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urbanistica

#TorSapienza un’analisi storica e urbana

[di Adriana Goni Mazzitelli su Comune Info]

tor-sapienzaStoria di una periferia romana che grida la sua separazione. Dal quartiere operaio della prima metà del Novecento alle occupazioni abitative degli anni Duemila, Tor Sapienza ha attraversato l’era dei palazzoni e quella dei campi rom senza poter curare le profonde lacerazioni del suo tessuto sociale. Una periferia composta di insediamenti casuali e frammentari, di enclave vissute nella cultura dell’emergenza e mai messe in condizione di poter comunicare o interagire, di crescere insieme per diventare società. Quando la situazione s’è fatta esplosiva, istituzioni lontane anni luce dalla vita reale di buona parte della città, le stesse istituzioni che in passato hanno favorito la sovrapposizione “temporanea” di strati sociali abbandonati al degrado e all’isolamento, hanno improvvisato un frettoloso e indecente sgombero dei ragazzi fuggiti dalle devastazioni che investono i loro paesi e tanto commuovono finché restano sul piccolo schermo. Un tentativo goffo quanto illusorio di calmare rabbiosi sentimenti nazionalisti e identitari che ben altre risposte dovranno trovare. Quello che generalmente non si racconta, quando si dice che la cittá è il futuro dell’umanitá, è che la chiusura di zone intere (e la decisione di condannarne altre al degrado e all’abbandono) induce le persone a credere che nella guerra tra benestanti e poveri tutto sia ammesso. C’è tuttavia anche un’altra storia di Tor Sapienza, quella delle persone che hanno scritto sulla maglietta: scudo umano contro il razzismo. Che è poi la stessa delle famiglie che dopo aver occupato le case hanno pulito le terre abbandonate, creato degli orti didattici, offerto cene al quartiere e animato la sola speranza di futuro che ci resta

Sono lontana da Roma, in questo momento. Qui a Montevideo sto studiando le politiche che il governo uruguayano ha messo in campo per combattere la miseria attraverso progetti di autorecupero delle periferie e delle case abbandonate in città. Seguo con amarezza quello che sta accadendo a Tor Sapienza, periferia est di Roma, dove ho lavorato negli ultimi quattro anni. Leggo di notti di scontri e attacchi contro il centro di accoglienza che da anni riceve rifugiati in transito nel pezzo di quartiere chiamato Tor Sapienza II, ovvero nel complesso di edilizia sociale Giorgio Morandi.

Da tempo associazioni, comitati di quartiere, università e gruppi di cittadini italiani – ma anche peruviani, eritrei, marocchini, rumeni, sudanesi e rom – provano a bucare l´indifferenza di istituzioni di governo lontane dai territori. Chiedono azioni concrete contro l’abbandono e il sovraffollamento delle periferie. Non che non ci sia posto per tutta questa popolazione. Fino a qualche decennio fa, Tor Sapienza era una borgata in mezzo al verde, poi, con il passar degli anni, s’é trasformata in città. Chiudendo, molte fabbriche hanno lasciato ampi spazi per progetti di “densificazione” abitativa, lo stesso vale per molte altre aree verdi dove gli insediamenti informali marcano la tendenza a una crescita demografica che da qualche parte deve pur trovare posto.

La domanda di soluzioni abitative è dunque cresciuta in modo progressivo ma la risposta delle istituzioni non è mai arrivata. Non poteva che conseguirne un susseguirsi di figure definite, di volta in volta, informali, illegali e in altri modi simili. Non sono altro che risposte concrete all’emergenza di vivere per strada con la propria famiglia, italiana o straniera che sia.

L’urban divide

Nel loro programma internazionale sulle cittàUN Habitat, le Nazioni Unite avvertono che l’urban divide, il divario urbano che si sta creando tra la città ricca e quella povera è in aumento vertiginoso: 800 milioni di persone circa vivono negli slums (favelas,bidonville, baraccopoli). Le città statunitensi hanno anticipato la forma della metropoli del futuro. Gli studiosi hanno capito che la crescita vertiginosa avrebbe portato intere porzioni di città ad essere ghetti di povertà, con centinaia di senza tetto e quartieri dediti alla malavita (Angotti 2009). Le cittá latinoamericanehanno mostrato una tendenza che poteva essere complementare o anche opposta: i ricchi si attrezzano sempre più per “rinchiudersi” nel benessere costruendo quartieri esclusivi e “gatted communities” (quartieri privati, blindati, chiusi con delle mura e sorvegliati 24 ore su 24) (Grimson: 2019) .

Nel resto delle cittá del mondo, si confermano entrambi i fenomeni ma non sono così evidenti o, meglio, non si vuole vederli e accettarli. Quello che generalmente non si racconta, quando si dice che la cittá è il futuro dell’umanitá, è che la chiusura di zone intere (e la decisione di condannarne altre al degrado e abbandono) induce le persone a sviluppare una forte convinzione che nella guerra tra benestanti e poveri tutto sia ammesso. In questo modo, si alzano notevolmente i livelli di violenza, mentre scende il rispetto per la vita di chi sta dall’altra parte della barricata. Nessun sofisticato sistema tecnologico sarà sufficiente a garantire la sicurezza, ovunque esisterà sempre un margine per superarlo. E quando questo accadrà, non ci sarà pietà, perché questi sistemi di segregazione urbana sono una dichiarazione di guerra fatta da chi “si vuole proteggere” a chi viene “escluso” (Rossal:2009).

La città europea moderna ha sempre vantato la sua sensibilità nell’evitare di emarginare le popolazioni e nel fare attenzione alla qualità della vita sociale pubblica, ambientale ed estetica dei territori urbani. Per questo ci si è tanto interrogati sul “diritto alla città” e le disuguaglianze sociali (Lefebre 1968). Negli ultimi decenni, però, la capacità di affrontare le disuguaglianze è diminuita e ora ci troviamo di fronte alla crescita di conflitti sociali dovuti in gran parte a un non riconoscimento della diversità culturale e alla marginalità urbana.

Di conseguenza, molti governi si affannano a mostrarsi fermi nel respingere l’immigrazione o nel chiudere le frontiere, piuttosto che nell’iniziare a studiare politiche e programmi per attenuare il disagio e la separazione sociale. In Europa, le città francesi e inglesi ne pagano i prezzi da tempo, come si è visto nelle banlieuparigine (Merklen:2009) e nei quartieri popolari londinesi (Dines&Cattell: 2006).

In Italia alcune città sono più virtuose che altre. A Roma gli ultimi veri interventi per ripensare le periferie in forma integrale risalgono agli anni ’90, con i progetti URBAN (Allegretti: 2004), e al 2002 con i Contratti di Quartiere. Nonostante questa immobilità nello sviluppo di politiche urbane, le periferie romane sono in permanente cambiamento e per l’urbanistica, per i governi e per la societá tutta è fondamentale osservarle con attenzione. Come segnalano Ilardi e Scandurra, guardare Roma è come osservare un’anticipazione dei mutamenti a livello nazionale. “Dalle borgate dei “ragazzi di vita” di Pasolini ai centri sociali occupati, dai territori abbandonati dei rave illegali al movimento ultras, fino, in questi anni 2000, alle tristi e sempre uguali aggregazioni abitative sorte intorno ai centri commerciali, le periferie romane hanno sempre lavorato come grandi laboratori di sperimentazioni culturali, come cantieri di nuove alchimie sociali, come formidabili macchinari che producono metropoli e i suoi potenti immaginari dove sono precipitati molto spesso i simboli dell’intera comunità nazionale” (Ilardi e Scandurra: 2009).

Se questo è vero, si può dire che le periferie di Roma, più di altri quartieri della città, stanno anticipando l’Italia che verrà. Per esempio con un’enorme ricchezza e pluralità culturale, con pezzi di città informale che rivendicano i diritti negati attraverso strategie di controllo e sospensione esplicita delle libertà – come avviene nei campi o nei centri di permanenza temporanea – ma anche con le popolazioni “storiche” ostaggio di un’immobilità politica e della perdita di capacità d’innescare processi locali di dialogo e costruzione di una nuova città. Purtroppo, le periferie romane sono anche i luoghi dove prende il sopravvento un nuovo sentimento nazionalista identitario. Si tratta di un sentimento che sta incubando molta violenza e una netta chiusura verso le migrazioni, è alimentato da movimenti xenophobi e razzisti come Forza Nuova.

Tor Sapienza e dintorni. La periferia est di Roma

Nella nostra presenza-ricerca-azione-vissuto, abbiamo visto come – nonostante questo sia stato all’inizio un quartiere operaio e una borgata con una scala spaziale e sociale a misura umana – Tor Sapienza sia poi diventata una “periferia d’enclave”, una periferia di frammenti che non riescono a interagire. Da qualche anno poi, i frammenti sono in permanente tensione e accendono conflitti che vanno verso la violenza vista in questi giorni, una violenza che purtroppo si respira anche nei gesti quotidiani degli uni verso gli altri.

Non è una storia recente. Quando la situazione si fa esplosiva, la politica prova a calmare gli animi con qualche sgombero fatto a caso, con una pulizia AMA di qualche giornata, oppure promettendo presidi militari. Non si guarda mai alle cause profonde, perché per farlo bisogna studiare la storia di queste periferie, capire quali sono stati i fattori che hanno portato le cose fino a far esplodere la rabbia e la voglia di farsi giustizia da soli. All’esasperazione, la parola che scelgono tanti di quelli che vivono lì, si somma l’ira di chi ne ha viste di tutti i colori. Tutti i partiti hanno attraversato questi territori, tutti hanno fatto promesse che servivano a spegnere incendi, nessuno ha cercato davvero di cambiare il volto di questi luoghi in modo progressivo e con una tempistica sensibile ai tempi di vita delle persone e ai cambiamenti sociali locali.

Nella storia di Tor Sapienza, abbiamo identificato almeno quattro tipologie d’insediamenti che illustrano la crescente separazione fisica e sociale delle popolazioni con difficoltá economiche e quella della popolazione migrata qui da altri continenti. La prima è il quartiere originario, case basse e una fisonomia da piccola città, la seconda è quella dei “palazzoni” per gli ex- baraccati del centro di Roma costruiti negli anni ’70 e ´80, come il Complesso ATER Giorgio Morandi; la terza è quella delle strutture per le migrazioni o le popolazioni “temporanee” e “tollerate”, come i campi rom (per i profughi della guerra dei Balcani) costruiti negli anni ’90 o i Centri di Prima Accoglienza (CPA) per rifugiati e richiedenti di asilo, ricavati da edifici già esistenti negli anni 2000 e gestiti dalla Croce Rossa e da cooperative sociali; e infinela quarta, quella delle occupazioni per il diritto all’abitare, che costituiscono uno dei fenomeni più importanti e interessanti degli ultimi dieci anni a Roma.

Se la situazione attuale delle periferie italiane, e romane in particolare, rappresenta una sfida per la costruzione di una città equa, bisogna analizzare le conseguenze di questa stratigrafia di “enclave” (frammenti), costruite per le popolazioni disagiate e considerate in eccesso o di passaggio. Quasi tutti questi spazi si sono rivelati fallimentari (tranne le occupazioni spontanee, vedi ricerca Pidgin City Careri, Goni Mazzitelli :2012), sia dal punto di vista spaziale che sociale. La raccolta di testimonianze di prima mano sul divenire urbano e socio-culturale di questa zona ci fa comprendere perché queste popolazioni non sono riuscite ad amalgamarsi e a continuare una tradizione di accoglienza di migranti, italiani e non, in questo territorio.

