalità organizzata. Sono gli anni delle teorie del “broken windows”, ovvero il degrado chiama il degrado e la criminalità, visto che a quest’ultima conviene che tutto sia abbandonato e “minaccioso” per mantenere lontani i “curiosi” e poter portare avanti il proprio business. Come segnala Daniela De Leo nei suoi studi sulla criminalità organizzata a Napoli: “A ben guardare le forme più evidenti si coagulano in aree ben circoscritte sebbene l’estensione delle aree d’influenza cambi considerevolmente da zona a zona, per un gran numero di variabili nelle quali il potere criminale è esplicito e visibile, cosi come lo sono le forme consentite di “microdevianza”. (De Leo: 2008)

A Roma, per dare risposta alla consapevolezza di avere sacche di povertà dove si stava creando una criminalità organizzata, negli anni ’90 si mettono in atto costosi programmi europei di rigenerazione urbana come gli URBAN. Il tentativo è di combattere la violenza mediante la lotta al degrado fisico e il coinvolgimento della comunità. In particolare, si sviluppano a Tor Bella Monaca ma, a parte pochi isolati miglioramenti, la mancanza di diversità sociale e culturale e la discontinuità degli interventi, ripropone oggi una situazione complessa di degrado generalizzato. La spina centrale del Morandi, abbandonata dai negozianti, è stata occupata a metà degli anni 2000 da famiglie in emergenza abitativa del Movimento di lotta per la casa.

Sono trascorsi quarant’anni e i quartieri, Tor Sapienza I e Tor Sapienza II (così viene chiamato il Complesso Morandi), non si sono ancora accettati. “In questi anni si è provato a riannodare questa catena di relazione tra i due pezzi di quartiere che prima si annusavano e si sopportavano con estrema diffidenza, ma la crisi ci ha riportato alla situazione di desolazione iniziale”. (operatore associazione Antropos).

3. Strutture temporanee per migranti internazionali, anni ’90 e 2000

A questi fenomeni prodotti nei complessi di edilizia popolare delle periferie, che rappresentano lo sviluppo urbano scelto negli anni ’70 dalle grande città europee per fare fronte alla povertá, si aggiunge nuova complessità con l’arrivo dell’immigrazione globale. Nel caso di Tor Sapienza, vengono identificati comeprime migrazioni importanti quelle provenienti dall’est europeo, con gli Albanesi e i Romeni. Dalle testimonianze si evince che all’inizio questi lavoratori riescono a inserirsi nel tessuto urbano tradizionale. Poi però, crescendone il numero e con la comparsa delle prime “emergenze umanitarie” dovute alla guerra dei Balcani, si decide di creare strutture ad hoc; sono i campi rom, che verranno regolarizzati in tutta Italia dalle leggi regionali. “All’inizio sono arrivati i Rumeni che si sono istallati negli appartamenti, durante gli anni ’80 e ‘90. Gli uomini lavorano come muratori, le donne come colf e badanti, ma anche nelle imprese di pulizia. Verso di loro c’è sempre stata una tolleranza, ancora oggi vivono in piccole case nei vicoli interni del quartiere storico. La chiesa ha aiutato la loro integrazione offrendo anche, in alcuni momenti di particolare necessità, viveri e denaro per le bollette della luce e del gas” (cittadino di Tor Sapienza).

Grazie alle ricerche del professor Marco Brazzoduro, possiamo ricostruire la storia del graduale arrivo dei Rom in quest’area.

Campo della Martora

I primi segnali dell’arrivo dei Rom sono gli insediamenti informali, avvenuti prima dagli anni ’90, che dopo si trasformano in un campo tollerato detto “della Martora”. “Vi si sono insediati da almeno 30 anni dei Rom appartenenti alla comunità dei Rudara, di cittadinanza jugoslava. Negli anni ’90 fu devastato da un furioso incendio, tanto che parte dei suoi abitanti furono generosamente accolti in una scuola del municipio (era luglio). Il campo venne poi ristrutturato e ai suoi abitanti furono assegnate delle roulotte. Negli ultimi anni, il campo si era notevolmente espanso con l’arrivo di molti Rom romeni che vi avevano insediato poverissime baracche. Il 5 luglio 2007 è stato oggetto di un’operazione di polizia che ha espulso tutti i residenti non inclusi nel censimento. Nel novembre dello stesso anno, in seguito allo sgombero degli insediamenti di Ponte Mammolo sulle rive dell’Aniene, cinque famiglie con 70 persone vi sono state trasferite. I residenti erano diventati 350”(Brazzoduro:2011). Il campo è stato sgomberato definitivamente nel 2010, come previsto dal Piano Nomadi, molti dei residenti sono stati trasferiti a Castel Romano.