  1. Dalle borgate al quartiere operaio della prima metà del ‘900. Nasce Tor Sapienza

La denominazione del quartiere Tor Sapienza trae origine dalla presenza di una torre, detta “la sapienza nuova”, sorta nel XII secolo e affidata agli studenti di Perugia, grazie alla disponibilità dell’arcivescovo di Fermo. Attualmente, ne rimane il basamento quasi irriconoscibile. Questa torre era un punto di passaggio noto per chi arrivava a Roma e faceva parte di una “cintura storica” di casali e torri medievali. Michele Testa, ferroviere molisano antifascista, viene considerato il fondatore di Tor Sapienza come nucleo urbano. In seguito ai contrasti con il regime, nei primi anni Venti del secolo scorso, creò la Cooperativa Tor Sapienza dell’Agro Romano, che realizzò 25 abitazioni, seguite subito dopo da un altro centinaio.
 Il quartiere nasce così: un piccolo agglomerato di case che si consolida nel 1923, quando la ferrovia costruisce una stazione per i treni, dandole la forma di borgata, ancora semiurbana. Negli anni ’60, anche a Tor Sapienza arriva il boom economico, con il trasferimento delle aree industriali dalla zona Ostiense verso la periferia est. Alcune delle fabbriche più importanti di Roma erano poste in quest’area della città. C’erano la Voxon, la Peroni, la Litograf e la Fiorucci. E con le fabbriche arriva l’immigrazione interna, soprattutto dal Sud ma anche dall’Umbria, dalle marche e da altre regioni.

Sono anni di un benessere diffuso, dove le differenze culturali tra Italiani provenienti da diverse regioni sono sanate dalla situazione economica favorevole e dalla crescita di un quartiere a misura umana. Tor Sapienza viene considerato un quartiere operaio e il Partito comunista sostiene battaglie per la creazione di luoghi da dedicare allo “svago” dopo le molte ore di pesante lavoro. Nelle foto d’epoca, si vedono i campi di bocce ma anche l’occupazione del casale dove ha sede il Centro culturale, ora municipale, Michele Testa.

Il valore fondamentale è il lavoro. Gli uomini mostrano orgogliosi le mani con i calli dopo il carico e lo scarico dei sampietrini che venivano prodotti in uno degli stabilimenti vicini. Ci sono poi i laboratori artigianali, che davano servizi a tutto il quartiere, si fa una vita “casa e bottega”: nell’organizzazione sociale della famiglia, gli uomini sono impegnati nei mestieri manuali e le donne restano a custodire le cucine e la casa. Questo periodo, o epoca “fondante” (Gravano :2003) è rimasto nella memoria e nella costruzione collettiva della cultura locale come quello dei momenti più felici di questa comunità. All’epoca, la diversa provenienza degli italiani che popolavano le campagne romane trasformandole poco a poco in città non era importante, tant’è che, a differenza che in altre regioni italiane, gli immigranti dal Sud venivano detti “meridionali” e non “terroni” come in altre grandi città del nord. Tutt’ora alcuni anziani, quando chiediamo loro da dove provengono, si presentano come “meridionali”.

Dopo l’epoca “d’oro” fondante, anche a Tor Sapienza arrivano le crisi. C’è quella del petrolio, poi la graduale chiusura delle fabbriche, che alla fine degli anni ’70 cominciano a ridurre il personale, fino a trasferirsi lentamente in altri luoghi oppure direttamente chiudere. Questa lenta agonia è stata piuttosto sofferta dalla popolazione che, in molti casi, ha dovuto trasferirsi inseguendo la ricerca di nuovi lavori. Così ci racconta un cittadino di 63 anni: “Le famiglie storiche del quartiere saranno rimaste una quindicina. Le coppie con figli, per la mancanza di case, sono andate verso la zona di Colle Prenestino. Il quartiere è stato sempre di classe media operaia con un po’ di media borghesia. C’era anche qualche ingegnere e qualcun altro con titoli di studio ma erano quasi tutti operai quelli che prendevano casa qui vicino al lavoro”. Con la chiusura delle fabbriche, e il primo abbandono della popolazione locale diretta verso altri luoghi della città, chiudono anche tanti negozi e il quartiere entra in una fase di depressione. “ Per la gente di Tor Sapienza, questi cambiamenti avevano creato un forte senso di delusione. C’è stato anche un calo nel senso della collaborazione alla polis, alla costruzione della città e alla vita politica”. (Intervista a Carlo Gori, di Tor Sapienza in Arte)

  1. I palazzoni, il quartiere entra nella Roma “moderna” degli anni ’70 e ´80

Si arriva così alla costruzione dei “palazzoni”, ovvero al complesso edilizio di case popolari Morandi, che verrà costruito di fronte al quartiere originale collegando quello che fino ad allora era un quasi-paese, isolato dalla città, a una crescente espansione urbana della Roma “moderna”. Anche come tipologia edilizia, l’impatto è notevole. Rispecchia gli interventi modernisti della tendenza dell’epoca acostruire alti palazzi per risparmiare cementificazione al territorio. Gli alloggi costruiti saranno dati agli ultimi baraccati della città (Pallotini&Modigliani 1997). Come ci racconta un operatore della associazione Antropos, che lavora nella mediazione sociale con giovani e bambini del comprensorio: “Queste sono case date a persone che vivevano negli ultimi residui di baracche degli anni ’70, venivano dalla stazione Prenestina e dagli scantinati del Porticciolo. Questa era una collinetta, e qui è stato realizzato il comprensorio: 504 appartamenti su questa collinetta. Se calcoli 4 persone a famiglia, hai più di un comune qua dentro”.

L’urbanista Bernardo Secchi segnalava così il grande fallimento di questa strategia volta ad affrontare la povertà: “Si era stati troppo superficiali a pensare di dare casa, senza fermarsi a capire che si stava raggruppando tutto il disagio sociale nelle periferie” . Chiaramente, questo significava anche la riattivazione dell’industria delle costruzioni con fondi pubblici. Non si tratta di un fenomeno isolato ma di una modalità ben nota per riattivare l’economia in tutto il mondo attraverso la costruzione di città, secondo le analisi di David Harvey (Harvey:2012). In questo modo, la città ha però aumentato le sue disuguaglianze sociali creando i primi ghetti “pianificati”, dove il “capitale sociale” a disposizione era sempre quello di famiglie che avevano difficoltà ad arrivare alla fine del mese.

Molti paesi europei hanno riconosciuto negli anni il grande errore commesso.Queste opere sono state duramente condannate, visti i pessimi risultati conseguiti nelle generazioni successive in tutta Europa. In alcuni casi, in Germania e Francia, sono state addirittura demolite. È sembrata quella la sola possibilità di disgregare le bande e la criminalità organizzata che si erano formate al loro interno.

Per l’area storica di Tor Sapienza, negli anni ‘70 e ‘80 il Morandi è stato un corpo estraneo intorno al quale creare una cultura di resistenza, o meglio di difesa. Un quartiere tradizionale dove il lavoro era stato il principale valore di coesione della comunità, vedeva emergere un comprensorio di case popolari con famiglie che vivevano di sostegni sociali dello stato, segnato da tassi di delinquenza crescente:un mondo con il quale sembrava impossibile poter dialogare. Anche all’interno del comprensorio, però, non mancavano certo le difficoltà: “In questa architettura, dici una parola e rimbomba ovunque, tutto è in comunicazione. Da ogni punto, puoi vedere tutto, sembra un carcere. Qui intorno non c’era niente, solo prati, quindi la sera i ragazzi si riunivano qua sotto, sulle panchine di cemento. Le persone che non volevano essere disturbate dal rumore hanno iniziato a metterci la colla e l’olio bruciato, il livello di conflittualità interno è diventato altissimo”. (operatore associazione Antropos).

Sotto i palazzoni erano stati creati dei negozi, come in tante altre banlieu europee. L’idea era di ricostruire la dimensione di un intero quartiere in un comprensorio di edilizia popolare. Intorno al complesso c’è la chiesa e ci sono le scuole, cosi come un parco pubblico. All’inizio in quell’area c’era anche una biblioteca comunale ma all’intervento urbanistico non sono state accompagnate politiche permanenti di sostegno economico. Le diverse attività pubbliche, cosi come i commercianti, sono state abbandonate subito al loro destino. Non appena chi gestiva quegli spazi ha capito che doveva fare i conti con la microcriminalità che si stava creando e con l’apertura di centri commerciali della grande distribuzione che schiacciava la possibilità di creare un’economia locale, tutti hanno chiuso lasciando la spina centrale abbandonata.

Negli anni ’90, malgrado le sperimentazioni di animazione sociale e culturale e gli sforzi di riqualificazione fisica del comprensorio avessero stimolato l’interesse dell’amministrazione comunale, gli interventi rimanevano settoriali, senza riuscire a disinnescare logiche di malavita e criminalità organizzata. Sono gli anni delle teorie del “broken windows”, ovvero il degrado chiama il degrado e la criminalità, visto che a quest’ultima conviene che tutto sia abbandonato e “minaccioso” per mantenere lontani i “curiosi” e poter portare avanti il proprio business. Come segnala Daniela De Leo nei suoi studi sulla criminalità organizzata a Napoli: “A ben guardare le forme più evidenti si coagulano in aree ben circoscritte sebbene l’estensione delle aree d’influenza cambi considerevolmente da zona a zona, per un gran numero di variabili nelle quali il potere criminale è esplicito e visibile, cosi come lo sono le forme consentite di “microdevianza”. (De Leo: 2008)

A Roma, per dare risposta alla consapevolezza di avere sacche di povertà dove si stava creando una criminalità organizzata, negli anni ’90 si mettono in atto costosi programmi europei di rigenerazione urbana come gli URBAN. Il tentativo è di combattere la violenza mediante la lotta al degrado fisico e il coinvolgimento della comunità. In particolare, si sviluppano a Tor Bella Monaca ma, a parte pochi isolati miglioramenti, la mancanza di diversità sociale e culturale e la discontinuità degli interventi, ripropone oggi una situazione complessa di degrado generalizzato. La spina centrale del Morandi, abbandonata dai negozianti, è stata occupata a metà degli anni 2000 da famiglie in emergenza abitativa del Movimento di lotta per la casa.

Sono trascorsi quarant’anni e i quartieri, Tor Sapienza I e Tor Sapienza II (così viene chiamato il Complesso Morandi), non si sono ancora accettati. “In questi anni si è provato a riannodare questa catena di relazione tra i due pezzi di quartiere che prima si annusavano e si sopportavano con estrema diffidenza, ma la crisi ci ha riportato alla situazione di desolazione iniziale”. (operatore associazione Antropos).

3. Strutture temporanee per migranti internazionali, anni ’90 e 2000

A questi fenomeni prodotti nei complessi di edilizia popolare delle periferie, che rappresentano lo sviluppo urbano scelto negli anni ’70 dalle grande città europee per fare fronte alla povertá, si aggiunge nuova complessità con l’arrivo dell’immigrazione globale. Nel caso di Tor Sapienza, vengono identificati comeprime migrazioni importanti quelle provenienti dall’est europeo, con gli Albanesi e i Romeni. Dalle testimonianze si evince che all’inizio questi lavoratori riescono a inserirsi nel tessuto urbano tradizionale. Poi però, crescendone il numero e con la comparsa delle prime “emergenze umanitarie” dovute alla guerra dei Balcani, si decide di creare strutture ad hoc; sono i campi rom, che verranno regolarizzati in tutta Italia dalle leggi regionali. “All’inizio sono arrivati i Rumeni che si sono istallati negli appartamenti, durante gli anni ’80 e ‘90. Gli uomini lavorano come muratori, le donne come colf e badanti, ma anche nelle imprese di pulizia. Verso di loro c’è sempre stata una tolleranza, ancora oggi vivono in piccole case nei vicoli interni del quartiere storico. La chiesa ha aiutato la loro integrazione offrendo anche, in alcuni momenti di particolare necessità, viveri e denaro per le bollette della luce e del gas” (cittadino di Tor Sapienza).

Grazie alle ricerche del professor Marco Brazzoduro, possiamo ricostruire la storia del graduale arrivo dei Rom in quest’area.

Campo della Martora

I primi segnali dell’arrivo dei Rom sono gli insediamenti informali, avvenuti prima dagli anni ’90, che dopo si trasformano in un campo tollerato detto “della Martora”. “Vi si sono insediati da almeno 30 anni dei Rom appartenenti alla comunità dei Rudara, di cittadinanza jugoslava. Negli anni ’90 fu devastato da un furioso incendio, tanto che parte dei suoi abitanti furono generosamente accolti in una scuola del municipio (era luglio). Il campo venne poi ristrutturato e ai suoi abitanti furono assegnate delle roulotte. Negli ultimi anni, il campo si era notevolmente espanso con l’arrivo di molti Rom romeni che vi avevano insediato poverissime baracche. Il 5 luglio 2007 è stato oggetto di un’operazione di polizia che ha espulso tutti i residenti non inclusi nel censimento. Nel novembre dello stesso anno, in seguito allo sgombero degli insediamenti di Ponte Mammolo sulle rive dell’Aniene, cinque famiglie con 70 persone vi sono state trasferite. I residenti erano diventati 350”(Brazzoduro:2011). Il campo è stato sgomberato definitivamente nel 2010, come previsto dal Piano Nomadi, molti dei residenti sono stati trasferiti a Castel Romano.

A metà degli anni ’90 si crea il campo Salviati I. Nel quartiere raccontano cheall’inizio l’integrazione è stata pacifica, i bambini frequentavano le scuole del quartiere e gli adulti lavoravano e interagivano con il territorio. Con la creazione di Salviati II, alla fine degli anni ’90, iniziano a verificarsi seri problemi di convivenza. Negli anni 2000, nella stessa area, si arrivano a registrare circa 800 Rom, tra Martora, Salviati I, II e gli altri insediamenti informali vicini.

“Il Salviati è stato installato nel 1995 ed è il primo campo dotato di servizi comuni e centralizzati. Accoglie una piccola comunità di Rom Rudara che prima abitava sulle sponde dell’Aniene. I Rudara presenti a Roma provengono quasi tutti dalla città serba di Kraguievac, dove c’era un impianto Fiat per la produzione di automobili. Molti Rom del campo erano stati assunti proprio come operai Fiat. Gran parte dei Rom è in Italia da circa quarant’anni e quindi parla l’italiano correntemente. In Italia sono nate anche le seconde e le terze generazioni. Praticano commerci vari, vendono fiori la sera nel centro di Roma, qualche donna fa la badante, diversi suonano e cantano in matrimoni e ricorrenze varie ma anche sulle metropolitane e gli autobus.

Alla fine degli anni ’90, viene inaugurato il campo di Salviati II, il primo di una nuova generazione. Infatti, è stato il primo ad essere attrezzato con container dotati di bagno interno, angolo cottura, stufa a legna, corrente elettrica, acqua corrente calda e fredda. Il campo occupa un’area contigua alla linea ferroviaria dell’alta velocità Roma-Napoli, prima adibita a deposito giudiziario, ed era composto di 45container di 33 mq ciascuno. Salvo i primi tre, assegnati a Rudara, parenti della comunità contigua di Salviati I, gli altri accolgono una comunità di Xoraxanè trasferiti dal campo di Casilino 700 quando ne è stato deciso lo smantellamento. In origine, il Salviati II accoglieva 273 persone con una media di sei individui percontainer equivalenti a 5 mq procapite.

Dato l’elevato tasso di natalità – ogni anno nascono da dieci a venti bambini – l’affollamento è altissimo, tanto che quasi ogni famiglia ha costruito un’estensione del container per migliorare una difficile condizione. I Xoraxanè del campo provengono tutti dalla Bosnia e dal Montenegro, da dove sono fuggiti all’inizio degli anni ’90 quando le loro terre sono state devastate dalla guerra civile. I Rom, non riconoscendosi in alcuna delle due fazioni in lotta, hanno preferito abbandonare tutto e fuggire precipitosamente anche senza documenti. Vista la tragica situazione, i Paesi dell’UE hanno deciso di rilasciare a questi profughi un permesso di soggiorno umanitario, poi, a guerra finita e a pacificazione conseguita, i titolari sono stati invitati a trasformare in permesso di soggiorno per motivi di lavoro. L’attività economica prevalente di questa comunità è quella della compravendita di rottami metallici; altre attività praticate sono quella della pulizia delle cantine, dei piccoli trasporti e del commercio di oggettistica di cui si muniscono frugando nei cassonetti della spazzatura. Alcuni fanno i meccanici, attività nella quale eccellono, anche perché usando per lavoro furgoni molto malridotti sono costretti a continue riparazioni”. (Brazzoduro:2011)

Insediamenti informali

Abbiamo rilevato infine molti insediamenti informali sparsi in tutta la zona. È un fenomeno diffuso tra i Rom ma non solo, anche tra chi non trova soluzioni abitative e spesso scappa dalle strutture inadeguate dei campi e dai centri di raccolta e accoglienza. Uno dei piú segnati da conflitti si trova di fronte al Moranti, nel cosiddetto canalone all’interno del prato. Si sgombera e si ricrea con una velocitá incredibile. Come spiega l’Associazione 21 Luglio, queste forme dell’abitare sono diffuse in tutta Europa: “Consistono in piccoli o piccolissimi insediamenti, sono per lo più abitati da famiglie di Rom comunitari provenienti dalla Romania, che hanno subìto diversi sgomberi forzati nel corso degli ultimi anni”.

Strutture temporanee per rifugiati: centro di prima accoglienza al Morandi anni 2000

Negli ultimi due anni, un grande centro di prima accoglienza per i rifugiati politici, gestito dalla Croce Rossa italiana, viene insediato nel complesso Morandi a Tor Sapienza. Una nuova sfida per la complessità di una già molto difficile convivenza nel territorio.
 Il centro di prima accoglienza A.M.I.C.I. (accogliere, mediare, informare, curare, integrare) è gestito dall’Università cattolica del Sacro Cuore e dalla Croce rossa italiana. Tra i suoi obiettivi dichiara di offrire “assistenza ai soggetti vulnerabili che hanno richiesto asilo in altri paesi europei, o che sono già titolari di protezione internazionale, ma che vengono trasferiti in Italia in applicazione del Regolamento di Dublino. È a queste persone che il Centro A.M.I.C.I. vuole garantire un inserimento socio-economico veloce ed effettivo assicurando loro la tutela dei diritti fondamentali (sanitari e giuridici) e la mediazione con le istituzioni competenti. L’intervento dell’Università Cattolica ha anche scopi di ricerca: mira a evidenziare le criticità del sistema di accoglienza internazionale, e a studiare la vulnerabilità per ridurre i fattori che la cronicizzano facendola trasformare in effettivo disturbo psichico. Il Centro è pronto ad assistere almeno 200 richiedenti/titolari di protezione internazionale vulnerabili, in particolare donne e minori, che rispondono alla categoria di “Dublino di rientro”, attraverso un’azione che si snoda lungo tre macro aree: la tutela della salute e della vulnerabilità; le procedure legali; la mediazione sociale e l’integrazione”.

Il principale problema derivante dal centro di prima accoglienza oggetto delle proteste e degli attacchi di questi giorni è stato quello di riversare un’elevata quantità di persone nello stesso momento, quasi tutti giovani maschi, nel quartiere di Tor Sapienza. Sebbene il programma miri ad occupare i giovani con lavori e formazione, le testimonianze degli abitanti del quartiere parlano di una vera e propria “invasione” degli spazi pubblici: il parco Barone Rampante, le strade, i bar, ecc. La città, in questo caso, come segnala Giorgio Agamben, viene usata come uno spazio di “sospensione”, senza capire bene “verso” dove si sta andando. Inoltre, come raccontano le nostre interviste, la diversità religiosa, linguistica e delle abitudini spaventa le persone del quartiere, che si sentono ulteriormente minacciate da “ondate” massicce di facce nuove.

  1. Occupazioni abitative anni 2000

Dal 2000 ad oggi, alla realtà che abbiamo visto si sono aggiunte le occupazioni abitative, una risposta ormai piuttosto diffusa a quella “emergenza casa” causata dai prezzi raggiunti dal mercato privato e dalla mancanza di risposte istituzionali: le liste e le graduatorie delle case popolari sono bloccate da anni. Le occupazioni assorbono un doppio fenomeno sociale, da una parte la povertà urbana e dall’altra la mancanza di programmi abitativi per le migrazioni. Le popolazioni immigrate affrontano questa mancanza di soluzioni abitative da molti anni, ma le grandi ondate migratorie degli anni 2000 trovano completamente impreparati governi e servizi locali. Questo significa che gli immigrati non trovano alcun riconoscimento né giuridico ne sul piano dei diritti, devono quindi arrangiarsi per sopravvivere e dare un tetto alle proprie famiglie. I governi locali lo sanno e per questo fanno “accordi” con le occupazioni che riducono il danno consentendo di dare una residenza ad abitanti che possono in questo modo mandare i figli a scuola e usufruire della sanità e dei sostegni pubblici.
 A tutto ciò, si aggiunge l’impoverimento di intere fasce della popolazione italiana e straniera (ma radicata da anni in Italia), che perdono il lavoro e non riescono a pagare gli affitti “gonfiati” da un mercato immobiliare speculativo (Sebastianelli: 2009).  A Tor Sapienza ci soffermeremo, a titolo esemplificativo, su una sola occupazione abitativa particolare. Va precisato, tuttavia, che, con il perdurare della crisi che colpisce in modo tanto pesante le famiglie italiane e straniere, negli ultimi tre anni le occupazioni abitative nella zona est di Roma sono triplicate.

Nel 2009 alcune famiglie senza residenza occupano una fabbrica abbandonata da anni, la ex Fiorucci. Hanno origini italiane, eritree, marocchine, peruviane e di altre nazionalità. Danno all’occupazione il nome di Metropoliz, “la città meticcia”, per la diversità di etnie e culture che si registra al suo interno. È un’occupazione piuttosto particolare, anche perché mette in luce molti dei temi chiave utili a comprendere il senso di queste forme di lotta: il riuso degli immobili abbandonati attraverso l’auto-recupero e l’auto-costruzione con finalità abitativa, il riuso del patrimonio industriale dismesso (in questo caso è un patrimonio privato ma invita a riflettere anche sulle potenzialità di quello pubblico), la concentrazione nelle aree con servizi e uno stop al consumo di suolo. Tutti temi che i movimenti di lotta per il diritto alla casa e all’abitare di Roma hanno sollevato negli ultimi anni, sia in forma teorica che pratica. Questa è inoltre la prima occupazione romana che, con il sostegno degli attivisti dei Blocchi precari metropolitani (Bpm) e dell’Associazione Popica Onlus, è disposta ad accogliere i Rom che rifiutano di andare nei campi. Così, queste famiglie rom iniziano un lungo percorso di convivenza e vita in comunità.