A metà degli anni ’90 si crea il campo Salviati I. Nel quartiere raccontano cheall’inizio l’integrazione è stata pacifica, i bambini frequentavano le scuole del quartiere e gli adulti lavoravano e interagivano con il territorio. Con la creazione di Salviati II, alla fine degli anni ’90, iniziano a verificarsi seri problemi di convivenza. Negli anni 2000, nella stessa area, si arrivano a registrare circa 800 Rom, tra Martora, Salviati I, II e gli altri insediamenti informali vicini.

“Il Salviati è stato installato nel 1995 ed è il primo campo dotato di servizi comuni e centralizzati. Accoglie una piccola comunità di Rom Rudara che prima abitava sulle sponde dell’Aniene. I Rudara presenti a Roma provengono quasi tutti dalla città serba di Kraguievac, dove c’era un impianto Fiat per la produzione di automobili. Molti Rom del campo erano stati assunti proprio come operai Fiat. Gran parte dei Rom è in Italia da circa quarant’anni e quindi parla l’italiano correntemente. In Italia sono nate anche le seconde e le terze generazioni. Praticano commerci vari, vendono fiori la sera nel centro di Roma, qualche donna fa la badante, diversi suonano e cantano in matrimoni e ricorrenze varie ma anche sulle metropolitane e gli autobus.

Alla fine degli anni ’90, viene inaugurato il campo di Salviati II, il primo di una nuova generazione. Infatti, è stato il primo ad essere attrezzato con container dotati di bagno interno, angolo cottura, stufa a legna, corrente elettrica, acqua corrente calda e fredda. Il campo occupa un’area contigua alla linea ferroviaria dell’alta velocità Roma-Napoli, prima adibita a deposito giudiziario, ed era composto di 45container di 33 mq ciascuno. Salvo i primi tre, assegnati a Rudara, parenti della comunità contigua di Salviati I, gli altri accolgono una comunità di Xoraxanè trasferiti dal campo di Casilino 700 quando ne è stato deciso lo smantellamento. In origine, il Salviati II accoglieva 273 persone con una media di sei individui percontainer equivalenti a 5 mq procapite.

Dato l’elevato tasso di natalità – ogni anno nascono da dieci a venti bambini – l’affollamento è altissimo, tanto che quasi ogni famiglia ha costruito un’estensione del container per migliorare una difficile condizione. I Xoraxanè del campo provengono tutti dalla Bosnia e dal Montenegro, da dove sono fuggiti all’inizio degli anni ’90 quando le loro terre sono state devastate dalla guerra civile. I Rom, non riconoscendosi in alcuna delle due fazioni in lotta, hanno preferito abbandonare tutto e fuggire precipitosamente anche senza documenti. Vista la tragica situazione, i Paesi dell’UE hanno deciso di rilasciare a questi profughi un permesso di soggiorno umanitario, poi, a guerra finita e a pacificazione conseguita, i titolari sono stati invitati a trasformare in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. L’attività economica prevalente di questa comunità è quella della compravendita di rottami metallici; altre attività praticate sono quella della pulizia delle cantine, dei piccoli trasporti e del commercio di oggettistica di cui si muniscono frugando nei cassonetti della spazzatura. Alcuni fanno i meccanici, attività nella quale eccellono, anche perché usando per lavoro furgoni molto malridotti sono costretti a continue riparazioni”. (Brazzoduro:2011)

Insediamenti informali

Abbiamo rilevato infine molti insediamenti informali sparsi in tutta la zona. È un fenomeno diffuso tra i Rom ma non solo, anche tra chi non trova soluzioni abitative e spesso scappa dalle strutture inadeguate dei campi e dai centri di raccolta e accoglienza. Uno dei piú segnati da conflitti si trova di fronte al Moranti, nel cosiddetto canalone all’interno del prato. Si sgombera e si ricrea con una velocitá incredibile. Come spiega l’Associazione 21 Luglio, queste forme dell’abitare sono diffuse in tutta Europa: “Consistono in piccoli o piccolissimi insediamenti, sono per lo più abitati da famiglie di Rom comunitari provenienti dalla Romania, che hanno subìto diversi sgomberi forzati nel corso degli ultimi anni”.