Le famiglie che entrano nella ex fabbrica sono novanta, in prevalenza sono composte di immigrati. Vengono da Perù, Sudan, Eritrea, Marocco, Romania e altri paesi. In un secondo momento, come detto, si aggiunge una comunità rom che, sgomberata dal Canalone di Centocelle, rifiuta le sistemazioni offerte dal Comune: andare nei campi o nei residence (Goni Mazzitelli & Broccia: 2011). A Metropoliz inizia un lungo percorso di auto-recupero della fabbrica per ricavare abitazioni dagli enormi spazi in disuso da anni. L’Università di Roma Tre, con vari corsi di architettura, sostiene queste sperimentazioni, si crea inoltre un movimento urbano di sostegno a questo spazio grazie alla visibilità che diversi artisti, riuniti nel MAAM, Museo dell’Altro e dell’Altrove, danno all’avventura delle famiglie occupanti.

Nonostante la visibilità acquisita a livello cittadino, nel quartiere si crea un malessere dovuto alla “disinformazione” e alla mancanza d’intermediazione da parte di figure di governo capaci di aprire canali di comunicazione tra le diverse realtà e le famiglie all’interno. Negli anni successivi, nella periferia est sono stati occupati altri palazzi dai movimenti per il diritto alla casa, il fenomeno ha continuato a crescere e sono nate polemiche sulla legittimità delle occupazioni e la loro “illegalità”. Nel frattempo, le famiglie hanno trovato un tetto e i bambini riescono a fare vite… quasi normali, lasciando per un momento da parte la minaccia ossessiva di potersi svegliare ogni giorno circondati da forze dell’ordine che impongono uno sgombero.

Un quartiere frammentato

In tutte le tipologie citate, dai palazzoni ai campi rom, dal centro di prima accoglienza alle occupazioni, le istituzioni hanno considerato queste popolazioni di passaggio, temporanee, tollerate, informali e, soprattutto, problematiche. Quasi tutte le situazioni descritte si sono invece dimostrate permanenti, perché non rispondevano veramente a realtà di passaggio (tranne il centro di prima accoglienza) ma a soluzioni abitative di fortuna che, in mancanza di politiche per la casa, sono diventate soluzioni finali.

La ricerca etnografica ha permesso di comprendere questa complessità derivante da una popolazione eterogenea e da barriere altissime tra popolazione immigrata e residenti originari. Le permanenti trasformazioni con famiglie immigrate che s’insediano nel tessuto locale – negozi cinesi, ristoranti di kebab, fruttivendoli indiani, banchi del mercato egiziani, ecc., presenze ormai frequenti in ogni metropoli del mondo – colgono di sorpresa una periferia che per decenni è stata invece omogenea e a prevalenza italiana. Sebbene l’insediamento di queste nuove popolazioni sia un fenomeno decennale, certo non ha avuto adeguata risposta da parte delle istituzioni. È evidente la mancanza di mediazione culturale e di strutture di prossimità con dispositivi adatti a favorire lo scambio culturale e la costruzione di convivenza.

Per questo la sfida dei programmi urbani e sociali oggi è doppia. Da una partebisogna puntare ad ascoltare e a comprendere le nuove popolazioni non partendo più dal presupposto che siano transitorie ma fornendo loro gli strumenti utili a radicarsi nel tessuto urbano romano e a “liberare” le loro risorse a favore della comunità. Grazie alla collaborazione dei centri culturali municipali e al volontariato (i centri non ricevono fondi dai municipi), in questi ultimi tre anni le famiglie delle occupazioni hanno pulito terre abbandonate, creato orti didattici, offerto cene ispirate alla loro cucina tradizionale al quartiere, animato il carnevale e le feste con i loro abiti e le loro musiche. Quando uno spazio, seppur piccolissimo, viene aperto, questa gente lo occupa con piacere e intelligenza. Purtroppo i progetti che l’hanno consentito non sono permanenti, uno o due anni non sono certo sufficienti a fare il lavoro culturale in profondità che sarebbe necessario – soprattutto in questi anni di crisi – ad affrontare in modo efficace i problemi della convivenza e a prevenire i conflitti più sterili e pericolosi.

Dall’altra parte, è fondamentale comprendere il profondo cambiamento spaziale e socioculturale avvenuto in questi territori negli ultimi trent’anni. La mancata pianificazione territoriale ha creato barriere fisiche e simboliche tra una popolazione e l’altra, con il conseguente abbandono degli spazi di “confine”, cioè degli spazi pubblici, dove ora spesso si ha paura d’incontrare la diversità, l’altro.

Le barriere urbanistiche dell’area del Morandi, situato, come si diceva, su una collina, la mancanza di marciapiedi in tutta l’area intorno a Tor Sapienza, il cattivo funzionamento dell’illuminazione pubblica e l’abbandono di strutture come la stazione di Tor Sapienza, fanno crescere il senso d’insicurezza. Ci viene riferito dai vicini che le ragazze non escono la sera, se non con i fratelli o con altri familiari ma anche dei ragazzi giovani dicono che devono uscire in gruppo, altrimenti vengono derubati in continuazione. La segregazione fisica e la “marginalità” urbana si stanno sedimentando, ormai si possono contare generazioni intere con tanto di nonni, genitori e figli che nascono in queste strutture e in queste condizioni. Si comincia a interiorizzare la convinzione che quello è il posto che è stato “loro” assegnato nell’organizzazione sociale e tale deve restare.

I fenomeni di auto-esclusione sono fortissimi. Eppure le testimonianze che abbiamo raccolto mostrano tutto il timore ma anche il fascino delle bambine e dei ragazzi rom nell’entrare in un luogo pubblico del quartiere e riappropriarsi del diritto a “vivere la città”. Sono la prova evidente della sfida da lanciare per ritessere spazi e relazioni spezzati da tanti anni tra queste comunità.

L’immaginario urbano del quartiere

Il ruolo della stampa nella comunicazione ha sostituito gradualmente il dialogo locale. È un fatto molto pericoloso, perché riporta una dimensione negativa della convivenza culturale con gli immigrati, rafforzata notevolmente dall’uso dei socialmedia (facebook e altri). Prima dell’esplosione del “caso” Tor Sapienza, abbiamo raccolto le notizie nei giornali su quest’area. Si tratta quasi solo di notizie di cronaca: prostituzione, spaccio di droga, omicidi, aggressioni e furti nelle case o di automobili. Se si prova ad analizzare i protagonisti di questi reati per comprenderne la composizione sociale e fare luce su uno dei problemi delle periferie si scopre, ad esempio, una sostanziale parità tra italiani e immigrati regolari. Lo conferma Franco Pittau nel dossier dell’UNAR, che sottolinea come non siano gli immigrati ma la povertà e la mancanza di politiche occupazionali che danno il via alla crescita di organizzazioni criminali: “A far lievitare il numero delle denunce è la criminalità organizzata, attiva ormai anche su base etnica e pronta ad assoldare la manovalanza tra gli immigrati irregolari e a stringere un rapporto di collaborazione con le organizzazioni malavitose italiane, collocate ai livelli più alti”.Pittau dice con chiarezza che in base agli studi antimafia “… non risulta statisticamente fondato etichettare gli immigrati come più delinquenti degli italiani”.

Un’analisi dei problemi e delle contraddizioni presenti condotta dalle istituzioni insieme ai cittadini avrebbe potuto probabilmente contrastare “la propensione a considerare gli immigrati più un pericolo dal quale difendersi che dei soggetti da tutelare. Spinge in tal senso anche il clima d’insicurezza, acuito dal contrasto tra la popolazione italiana soggetta ad invecchiamento e diminuzione e quella straniera più giovane e in forte crescita” (Pittau:2013).

Che fare? Buone pratiche in Italia. Le case di quartiere a Torino. Resilienzia comunitaria

Negli anni ’90 e all’inizio del 2000, Roma ha avuto per un periodo la consapevolezza del bisogno di capire le cause profonde dei problemi sociali. Ha scelto dunque di non delegare a una gestione repressiva, di polizia, il tema della convivenza e sono stati promossi progetti di mediazione sociale e di sicurezza urbana nel Forum europeo per la sicurezza. Si è prestata attenzione soprattutto alla qualità della convivenza e delle relazioni delle persone, in particolare nelle periferie. Come segnalano Leonardo Carocci e Antonio Antolini, dopo il loro lavoro decennale nelle periferie romane “di fronte all’acutizzarsi dei conflitti locali, delle tensioni relative ai problemi dell’immigrazione, all’aumento della povertà, alla distruzione e al degrado dell’ambiente locale e urbano (…) Nella dicitura politiche di sicurezza urbana, attualmente possono essere comprese una serie di prassi di integrazione sociale, di community care, di empowerment, di mediazione dei conflitti, di progettazione partecipata, di ricerca di strumenti atti a favorire l’integrazione, il confronto sociale e il dialogo tra cittadini e istituzioni per migliorare le condizioni ambientali” (Antolini & Carocci: 2007).

I loro ragionamenti sembrano molto attuali in quanto si richiamano al bisogno di confronto, di dialogo e di pianificazione strategica a livello locale. Dobbiamo accrescere le opportunità per le persone che vivono la marginalità urbana, piuttosto che reprimerle. Allora, dopo vent’anni di una periferia segnata dai grandi palazzi di edilizia sociale, si valutavano gli effetti nefasti per i residenti. Si metteva in prima linea la necessità di ridare un’identità positiva, e delle opportunità, a queste popolazioni. Purtroppo idee e interventi molto interessanti come questi hanno anche bisogno di poter sedimentare, hanno bisogno di continuità, mentre a Roma sono stati cancellati a causa dell’alternanza politica e della mancanza di visione strategica. La mancata continuità delle politiche pubbliche s’è trascinata nel tempo, tra scelte arbitrarie che spazzano decenni di sperimentazioni virtuose, comitati volenterosi o anche famiglie che timidamente si mettono in gioco per poi ritornare in silenzio nel proprio campo rom, o nel proprio insediamento abusivo, appena si capisce che non “tira più aria di tolleranza”.

Mentre a Roma muore la consapevolezza del bisogno di un salto di qualità nelle politiche sociali, a Torino, nasce una buona pratica che ci sembra meriti di essere segnalata. Si chiamano Case di quartiere e considerano soprattutto la dimensione culturale ed artistica, visto che è centrale nelle attuali dinamiche di superamento del degrado, delle discriminazioni e delle disparità.

Le Case di quartiere ospitano iniziative diverse e promuovono un livello di co-progettazione con il governo della città orientato alla convivenza pluriculturale e al rafforzamento delle capacità locali di analisi della realtà e delle reti di soggetti che promuovono azioni concrete. Segnano un passaggio rivoluzionario nel pensare i sistemi di welfare: l’investimento pubblico innesca una collaborazione e aiuta a “liberare” le energie delle persone per migliorare la vita quotidiana del proprio territorio. Queste nuove modalità di intendere gli investimenti sociali sono riconducibili a un nuovo paradigma: la costruzione di territori resilienti dove i luoghi di confronto sono centrali.

In alcune città, come a Torino, si è creata una consapevolezza diffusa del bisogno di portare avanti politiche di comunità rivolte alla creazione di reti territoriali di accoglienza, che riescano a mitigare il disagio e a “liberare” energie e risorse locali.Il segreto di Torino è accumulare in forma virtuosa gli investimenti ricevuti dalla città e dai programmi europei, accrescere le attrezzature dei territori più disagiati,sperimentare nuove azioni che daranno risultati visibili non in una legislatura ma quando diventeranno prassi e cultura diffusa, almeno dieci anni dopo.

*Antropologa   Dipartimento di Architettura Università degli Studi Roma Tre Laboratorio arti civiche

**Articolo pubblicato su Comune-Info, 16 novembre 2104

Grand Hotel Ermo Colle

Sembra fantascienza. Fantascienza horror. Una ricca possidente terriera (Maria Dalla Casapiccola, e il nome è degno del miglior Molière) vuole trasformare l’ermo colle dell’Infinito di Leopardi in un nuovo complesso residenziale. Dovrebbero esserci i buoni che combattono, no? E invece…

In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema – quello della mancanza di fondi – che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall’altra parte. L’ultima carta da giocare prima dell’arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un’area dall’indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant’anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L’Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Decreto FARE: per l’urbanistica si torna indietro di 30 anni

Ė invece passato quasi inosservato un emendamento introdotto dal Senato al testo governativo che consente a Regioni e province autonome di approvare con proprie leggi e regolamenti disposizioni derogatorie al D.M. n. 1444/68, dettando “disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attivitá collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”

Nonostante la forma circonvoluta e imprecisa, ė tuttavia molto chiaro l’obiettivo perseguito: si tratta dell’ennesimo e forse definitivo tentativo di sopprimere le conquiste ottenute alla fine degli anni Sessanta in tema di spazi pubblici minimi e distanze tra gli edifici (18 mq/abitante, distanza pari all’altezza degli edifici, con un minimo di 10 metri tra pareti finestrate), dopo i guasti della stagione liberista degli anni Cinquanta conclusasi con il massacro di molte delle nostre città da parte della speculazione edilizia e infine con il tragico episodio della frana di Agrigento.

Con la pretesa delle incombenti difficoltà economiche del settore edilizio, vedremo così vanificarsi non solo la stagione che tra il 1975 e il 1990 aveva visto molte Regioni rafforzare quelle conquiste, con la prescrizione di dotazioni pubbliche superiori a quelle minime nazionali, attestate attorno a 24-28 mq/abitante in sintonia con le tendenze europee, ma verrà meno anche il plafond minimo garantito dalle norme nazionali, che nemmeno regioni così selvaggiamente deregolatrici come la Lombardia erano sinora riuscite a sfondare completamente.

Non sorprende che a condurre questo attacco sia stato l’attuale ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che come assessore al Comune di Milano prima e parlamentare FI e PdL poi – spesso in combutta con il parlamentare milanese Pierluigi Mantini della Margherita, in una sorta di premonizione delle larghe intese – nelle scorse legislature aveva portato avanti proposte di impronta filo-liberista che equiparavano interessi pubblici e privati, fortunatamente mai giunte a definitiva approvazione.

Ma qualcuno si era accorto di quello che scrive Sergio Brenna qui?

Non esiste un solo ettaro in Italia di natura “naturale”.

La sostenibilità è uno dei mantra dell’architettura del  nostro inizio millennio. Ma che significa, in pratica? “Chilometro zero”, “emissione zero” (spero non “tolleranza zero”!), e poi? Una visione dell’Italia del futuro che non comprenda che il tema vero dovrà essere la “cubatura zero” è una visione ancora legata al narcisismo puerile dell’idea di moderno. Sappiamo che la popolazione nazionale comunque crescerà, anche grazie alle forze nuove che vengono dalle epocali immigrazioni globali. Ma dobbiamo abbandonare il mito devastante, e in fondo piccolo borghese, della frontiera (mito importato, imposto, deleterio). La sfida autentica sarà costruire senza neppure rubare un solo metro quadrato di territorio agricolo, di costa, di argine, di declivio. La cubatura zero è un imperativo morale.

Oggi 100 metri quadrati al minuto di Pianura Padana vengono cementificati nel nome delle magnifiche sorti e progressive. E gli ettari di abusivismo edilizio spalmati per l’intero stivale neppure si contano. Tutto ciò non si può più sostenere, è un suicidio simbolico, artistico e materiale. La tela dell’opera d’arte globale che è l’Italia ha bisogno di ricuciture degli strappi, di attenzione, di cura. Ecco la sfida per la nuova generazione di architetti: censire, discernere, conservare. Ma anche approntare cancellature nel palinsesto, non avere paura a demolire e riprogettare intere parti del territorio, riedificare meglio e con maggiore consapevolezza le nostre città. Contraendo, piuttosto che invadendo, modificando abitudini di mobilità privata, ridisegnando gli spazi metropolitani, estendendo le superfici dedicate all’ambiente.

Il lavoro è enorme. Riqualificare le coste, dalla Liguria alla Calabria, demolendo chilometri di inutile edilizia di scarsa qualità, seconde, terze case sfitte e decrepite; ridefinire e consolidare gli argini e i letti dei nostri fiumi, riforestare i crinali contenendo i dissesti idrogeologici, liberare la Brianza dallo sprawl indifferenziato, bonificare la Terra di Lavoro dalle discariche abusive tossiche , etc. etc.

Gianni Biondillo implacabile (sì, è l’aggettivo giusto) su Nazione Indiana.

La bellezza come senso di appartenenza

Architettura è quel che ci sta intorno. Noi – come tutti quanti – ci passiamo la vita dentro. (Louisa Hutton)

2vv5nhjUn articolo di Antonio Monestiroli su Repubblica che lascia una visione “politica” della bellezza, delle città, dell’urbanistica:

IN QUESTA confusione è necessario che ogni cittadino, prima di pensare di non essere all’altezza di giudicare, si faccia forte della propria esperienza. Affidarsi alla propria esperienza vuole dire giudicare i nuovi edifici allo stesso modo in cui giudichiamo i vecchi e cioè rispetto alla loro utilità e bellezza. L’utilità tutti sanno cosa è, la bellezza meno. Anche se c’è un modo molto semplice di definire la bellezza di un edificio: considerarla l’espressione della finalità dell’edificio stesso, che va oltre la sua utilità immediata, che pure è importante, che riguarda il suo significato culturale. Per capirci meglio pensiamo a un edificio straordinario come il Duomo di Milano, molto amato dai milanesi non solo per il suo aspetto esteriore, ma per il suo magnifico interno. Io credo che sia proprio la forma del suo interno a essere espressiva di un’idea di comunità che già appartienea tuttie che quando viene riconosciuta in un luogo dà un senso di pace e di benessere. Tutti gli edifici ben costruiti provocano in noi un’emozione: nei grattacieli è l’orgoglio della costruzione a provocarla, nella casa è il senso di appartenenza a un luogo. Ma perché questi nuovi e ingombranti edifici costruiti a Milano non provocano alcuna emozione? Il perché va cercato nelle premesse alla loro costruzione: la loro finalità non è quella di essere espressivi di alcunché ma quella di essere attraenti, qualità questa che per l’architettura è nefasta. Oggi i cittadini pagano il prezzo di una scarsa competenza dei progettisti che hanno lavorato a Milano, di una certa assenza dell’ amministrazione pubblica negli anni passatie di una ingiustificata libertà d’azione degli imprenditori, che hanno dimostrato di non avere alcuna attenzione per la città in cui hanno operato.

(Grazie a Daniele per la segnalazione)

Una legge contro l’abusivismo edilizio

L’ottimo lavoro di Legambiente:
abbattiamolostriscioneStop a mattone selvaggio

I numeri dell’abusivismo edilizio
e le proposte per il ripristino della legalità

Campagna di Legambiente contro l’edilizia illegale

Legambiente, 18 dicembre 2012

1. L’abusivismo edilizio in Italia

Il fenomeno dell’abusivismo edilizio, che ha prosperato indisturbato per decenni, è un’autentica piaga del nostro Paese. Una ferita continuamente riaperta dalle promesse di condono edilizio. Ma a promuovere il nuovo cemento illegale è un altro “incentivo” micidiale: la quasi matematica certezza che l’immobile abusivo non verrà abbattuto.

Le ordinanze di demolizione effettivamente eseguite, anche quando sono previste da sentenze della magistratura diventate definitive, sono l’eccezione, non la regola. E il mattone fuorilegge continua a prosperare, devastando il paesaggio, alimentando una vera e propria filiera del cemento illegale (dalle cave agli impianti di calcestruzzo fino alle imprese edili), arricchendo in molti territori le casse dei clan Non basta. Nei cantieri del mattone illegale il lavoro nero è la regola, la sicurezza semplicemente non esiste, i materiali utilizzati sono di pessima qualità.

La legalità e il rispetto delle regole diventano, così un “fastidioso” problema, risolto con la rimozione delle responsabilità e la negazione delle caratteristiche ormai esclusivamente speculative del fenomeno dell’abusivismo edilizio. E nelle rare occasioni in cui qualche magistrato o qualche sindaco coraggioso decidono di dare corso all’obbligo, previsto per legge, della demolizione, la casa da abbattere è sempre abitata da qualche “bisognoso”, che merita proteste e manifestazioni di solidarietà da parte di rappresentati politici (spesso senza distinzioni di schieramento) o autorità ecclesiastiche.

In questo clima, inaccettabile per un Paese civile, solo nel 2011 l’industria del mattone illegale ha messo a segno 25.800 nuovi abusi, tra case ex novo e significativi ampliamenti di volumetria in immobili preesistenti. Una cifra che rappresenta il 13,4% del totale delle nuove costruzioni. Significa che oltre una nuova casa su dieci di quelle sorte nell’ultimo anno è fuorilegge. Il “processo di accumulazione” nel corso del tempo è micidiale. Tra il 2003, ultimo anno in cui era possibile presentare la domanda di condono edilizio, e il 2011, infatti, il Cresme ha censito la cifra record di 258 mila case abusive, per un giro di affari illegale, basato sui numeri e sui valori immobiliari medi, che Legambiente calcola in circa 18,3 miliardi di euro.

A questa colata di cemento fuorilegge si deve sommare il vecchio abusivismo, quello costruito prima del 2003 e non condonabile, che fa brutta mostra di se lungo la penisola, molto spesso sulle coste, nelle zone di maggiore pregio paesaggistico, nelle aree più fragili del territorio dove esistono vincoli precisi legati al dissesto idrogeologico. Dove non si può edificare perché la terra frana e i fiumi esondano, inghiottendo tutto quello che trovano sulla loro strada, case e abitanti compresi.

A fronte di questa realtà, le demolizioni effettivamente eseguite nei comuni capoluogo di provincia che hanno risposto al questionario di Legambiente (realizzato nell’ambito della ricerca Ecosistema urbano 2012) sono state, dal 2000 al 2011, appena 4.956, ovvero il 10,6% delle 46.760 ordinanze emesse. Il provvedimento, insomma, arriva ma la possibilità di farla franca è comunque elevatissima.

La città con il maggior numero di ordinanze di demolizione emesse negli ultimi undici anni è Napoli, con 16.837 provvedimenti, che però riesce a portarne a termine solo 710, pari al 4% delle ordinanze. Va ancora peggio a Reggio Calabria (2.989) e Palermo (1.943), dove secondo i dati forniti dalle amministrazioni comunali non risulta eseguito neppure un abbattimento. Tra i comuni virtuosi vale la pena segnalare Prato (957 demolizioni effettuate, +111,5% rispetto a quelle emesse nello stesso periodo per l’esecuzione di provvedimenti relativi ad anni precedenti) e Genova, con 498 abbattimenti (25,7%).

Accanto al “buco nero” delle demolizioni, i risultati della ricerca evidenziano l’esistenza di una vera e propria eredità avvelenata dei precedenti condoni edilizi, rappresentata da centinaia di migliaia di richieste inevase, presentate in occasione delle leggi 47/1985, 724/1994 e 326/2003. Complessivamente le domande presentate sono state 2.040.544, quelle respinte 27.859, quelle ancora in attesa di una risposta ben 844.097 pari al 41,37% del totale, il grosso delle quali risale addirittura al primo condono, quello del 1985. Il primo comune come numero di domande è di gran lunga quello di Roma, con oltre 596.000 richieste di cui circa 262.000 ancora senza risposta.