Strutture temporanee per rifugiati: centro di prima accoglienza al Morandi anni 2000

Negli ultimi due anni, un grande centro di prima accoglienza per i rifugiati politici, gestito dalla Croce Rossa italiana, viene insediato nel complesso Morandi a Tor Sapienza. Una nuova sfida per la complessità di una già molto difficile convivenza nel territorio.
 Il centro di prima accoglienza A.M.I.C.I. (accogliere, mediare, informare, curare, integrare) è gestito dall’Università cattolica del Sacro Cuore e dalla Croce rossa italiana. Tra i suoi obiettivi dichiara di offrire “assistenza ai soggetti vulnerabili che hanno richiesto asilo in altri paesi europei, o che sono già titolari di protezione internazionale, ma che vengono trasferiti in Italia in applicazione del Regolamento di Dublino. È a queste persone che il Centro A.M.I.C.I. vuole garantire un inserimento socio-economico veloce ed effettivo assicurando loro la tutela dei diritti fondamentali (sanitari e giuridici) e la mediazione con le istituzioni competenti. L’intervento dell’Università Cattolica ha anche scopi di ricerca: mira a evidenziare le criticità del sistema di accoglienza internazionale, e a studiare la vulnerabilità per ridurre i fattori che la cronicizzano facendola trasformare in effettivo disturbo psichico. Il Centro è pronto ad assistere almeno 200 richiedenti/titolari di protezione internazionale vulnerabili, in particolare donne e minori, che rispondono alla categoria di “Dublino di rientro”, attraverso un’azione che si snoda lungo tre macro aree: la tutela della salute e della vulnerabilità; le procedure legali; la mediazione sociale e l’integrazione”.

Il principale problema derivante dal centro di prima accoglienza oggetto delle proteste e degli attacchi di questi giorni è stato quello di riversare un’elevata quantità di persone nello stesso momento, quasi tutti giovani maschi, nel quartiere di Tor Sapienza. Sebbene il programma miri ad occupare i giovani con lavori e formazione, le testimonianze degli abitanti del quartiere parlano di una vera e propria “invasione” degli spazi pubblici: il parco Barone Rampante, le strade, i bar, ecc. La città, in questo caso, come segnala Giorgio Agamben, viene usata come uno spazio di “sospensione”, senza capire bene “verso” dove si sta andando. Inoltre, come raccontano le nostre interviste, la diversità religiosa, linguistica e delle abitudini spaventa le persone del quartiere, che si sentono ulteriormente minacciate da “ondate” massicce di facce nuove.

  1. Occupazioni abitative anni 2000

Dal 2000 ad oggi, alla realtà che abbiamo visto si sono aggiunte le occupazioni abitative, una risposta ormai piuttosto diffusa a quella “emergenza casa” causata dai prezzi raggiunti dal mercato privato e dalla mancanza di risposte istituzionali: le liste e le graduatorie delle case popolari sono bloccate da anni. Le occupazioni assorbono un doppio fenomeno sociale, da una parte la povertà urbana e dall’altra la mancanza di programmi abitativi per le migrazioni. Le popolazioni immigrate affrontano questa mancanza di soluzioni abitative da molti anni, ma le grandi ondate migratorie degli anni 2000 trovano completamente impreparati governi e servizi locali. Questo significa che gli immigrati non trovano alcun riconoscimento né giuridico ne sul piano dei diritti, devono quindi arrangiarsi per sopravvivere e dare un tetto alle proprie famiglie. I governi locali lo sanno e per questo fanno “accordi” con le occupazioni che riducono il danno consentendo di dare una residenza ad abitanti che possono in questo modo mandare i figli a scuola e usufruire della sanità e dei sostegni pubblici.
 A tutto ciò, si aggiunge l’impoverimento di intere fasce della popolazione italiana e straniera (ma radicata da anni in Italia), che perdono il lavoro e non riescono a pagare gli affitti “gonfiati” da un mercato immobiliare speculativo (Sebastianelli: 2009).  A Tor Sapienza ci soffermeremo, a titolo esemplificativo, su una sola occupazione abitativa particolare. Va precisato, tuttavia, che, con il perdurare della crisi che colpisce in modo tanto pesante le famiglie italiane e straniere, negli ultimi tre anni le occupazioni abitative nella zona est di Roma sono triplicate.