In perenne attesa che queste domande vengano esaminate, molti immobili restano nella disponibilità dei loro proprietari in virtù di una anomala classificazione, quella di case “sanabili”, per il solo fatto che è stata presentata la richiesta di condono, indifferentemente dal fatto che sia accoglibile o meno. In questo modo sono proposte sul mercato immobiliare, per essere affittate o, addirittura, vendute case che potrebbero, invece, essere destinate all’abbattimento.

E’ quanto rischia di accadere anche con un altro “fronte”, quello delle cosiddette “case fantasma”. Nel 2010 l’allora governo Berlusconi inserì nella Finanziaria bis una norma sull’emersione degli immobili sconosciuti al catasto, incaricando l’Agenzia del territorio di censire il patrimonio edilizio “fantasma”. Si tratta di oltre 1.200.000 immobili censiti e il governo Monti a marzo del 2012 ha dato alla stampa cifre significative circa le somme che tutte queste proprietà immobiliari porteranno nelle casse pubbliche: tra Stato e Comuni dovrebbero entrare quasi 500 milioni di euro. Fatta la stima degli introiti, come spesso accade, è iniziato un balletto di cifre, di distinguo e precisazioni. Ma il punto è un altro: dentro quel patrimonio immobiliare ci sono anche tutte le case abusive. Quindi illegali e non tassabili, tutt’al più da abbattere. Il governo ha stabilito che gli accertamenti di conformità urbanistica toccano ai Comuni entro tempi stabiliti. Un auspicio, più che un richiamo alle responsabilità, che rischia di restare lettera morta. L’attività di verifica, infatti, in larga parte è ancora in corso oppure non è stata nemmeno avviata, mentre le cartelle esattoriali sono già partite.

Quella sull’emersione fiscale degli immobili non accatastati, insomma, è una legge che suscita più di una perplessità. Poche spiegazioni per un censimento che è stato presentato come un provvedimento di natura sostanzialmente tributaria. Simile a un minicondono, la legge ha consentito la regolarizzazione fiscale degli edifici non accatastati con forti sconti sugli arretrati: a quanti sono emersi spontaneamente, le multe per mancati pagamenti sono state ridotte di un terzo. Ma come si può pensare che si paghino le tasse su immobili che dovranno essere confiscati e demoliti? Evidentemente non si può. A meno che tutte le case autodenunciate non vengano considerate d’ora in poi oltre che fiscalmente in regola, anche conformi dal punto di vista urbanistico, ipotesi che sembra francamente azzardata.

Non bisogna mai dimenticare, peraltro, che ad alimentare il fenomeno dell’abusivismo edilizio è anche la connivenza delle pubbliche amministrazioni con la criminalità organizzata.
L’analisi dei decreti di scioglimento delle amministrazioni locali condizionate dalla mafia restituisce un dato inequivocabile: l’81% dei Comuni sciolti in Campania dal 1991 ad oggi, vede, tra le motivazioni, un diffuso abusivismo edilizio, casi ripetuti di speculazione immobiliare, pratiche di demolizione inevase. Il record va alla provincia di Napoli, con l’83% di Comuni commissariati anche per il mattone illegale, percentuale che scende al 77% per quelli in provincia di Caserta. In altri termini, oltre un milione di cittadini almeno una volta sono stati amministrati dalla camorra del cemento: un impasto di complicità tra clan e compiacenza di costruttori, uffici tecnici e politici. A Caserta, si legge nella nota del prefetto del 1991, l’abusivismo edilizio ha assunto dimensioni e gravità preoccupanti, è uno dei modi di riciclaggio del denaro da parte delle locali organizzazioni camorristiche e le costruzioni realizzate abusivamente e non censite sono centinaia. Il Comune omette di esercitare qualsiasi compito di vigilanza, accertamento e repressione. Stesso discorso a Boscoreale (Na), sciolto per due volte, nel 1998 e nel 2006, dove nel settore edilizio, ampiamente permeabile alle illecite interferenze della criminalità organizzata, è stato rilevato un significativo incremento di opere abusive “ricollegabile all’inerzia dell’ente nell’intraprendere azione di contrasto”. Idem a San Giuseppe Vesuviano, nel 2009 (con 1.154 abusi accertati nel periodo 2000-2008) risulta tra i territori della regione Campania maggiormente colpiti dall’abusivismo edilizio, la Prefettura denuncia “Una vera e propria “acquiescenza” dell’amministrazione comunale”.

2. Il “buco nero” delle demolizioni

Ardea sul litorale della provincia di Roma, Carini e Marsala in Sicilia, L’Ogliastra in Sardegna e le isole dell’arcipelago napoletano. Sono solo questi i posti in cui, i sindaci o le procure, hanno abbattuto edifici abusivi nel corso del 2011. Un risultato davvero sconsolante, se si pensa che si tratta in tutto di qualche decina di edifici abusivi sulla spiaggia.

Possiamo aggiungere qualche altro intervento nel corso del 2012, come quello avviato in autunno per la demolizione delle ville di Quarto Caldo, a San Felice Circeo, in provincia di Latina. Qui, dopo quasi quarant’anni dal sequestro che ha di fatto fermato le ville panoramiche allo stato di scheletri di cemento armato, sono stati abbattuti i primi due edifici dei dieci che compongono la lottizzazione abusiva del promontorio all’interno del Parco nazionale. Ma si tratta sempre di pochi e sporadici casi. La maggior parte di questi, stante la latitanza dei Comuni, avviene per ordine e intervento delle Procure della Repubblica.

Per contro, non sono mancate le ordinanze e i sequestri. A decine se ne contano, soprattutto nelle località balneari durante i mesi della stagione estiva, soprattutto in Puglia, in Calabria, in Campania, in Sicilia, dove la procura di Agrigento ha consegnato ai sindaci della provincia la lista degli immobili abusivi sul loro territorio intimandone le demolizioni e dove dopo oltre vent’anni il Comune di Realmonte ha finalmente deciso che l’ecomostro che sfregia la famosa spiaggia della Scala dei Turchi deve essere abbattuto.

Tuttavia il rapporto tra ordinanze ed esecuzioni è bassissimo. Lo rappresenta il dato rispetto alle città capoluogo di provincia riportato in tabella (72 Comuni su 104 intervistati): le demolizioni superano di poco il 10%. “Tra il dire e il fare”, dunque, spesso passano anni, sempre che al “fare”, ossia ad abbattere effettivamente gli immobili, ci si arrivi.

Ordinanze di demolizione e abbattimenti
nei Comuni capoluogo di provincia dal 2000 al 2011

Ordinanze

Demolizioni

Rapporto tra ordinanze ed esecuzioni

46.760

4.956

10,6%

Nota: si tratta delle sole ordinanze e demolizioni disposte dalla Pubblica amministrazione.

Fonte: Elaborazione Legambiente su dati dei Comuni capoluogo di provincia

La città con il maggior numero di ordinanze di demolizione emesse è Napoli, con 16.837 provvedimenti, che però riesce a portarne a termine solo 710, pari al 4%. A Reggio Calabria e Palermo, rispettivamente con 2.989 e 1.943 ordinanze, non risulta effettuato neppure un abbattimento. Il Comune più virtuoso sembra essere quello di Prato, dove le ordinanze eseguite dal 2000 al 2011 sono state ben 957 (un dato che tiene conto anche delle ordinanze adottate in precedenza; quelle emesse nello stesso periodo sono state, infatti, 876). Significativo anche il dato di Genova, con 498 demolizioni effettuate, pari al 25,7% delle ordinanze emesse.

3. I condoni dimenticati

Le pratiche di condono giacenti negli uffici tecnici dei Comuni italiani sono milioni. Riguardano non solo l’ultimo condono, quello del 2003, ma anche quello del 1994 e, addirittura, quello del 1985. In molti casi non si è nemmeno valutata la loro ammissibilità, così un impressionante numero di case abusive sopravvive grazie all’etichetta di “condonabile”, i proprietari ne dispongono senza problemi per il solo fatto di aver presentato la domanda di sanatoria e aver versato l’oblazione corrispondente.

Una situazione gravissima, a cui gli enti locali inadempienti devono essere obbligati a mettere mano, avviando l’esame preliminare delle richieste che consente di fare una scrematura importante, eliminando subito le pratiche inammissibili. Devono dunque: 1) eliminare le domande con documentazione incompleta (che per la legge del 1994 doveva essere prodotta entro tre mesi di tempo); 2) eliminare tutte le pratiche di nuove costruzioni in aree vincolate (condono 2003); 3) eliminare tutte le pratiche relative a opere non residenziali (condono 2003). Fatti questi passaggi, in breve tempo si riduce la mole di richieste da esaminare.

L’inerzia dei Comuni – non sanzionata in alcun modo –su questo fronte non è ammissibile, se si vuole incidere in modo significativo sul tema dell’abusivismo (consentire che il vecchio abusivismo la faccia franca significa incentivare la realizzazione di nuovo abusivismo) e delle mancate demolizioni. I Comuni spesso, giudicato congruo l’ammontare delle oblazioni, danno l’ok all’ammissione al condono senza alcuna verifica materiale dell’abuso. Va ricordato che il versamento dell’oblazione non estingue in alcun modo il reato.

Nella tabella che segue, relativa ai soli capoluoghi di provincia (72 su 104 intervistati), appare chiaro il divario tra il numero di domande presentate e quelle sottoposte a valutazione, sia essa con esito positivo o negativo: sommando i tre condoni (1983, 1994 e 2003) nei capoluoghi di provincia italiani sono state depositate 2.040.544 domande di sanatoria. Di queste, il 41,3% risulta ancora oggi inevaso.

I condoni edilizi nei Comuni capoluogo di provincia

Condono

Richieste

Ammesse

page5image21888

Respinte

page5image23080

In attesa di valutazione

L. 47/1985

1.513.165

930.443

15.626

page5image29592

567.096 (37,48%)

L. 724/94

312.663

167.720

6.901

138.042 (44,15%)

L.209/2003

214.716

70.425

page5image38504

5.332

138.959 (64,72%)

Totale

2.040.544

1.168.588

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27.859

page5image46944

844.097 (41,37%)

Fonte: Elaborazione Legambiente su dati dei Comuni capoluogo di provincia

Le prime dieci città capoluogo per richieste di condono edilizio

Città

Domande di condono (85-94-03)

Ammesse

Respinte

In attesa

1

Roma

596.680

334.310

page6image15320 page6image15744

56

page6image16672 page6image17096

262.314

2

Milano

138.550

107.000

1.700

29.850

3

Firenze

88.400

75.920

12.480

4

Torino

84.931

56.229

649

28.053

5

Napoli

84.912

36.264

830

47.818

6

Venezia

71.376

57.861

3.402

10.113

7

Bologna

63.806

6.700*

1.106*

page6image58720 page6image59144

56.000*

8

Palermo

60.527

5.827

973

53.727

9

Genova

48.641

43.309

page6image69832 page6image70256

2.294

3.038

10

Prato

39.038

19.048

page6image78736 page6image79160 page6image79320 page6image79912

2.101

17.889

*manca il dato rispetto alle domande accolte e respinte del condono del 1985

Fonte: Elaborazione Legambiente su dati dei Comuni capoluogo di provincia

Una classifica che richiede alcune spiegazioni. Non deve stupire la posizione di Napoli, città martoriata dall’abusivismo edilizio, così come quella di Palermo. E allo stesso modo non deve stupire l’assenza dalla top ten di città martoriate dall’abusivismo come Reggio Calabria, Cosenza, Catania, Bari, Latina. E’ utile infatti ricordare che chi avanza una richiesta di condono, di solito, ha ragionevoli aspettative di ottenerlo, di raggiungere un esito positivo e sistemare così i conti con la legge e mettere al sicuro la propria casa. Viceversa, se si tratta di provare a sanare un edificio costruito illegalmente in aree a vincolo di inedificabilità assoluta, è improbabile che la si presenti. Quindi, questi numeri rappresentano il patrimonio illegale costruito prima del 2003 nelle città italiane che hanno le caratteristiche necessarie per beneficiare del condono edilizio, le case insanabili restano fuori.