Nel 2009 alcune famiglie senza residenza occupano una fabbrica abbandonata da anni, la ex Fiorucci. Hanno origini italiane, eritree, marocchine, peruviane e di altre nazionalità. Danno all’occupazione il nome di Metropoliz, “la città meticcia”, per la diversità di etnie e culture che si registra al suo interno. È un’occupazione piuttosto particolare, anche perché mette in luce molti dei temi chiave utili a comprendere il senso di queste forme di lotta: il riuso degli immobili abbandonati attraverso l’auto-recupero e l’auto-costruzione con finalità abitativa, il riuso del patrimonio industriale dismesso (in questo caso è un patrimonio privato ma invita a riflettere anche sulle potenzialità di quello pubblico), la concentrazione nelle aree con servizi e uno stop al consumo di suolo. Tutti temi che i movimenti di lotta per il diritto alla casa e all’abitare di Roma hanno sollevato negli ultimi anni, sia in forma teorica che pratica. Questa è inoltre la prima occupazione romana che, con il sostegno degli attivisti dei Blocchi precari metropolitani (Bpm) e dell’Associazione Popica Onlus, è disposta ad accogliere i Rom che rifiutano di andare nei campi. Così, queste famiglie rom iniziano un lungo percorso di convivenza e vita in comunità.

Le famiglie che entrano nella ex fabbrica sono novanta, in prevalenza sono composte di immigrati. Vengono da Perù, Sudan, Eritrea, Marocco, Romania e altri paesi. In un secondo momento, come detto, si aggiunge una comunità rom che, sgomberata dal Canalone di Centocelle, rifiuta le sistemazioni offerte dal Comune: andare nei campi o nei residence (Goni Mazzitelli & Broccia: 2011). A Metropoliz inizia un lungo percorso di auto-recupero della fabbrica per ricavare abitazioni dagli enormi spazi in disuso da anni. L’Università di Roma Tre, con vari corsi di architettura, sostiene queste sperimentazioni, si crea inoltre un movimento urbano di sostegno a questo spazio grazie alla visibilità che diversi artisti, riuniti nel MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, danno all’avventura delle famiglie occupanti.

Nonostante la visibilità acquisita a livello cittadino, nel quartiere si crea un malessere dovuto alla “disinformazione” e alla mancanza d’intermediazione da parte di figure di governo capaci di aprire canali di comunicazione tra le diverse realtà e le famiglie all’interno. Negli anni successivi, nella periferia est sono stati occupati altri palazzi dai movimenti per il diritto alla casa, il fenomeno ha continuato a crescere e sono nate polemiche sulla legittimità delle occupazioni e la loro “illegalità”. Nel frattempo, le famiglie hanno trovato un tetto e i bambini riescono a fare vite… quasi normali, lasciando per un momento da parte la minaccia ossessiva di potersi svegliare ogni giorno circondati da forze dell’ordine che impongono uno sgombero.

Un quartiere frammentato

In tutte le tipologie citate, dai palazzoni ai campi rom, dal centro di prima accoglienza alle occupazioni, le istituzioni hanno considerato queste popolazioni di passaggio, temporanee, tollerate, informali e, soprattutto, problematiche. Quasi tutte le situazioni descritte si sono invece dimostrate permanenti, perché non rispondevano veramente a realtà di passaggio (tranne il centro di prima accoglienza) ma a soluzioni abitative di fortuna che, in mancanza di politiche per la casa, sono diventate soluzioni finali.

La ricerca etnografica ha permesso di comprendere questa complessità derivante da una popolazione eterogenea e da barriere altissime tra popolazione immigrata e residenti originari. Le permanenti trasformazioni con famiglie immigrate che s’insediano nel tessuto locale – negozi cinesi, ristoranti di kebab, fruttivendoli indiani, banchi del mercato egiziani, ecc., presenze ormai frequenti in ogni metropoli del mondo – colgono di sorpresa una periferia che per decenni è stata invece omogenea e a prevalenza italiana. Sebbene l’insediamento di queste nuove popolazioni sia un fenomeno decennale, certo non ha avuto adeguata risposta da parte delle istituzioni. È evidente la mancanza di mediazione culturale e di strutture di prossimità con dispositivi adatti a favorire lo scambio culturale e la costruzione di convivenza.

Per questo la sfida dei programmi urbani e sociali oggi è doppia. Da una partebisogna puntare ad ascoltare e a comprendere le nuove popolazioni non partendo più dal presupposto che siano transitorie ma fornendo loro gli strumenti utili a radicarsi nel tessuto urbano romano e a “liberare” le loro risorse a favore della comunità. Grazie alla collaborazione dei centri culturali municipali e al volontariato (i centri non ricevono fondi dai municipi), in questi ultimi tre anni le famiglie delle occupazioni hanno pulito terre abbandonate, creato orti didattici, offerto cene ispirate alla loro cucina tradizionale al quartiere, animato il carnevale e le feste con i loro abiti e le loro musiche. Quando uno spazio, seppur piccolissimo, viene aperto, questa gente lo occupa con piacere e intelligenza. Purtroppo i progetti che l’hanno consentito non sono permanenti, uno o due anni non sono certo sufficienti a fare il lavoro culturale in profondità che sarebbe necessario – soprattutto in questi anni di crisi – ad affrontare in modo efficace i problemi della convivenza e a prevenire i conflitti più sterili e pericolosi.

Dall’altra parte, è fondamentale comprendere il profondo cambiamento spaziale e socioculturale avvenuto in questi territori negli ultimi trent’anni. La mancata pianificazione territoriale ha creato barriere fisiche e simboliche tra una popolazione e l’altra, con il conseguente abbandono degli spazi di “confine”, cioè degli spazi pubblici, dove ora spesso si ha paura d’incontrare la diversità, l’altro.

Le barriere urbanistiche dell’area del Morandi, situato, come si diceva, su una collina, la mancanza di marciapiedi in tutta l’area intorno a Tor Sapienza, il cattivo funzionamento dell’illuminazione pubblica e l’abbandono di strutture come la stazione di Tor Sapienza, fanno crescere il senso d’insicurezza. Ci viene riferito dai vicini che le ragazze non escono la sera, se non con i fratelli o con altri familiari ma anche dei ragazzi giovani dicono che devono uscire in gruppo, altrimenti vengono derubati in continuazione. La segregazione fisica e la “marginalità” urbana si stanno sedimentando, ormai si possono contare generazioni intere con tanto di nonni, genitori e figli che nascono in queste strutture e in queste condizioni. Si comincia a interiorizzare la convinzione che quello è il posto che è stato “loro” assegnato nell’organizzazione sociale e tale deve restare.

I fenomeni di auto-esclusione sono fortissimi. Eppure le testimonianze che abbiamo raccolto mostrano tutto il timore ma anche il fascino delle bambine e dei ragazzi rom nell’entrare in un luogo pubblico del quartiere e riappropriarsi del diritto a “vivere la città”. Sono la prova evidente della sfida da lanciare per ritessere spazi e relazioni spezzati da tanti anni tra queste comunità.

L’immaginario urbano del quartiere

Il ruolo della stampa nella comunicazione ha sostituito gradualmente il dialogo locale. È un fatto molto pericoloso, perché riporta una dimensione negativa della convivenza culturale con gli immigrati, rafforzata notevolmente dall’uso dei socialmedia (facebook e altri). Prima dell’esplosione del “caso” Tor Sapienza, abbiamo raccolto le notizie nei giornali su quest’area. Si tratta quasi solo di notizie di cronaca: prostituzione, spaccio di droga, omicidi, aggressioni e furti nelle case o di automobili. Se si prova ad analizzare i protagonisti di questi reati per comprenderne la composizione sociale e fare luce su uno dei problemi delle periferie si scopre, ad esempio, una sostanziale parità tra italiani e immigrati regolari. Lo conferma Franco Pittau nel dossier dell’UNAR, che sottolinea come non siano gli immigrati ma la povertà e la mancanza di politiche occupazionali che danno il via alla crescita di organizzazioni criminali: “A far lievitare il numero delle denunce è la criminalità organizzata, attiva ormai anche su base etnica e pronta ad assoldare la manovalanza tra gli immigrati irregolari e a stringere un rapporto di collaborazione con le organizzazioni malavitose italiane, collocate ai livelli più alti”.Pittau dice con chiarezza che in base agli studi antimafia “… non risulta statisticamente fondato etichettare gli immigrati come più delinquenti degli italiani”.

Un’analisi dei problemi e delle contraddizioni presenti condotta dalle istituzioni insieme ai cittadini avrebbe potuto probabilmente contrastare “la propensione a considerare gli immigrati più un pericolo dal quale difendersi che dei soggetti da tutelare. Spinge in tal senso anche il clima d’insicurezza, acuito dal contrasto tra la popolazione italiana soggetta ad invecchiamento e diminuzione e quella straniera più giovane e in forte crescita” (Pittau:2013).