Allo stesso modo, si tenga presente che vengono avanzate richieste di condono più spesso per piccoli o medi interventi edilizi (ampliamenti di volumetrie esistenti, chiusure di terrazzi, abitabilità dei sottotetti, etc.) e non per costruzioni ex novo. Questo spiega il vertice della classifica occupato da alcune grandi città del nord Italia, centri densamente urbanizzati, dove difficilmente il reato riguarda immobili completamente illegali e quindi è più diffuso il piccolo abuso.

4. Le case fantasma e i tentativi di un quarto condono

Quello sull’emersione degli immobili non accatastati, come già detto in premessa, è un provvedimento basato in primo luogo sull’autodenuncia dei proprietari, che avevano tempo fino al 30 aprile 2011 per fornire gli aggiornamenti catastali dei propri immobili. Solo in seguito l’Agenzia del territorio ha avviato una mappatura aerea per rilevare gli edifici non denunciati e chiedere ai Comuni gli accertamenti urbanistici. Il risultato del “censimento” è impressionante: sono oltre 1.200.000 gli immobili “fantasma”, costruiti ma non accatastati. E c’è di tutto, dagli edifici pubblici ai capannoni industriali fino a case e palazzine.

Sul sito dell’Agenzia del territorio oggi è possibile consultare un data base e verificare lo status di valutazione di ogni singola particella “emersa” in ogni Comune d’Italia. Accanto a ogni edificio da regolarizzare compare una dicitura che ne definisce il grado di accertamento.

Scorrendo l’inventario dell’Agenzia del territorio, una parte consistente degli immobili in fase di accertamento compare con la postilla “concluso senza aggiornamento”, per moltissimi viene indicata l’attribuzione della rendita presunta, molti altri sono ancora in corso di valutazione.
Per uscire dall’impasse è indispensabile incrociare dati e mappe, così da mettere in evidenza il patrimonio abusivo finito nel conteggio degli immobili non accatastati; rifare gli elenchi e, quindi, i conti sull’extragettito fiscale. Una verifica che secondo Legambiente deve valere anche per quanto emerso dall’autodenuncia dei proprietari: solo dopo aver portato a termine tutti i controlli si potranno tirare le somme. Perché è evidente che solo l’ipotesi di accatastare un edificio abusivo mette in contraddizione il rispetto delle leggi fiscali con quelle urbanistiche. Più semplicemente, non si può fare. In mancanza di sanatoria edilizia deve intervenire la demolizione. Altrimenti saremmo di fronte a un condono mascherato, ossia il quarto della storia repubblicana.

Ben venga dunque la fotografia del patrimonio edilizio che porta a galla un pezzo importante dell’evasione fiscale nel nostro paese. Ma è fondamentale che nel novero delle case a cui fare arrivare le cartelle esattoriali il governo non metta anche quelle costruite illegalmente. Sarebbe, invece, un segnale importante se le entrate straordinarie determinate dall’emersione fiscale delle case non abusive venissero considerate una sorta di “tassa di scopo”. Andassero cioè a rimpinguare il fondo di rotazione della Cassa depositi e prestiti cui i Comuni possono attingere per pagare gli interventi di demolizione del “patrimonio” abusivo.

Accanto al problema dell’emersione fiscale delle case sconosciute al catasto, c’è poi l’incessante tentativo di alcuni parlamentari di fare passare un quarto condono edilizio. O meglio, di riaprire i termini del terzo condono, quello del 2003, per farci rientrare le case abusive della Campania che non hanno potuto beneficiarne perché escluse da una legge regionale, la n.16 del 2004.

E devono essere tante, queste case. Oppure sono di gente molto importante. Solo così si spiega la pervicacia con cui una pattuglia di senatori eletti in quella regione prova con ogni mezzo da quasi tre anni a fare votare il condono. Ultimo in ordine di tempo si è prestato alla causa il senatore Giovanardi, presentando un emendamento al decreto stabilità pressoché identico ai precedenti.

Ne abbiamo contati diciassette, comprendendo anche la sanatoria catastale del ministro Tremonti (ma potrebbe essercene sfuggito qualcuno). E, almeno per ora, sono tutti miseramente falliti.
Per contro, la petizione lanciata da Legambiente sulle pagine di repubblica.it a ottobre contro il ddl Palma ha totalizzato oltre 6.000 firme in solo 24 ore.

I tentativi di condono edilizio dal gennaio 2010 al dicembre 2012

Data

Strumento legislativo

Primi firmatari

Gennaio 2010

Emendamento al decreto Milleproroghe

Sen. Sarro, Nespoli (Pdl)

19 gennaio 2010

ddl

Sen. Villari (Mpa)

17 febbraio 2010

ddl

Sen. Sarro, Nespoli et alii (Pdl)

2 marzo 2010

ddl

On. Laboccetta (Pdl)

23 aprile 2010

Decreto “blocca ruspe”

31 maggio 2010

Sanatoria catastale

21 giugno 2010

Emendamento alla manovra economica correttiva

Sen. Tancredi, Latronico, Pichetto Fratin (Pdl)

28 giugno 2010

Emendamento alla manovra anticrisi

Sen, Sarro, Coronella (Pdl)

30 giugno

Consiglio regionale della Campania. Approvati 2 odg

Presidente della commissione urbanistica De Siano, capogruppo Pdl Martusciello

 

Giugno 2010

Emendamento alla manovra economica

Sen. Fleres, Alicata (Pdl)

1 luglio 2010

ddl

On. Stasi, Cesaro, Petrenga (Pdl)

Agosto 2011

Emendamento

Sen. Coronella (Pdl)

Febbraio 2012

Emendamento al decreto milleproroghe

Sen. Sarro, Coronella, Palma (Pdl)

Maggio 2012

3 odg in commissione Ambiente al Senato

Sen. Sarro, Coronella, Palma (Pdl)

Agosto 2012

Emendamenti al Decreto terremoto

Sen. Sarro, Coronella, Palma (Pdl)

Ottobre 2012

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ddl

Sen. Palma (Pdl)

Dicembre 2012

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Emendamento al Dl stabilità

Sen. Giovanardi (Pdl)

Fonte: Legambiente

5. La campagna “Abbatti l’abuso”

Nasce proprio dalle considerazioni raccolte in questo dossier la campagna “Abbatti l’abuso” lanciata da Legambiente, a cui ha aderito “Avviso pubblico”, l’associazione che raccoglie Comuni, Regioni ed enti locali impegnati contro la corruzione, le mafie e per la legalità (www avvisopubblico.it). Una campagna che ha un obiettivo concreto: dare il via alla demolizione degli immobili costruiti abusivamente nel nostro Paese, affrontando alla radice i problemi che finora hanno impedito l’affermazione della legalità.

A prima vista un’iniziativa che si propone di sostenere l’abbattimento delle case illegali, può sembrare impopolare, come dimostrano anche le manifestazioni di protesta che accompagnano quasi sempre le poche demolizioni effettuate. Ma ci sono situazioni in cui la necessità di demolire diventa socialmente accettabile, anzi. Pensiamo a quando l’abusivismo finisce sul banco degli imputati perché causa tragedie legate al dissesto del suolo o perché devasta gli angoli più belli del Paese. Oppure a quando assume la forma e la sostanza della villa del boss o dello scheletro di cemento armato piantato in riva al mare.

Sono tre, allora, le parole d’ordine che vanno rilanciate con forza:
a) Fare rispettare le leggi, perché le regole della convivenza, il rispetto per ciò che è pubblico, sono principi che vanno riaffermati se si vuole davvero provare a riscattare le sorti economiche, etiche e sociali del nostro Paese. Reprimere il reato di abusivismo edilizio è un passo indispensabile per evitare nuove colate di cemento fuori controllo e scongiurare nuovi condoni;
b) Liberare il paesaggio, naturale o urbanizzato che sia, dalla piaga del brutto, dalle speculazioni della criminalità o di chi semplicemente pensa di poter deturpare un patrimonio comune a proprio piacimento e interesse. Eliminare manufatti illegali significa aggiungere valore al principale prodotto turistico che abbiamo: la bellezza del nostro Paese.
c) Mettere in sicurezza il territorio e la popolazione che lo abita: quando l’Italia frana e i corsi d’acqua esondano, ormai con puntualità drammatica e con un sempre più pesante carico di danni e di vittime, la questione del “costruito dove non si doveva” torna alla ribalta. E sono tutti d’accordo, politici, media, cittadini sul fatto che una casa non vale la vita delle persone. Poi, passata la tragedia, ecco che tutto torna come prima e ci si dimentica, come in un incantesimo, che costruire nel letto di un fiume, sopra o sotto una collina a rischio, è pericoloso.
La campagna nasce anche dalla considerazione che tra il dire (la contrarietà al fenomeno dell’abusivismo) e il fare (il ripristino dei luoghi e della legalità) c’è di mezzo la realtà, ovvero l’inerzia delle istituzioni. Basti pensare al bassissimo rapporto tra sequestri e demolizioni che abbiamo riportato nelle pagine precedenti, tanto che i casi di procedimento avviato, molto spesso più per via giudiziaria che amministrativa, che si concludono con l’intervento delle ruspe si contano ogni anno sulle dita di una mano.

E’ necessario, allora, denunciare le omissioni, allargare il fronte dell’antiabusivismo, ma soprattutto dare mano forte a chi demolisce, facendo uscire dall’angolo quella manciata di sindaci e uomini dello Stato che fanno il proprio dovere, spesso nell’isolamento generale, se non sotto la minaccia della criminalità. Occorre promuovere e moltiplicare le esperienze positive, impegnarsi a trovare soluzioni, anche per le situazioni più difficili da affrontare, come quelle dell’abusivismo edilizio consolidato. Ma soprattutto rendere socialmente popolare la pratica delle demolizioni, innescare un meccanismo di evoluzione culturale, che riscatti gli italiani dall’inciviltà con cui si sono abituati a convivere.

Ecco perché Legambiente ha deciso di dare vita a una campagna nazionale che metta al centro la demolizione delle case illegali. Per restituire al Paese i luoghi violati, eliminando manufatti che molto spesso sono rimasti delle incompiute, desolanti scheletri in cemento che da decenni sfregiano il paesaggio agricolo, alberghi e villaggi turistici illegali a picco sul mare, decine di migliaia di villette che hanno cancellato le spiagge più belle. Sono otto le iniziative specifiche previste per rilanciare il tema della lotta al cemento illegale: un riconoscimento nazionale ai sindaci demolitori; il censimento degli abbattimenti; un manuale per i cittadini che vogliono attivarsi in difesa del proprio territorio; modifiche legislative in materia di antiabusivismo; blitz e campagne mediatiche; monitoraggio della questione delle “case fantasma” e iniziative per la chiusura delle sanatorie edilizie ancora aperte.