Che fare? Buone pratiche in Italia. Le case di quartiere a Torino. Resilienzia comunitaria

Negli anni ’90 e all’inizio del 2000, Roma ha avuto per un periodo la consapevolezza del bisogno di capire le cause profonde dei problemi sociali. Ha scelto dunque di non delegare a una gestione repressiva, di polizia, il tema della convivenza e sono stati promossi progetti di mediazione sociale e di sicurezza urbana nel Forum europeo per la sicurezza. Si è prestata attenzione soprattutto alla qualità della convivenza e delle relazioni delle persone, in particolare nelle periferie. Come segnalano Leonardo Carocci e Antonio Antolini, dopo il loro lavoro decennale nelle periferie romane “di fronte all’acutizzarsi dei conflitti locali, delle tensioni relative ai problemi dell’immigrazione, all’aumento della povertà, alla distruzione e al degrado dell’ambiente locale e urbano (…) Nella dicitura politiche di sicurezza urbana, attualmente possono essere comprese una serie di prassi di integrazione sociale, di community care, di empowerment, di mediazione dei conflitti, di progettazione partecipata, di ricerca di strumenti atti a favorire l’integrazione, il confronto sociale e il dialogo tra cittadini e istituzioni per migliorare le condizioni ambientali” (Antolini & Carocci: 2007).

I loro ragionamenti sembrano molto attuali in quanto si richiamano al bisogno di confronto, di dialogo e di pianificazione strategica a livello locale. Dobbiamo accrescere le opportunità per le persone che vivono la marginalità urbana, piuttosto che reprimerle. Allora, dopo vent’anni di una periferia segnata dai grandi palazzi di edilizia sociale, si valutavano gli effetti nefasti per i residenti. Si metteva in prima linea la necessità di ridare un’identità positiva, e delle opportunità, a queste popolazioni. Purtroppo idee e interventi molto interessanti come questi hanno anche bisogno di poter sedimentare, hanno bisogno di continuità, mentre a Roma sono stati cancellati a causa dell’alternanza politica e della mancanza di visione strategica. La mancata continuità delle politiche pubbliche s’è trascinata nel tempo, tra scelte arbitrarie che spazzano decenni di sperimentazioni virtuose, comitati volenterosi o anche famiglie che timidamente si mettono in gioco per poi ritornare in silenzio nel proprio campo rom, o nel proprio insediamento abusivo, appena si capisce che non “tira più aria di tolleranza”.

Mentre a Roma muore la consapevolezza del bisogno di un salto di qualità nelle politiche sociali, a Torino, nasce una buona pratica che ci sembra meriti di essere segnalata. Si chiamano Case di quartiere e considerano soprattutto la dimensione culturale ed artistica, visto che è centrale nelle attuali dinamiche di superamento del degrado, delle discriminazioni e delle disparità.

Le Case di quartiere ospitano iniziative diverse e promuovono un livello di co-progettazione con il governo della città orientato alla convivenza pluriculturale e al rafforzamento delle capacità locali di analisi della realtà e delle reti di soggetti che promuovono azioni concrete. Segnano un passaggio rivoluzionario nel pensare i sistemi di welfare: l’investimento pubblico innesca una collaborazione e aiuta a “liberare” le energie delle persone per migliorare la vita quotidiana del proprio territorio. Queste nuove modalità di intendere gli investimenti sociali sono riconducibili a un nuovo paradigma: la costruzione di territori resilienti dove i luoghi di confronto sono centrali.

In alcune città, come a Torino, si è creata una consapevolezza diffusa del bisogno di portare avanti politiche di comunità rivolte alla creazione di reti territoriali di accoglienza, che riescano a mitigare il disagio e a “liberare” energie e risorse locali.Il segreto di Torino è accumulare in forma virtuosa gli investimenti ricevuti dalla città e dai programmi europei, accrescere le attrezzature dei territori più disagiati,sperimentare nuove azioni che daranno risultati visibili non in una legislatura ma quando diventeranno prassi e cultura diffusa, almeno dieci anni dopo.

*Antropologa   Dipartimento di Architettura Università degli Studi Roma Tre Laboratorio arti civiche

**Articolo pubblicato su Comune-Info, 16 novembre 2104