6. Un disegno di legge contro il mattone selvaggio

Scioglimento dei Comuni che non adottano il Piano comunale di demolizione degli immobili abusivi. Potenziamento del fondo di rotazione presso la Cassa depositi e prestiti, con 150 milioni di euro da destinare agli abbattimenti, alimentato dal pagamento delle spese di demolizione. Tempi certi per le ordinanze (20 giorni), e per il periodo massimo entro cui effettuare la demolizione o l’acquisizione a patrimonio comunale (60 giorni). Intervento diretto delle prefetture per gli abusi commessi in aree vincolate. Sono queste le principali novità contenute nel disegno di legge predisposto da Legambiente e presentato sia al Senato che alla Camera, primi firmatari i senatori del Pd Francesco Ferrante e Roberto Della Seta e gli onorevoli Ermete Realacci (Pd) e Fabio Granata (Fli).

Il ddl ha come obiettivo quello di integrare e potenziare le previsioni in materia di abusivismo e demolizioni della L.380/2001, accentuando le responsabilità degli enti locali e inasprendo le sanzioni, anche per i Comuni che non evadono le pratiche di condono edilizio giacenti nei loro uffici tecnici. E facilitare, al contempo, l’azione di contrasto da parte delle istituzioni, migliorando la collaborazione tra gli enti, potenziandone i poteri e aumentando le disponibilità finanziarie per fare fronte alle demolizioni. Tra le nuove norme sono previste, in particolare, l’istituzione di un Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio, quella di un Albo speciale per le imprese di demolizione, con obbligo d’iscrizione, e una convenzione nazionale che regola l’intervento del Genio militare. Un’altra novità è rappresentata dalla destinazione, da parte dei Comuni, delle sanzioni amministrative per interventi di riqualificazione urbana.

Si tratta di evitare, sostanzialmente, che la mancata attuazione delle norme che prevedono la demolizione e/o l’acquisizione a patrimonio comunale degli immobili abusivi finisca per alimentare un clima di “rassegnata” accettazione del fenomeno, con tutte le conseguenze che ne derivano, a cominciare dall’assoluta perdita di credibilità dello Stato, incapace di far rispettare la legge. Il principio che deve essere ribadito e tradotto in azioni concrete è che demolire un immobile abusivo non è una facoltà, ma un preciso obbligo delle Amministrazioni comunali. Obbligo che deve essere accompagnato da strumenti e risorse adeguate per consentirne la concreta attuazione.

Va in questo senso, come già accennato, quanto previsto all’articolo 4, con la creazione di un Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio, presieduto dal Ministro dell’Ambiente e composto da regioni, enti locali, forze dell’ordine, organi giudiziari e associazioni ambientaliste impegnate sul tema. Senza ulteriori oneri per lo Stato, dovrà, tra le altre cose, coordinare le attività sul fronte del contrasto all’abusivismo e verificare i piani comunali di demolizione e di ripristino dei luoghi.

Con l’articolo 5 si riducono i tempi perché l’amministrazione comunale possa entrare in possesso del bene immobile e procedere all’abbattimento in danno del proprietario, mentre con l’articolo 11 viene istituito presso il Ministero dello sviluppo economico l’albo speciale delle imprese abilitate alle demolizioni.

Sul fronte economico, l’articolo 12 stanzia 150 milioni di euro per la costituzione del Fondo per le demolizioni delle opere abusive a uso degli enti che provvedono agli abbattimenti. Le anticipazioni, comprensive della corrispondente quota delle spese di gestione del Fondo, sono restituite al Fondo stesso in un periodo massimo di dieci anni, secondo modalità e condizioni stabilite con un decreto, utilizzando le somme riscosse a carico degli esecutori degli abusi. In caso di mancato pagamento spontaneo del credito, l’amministrazione comunale provvede alla riscossione mediante messa a ruolo. Gli introiti derivanti dal pagamento delle spese di demolizione e ripristino dei luoghi (articolo 13) confluiscono obbligatoriamente nel Fondo per le demolizioni delle opere abusive; le relative sanzioni amministrative confluiscono, invece, in un apposito fondo comunale e sono vincolate alla realizzazione di interventi di manutenzione stradale e del verde pubblico, creazione e manutenzione di piste ciclabili o aree pedonali e comunque per tutte quegli interventi atti a migliorare il decoro urbano.

Ma la novità probabilmente più rilevante, che introduce una sanzione esemplare per i comuni inadempienti, è quella prevista dall’articolo 7 e riguarda la chiusura delle pratiche di condono edilizio giacenti inevase negli uffici tecnici dei Comuni. La norma stabilisce che entro 90 giorni dall’entrata in vigore della legge, le amministrazioni comunali devono inviare all’Osservatorio nazionale sull’abusivismo edilizio il quadro esatto delle domande di sanatoria e un piano con criteri e modalità per l’evasione, entro tre anni, di tutte le pratiche aperte. Il dirigente o il responsabile dell’ufficio tecnico che per inerzia o dolo non lo predisponga e non lo realizzi è sottoposto a procedimento disciplinare ed è passibile di sospensione dall’incarico. In caso di mancata attuazione del piano, il consiglio comunale del Comune inadempiente subisce lo scioglimento e l’Osservatorio subentra nell’incarico con le funzioni di struttura commissariale.

———————————- Fonti e riferimenti normativi.

“Abbatti l’abuso” , il manuale d’azione di Legambiente
“Mare Monstrum 2012”, dossier Legambiente
“Ecomafia 2012, le storie e i numeri della criminalità ambientale”, Legambiente, Edizioni ambiente www.lexambiente.it
www.normattiva.it
www.agenziaterritorio.it
– Legge n. 47/1985
– Legge n. 724/1994
– T.U 380/2001
– D.L. n. 269/2003
– Legge n. 326/2003
– D.L. n.78/2010

Pensare e ripensare

Si può cominciare da piccole cose. Creare per esempio un fondo a partecipazione pubblica e privata al quale ogni città e i privati cittadini possano accedere attraverso la presentazione di progetti dai risvolti innovativi e sociali. Conosco personalmente tantissime persone che non vedono l’ora di progettare per la loro città e ci sono in giro per il mondo idee incredibili a cui ispirarsi. Orti urbani, progetti di ‘social housing’, costruzioni eco-sostenibili, creazione di spazi sportivi o aree di incontro in aree e fabbricati dismessi. Diamo sfogo alla sperimentazione e riproponiamo poi, in altri contesti, le iniziative che funzionano ed hanno un costo basso per la collettività.

Un’idea semplice di Emanuele Ferragina. Di quelle così semplici da essere rivoluzionarie in un momento asfittico in cui l’innovazione non riesce nemmeno ad essere elaborata.

Cominciare dalle periferie

Una riflessione di Alessandro Balducci.

Ponte Lambro è un quartiere di Milano fino a ieri noto come una zona da evitare. Se oggi ci passate scoprirete un moderno quartiere residenziale accogliente. Le famigerate «case bianche» non sono più tali: hanno colori allegri, coordinati e diversi; dalle facciate sono sparite (perché centralizzate) le mille parabole che denunciavano il recente carattere multietnico del quartiere; i piani terra una volta invasi di scritte e graffiti, sono puliti e ben tenuti; le aiuole fiorite e curate, gli spazi pubblici frequentati; i pochi servizi come la posta, il mercato comunale, il centro civico, la parrocchia, la scuola elementare sono animati da persone gentili e capaci. Insomma qualcosa è cambiato.

Le ragioni dello stigma del quartiere avevano molto a che fare con la disattenzione pubblica, sfociata più volte nel maltrattamento. All’origine vi erano i due grandi interventi di edilizia popolare realizzati in fretta e furia negli anni 70, occupati abusivamente, che si erano inseriti con violenza in un piccolo borgo di artigiani. A metà degli anni 80 viene chiusa la scuola media per insediarvi l’aula bunker per i processi di mafia (più sicurezza!). Per i Mondiali di calcio del ’90 viene iniziata la costruzione di un grande albergo il cui scheletro abbandonato è rimasto per vent’anni come monito e vergogna per Milano. Più di recente un’area verde è stata trasformata in un deposito di autobus. Anche gli interventi di pregio come l’ospedale Cardiologico Monzino e il Centro di riabilitazione della Fondazione Maugeri sono atterrati come isole in un territorio ostile. Un territorio dove la città ha scaricato tutto ciò che non poteva mettere altrove.

La situazione inizia a cambiare a metà degli anni 2000 quando il Comune lancia il Progetto Periferie che prevede la realizzazione di un «laboratorio di quartiere». Le prime mosse producono ulteriore delusione: il promettente progetto di Renzo Piano per inserire nuove funzioni nelle case bianche si risolve nello svuotamento di 40 appartamenti che restano murati per anni: mancanza di fondi. Ma il coinvolgimento degli abitanti, la passione di chi si occupa del Laboratorio di quartiere e la volontà di riscatto producono risultati concreti: i programmi di riqualificazione degli stabili, la risistemazione dei servizi pubblici e il loro rilancio, la scelta dei colori delle case, vengono decise insieme agli abitanti. Negli ultimi mesi il processo di rigenerazione si è accelerato: è stato finalmente aperto il cantiere per la riutilizzazione degli appartamenti murati e l’assessore all’Urbanistica è riuscita a ottenere la possibilità di demolire finalmente entro l’estate ciò che resta dell’albergo dei Mondiali.

Si sta anche discutendo di un progetto modello che aumentando la popolazione consenta la riapertura della scuola media, la realizzazione di un parco e di nuove attrezzature capaci di attrarre utenti dall’esterno per integrare meglio il quartiere nella città. Ponte Lambro è una dimostrazione che risanare le periferie si può, che la rigenerazione ha soprattutto a che fare con la cura e la ricostruzione del senso di cittadinanza degli abitanti. C’è da augurarsi che l’esplosione che demolirà l’ecomostro seppellisca per sempre anche un approccio alla periferia come luogo della disattenzione e della semplificazione.

«Andavamo a giocare alla cava radioattiva»

PAOLA VILARDI: “A me non risulta che ci sia presenza di radioattività, ma qualora questo elemento…Voglio ricordare…”

Come non le risulta? La radioattività è già stata trovata…

PAOLA VILARDI: No, ma voglio dire…la radioattività c’è dappertutto.

Quanti sono i siti contaminati dalla radioattività?

PAOLA VILARDI: Guardi, io…le giuro che questa è…Allora: il problema della radioattività…”

PAOLA VILARDI: “Io non ho questo allarmismo e questa preoccupazione”.

PAOLA VILARDI: “È per quello che spero che certe cose negative non ci siano”.

(Dall’intervista a Popolare Network dell’Assessore all’Urbanistica, Ambiente ed Edilizia del

Comune di Brescia, Paola Vilardi, giugno 2011)

Paola Vilardi, assessore all’Ambiente del comune di Brescia, spera che il problema della radioattività non ci sia. Ma secondo l’ARPA ci sono più di cento siti con scorie radioattive in provincia di Brescia. E la popolazione non ne sa nulla: quelli noti sono soltanto cinque. Due dei cinque siti si trovano nel centro abitato di Brescia, compreso quello con la radioattività più alta mai registrata: l’ex cava Piccinelli di via Cerca. Le prime rilevazioni fatte nel febbraio ’98 direttamente sulle polveri radioattive avevano fatto impazzire i contatori Geiger: più di 100 μSv/h, il valore massimo rilevabile dallo strumento. Pochi giorni fa l’esame delle acque di falda sotto alla cava radioattiva hanno dato una buona notizia: niente Cesio nell’acqua. Ma i dati sono per certi aspetti inspiegabili. Andrea Tornago racconta una vicenda tutta lombarda

PER ASCOLTARE: http://bracebracebrace.files.wordpress.com/2012/03/localmente-mosso-23-02-12-rpop.mp3

 

Consumo di suolo e urbanistica liberista

Non avrà la cultura urbanistica ufficiale legittimato, consapevolmente o meno, il modello del neoliberismo? A mio parere sì, in particolare con l’appoggio, o addirittura l’invenzione, di pratiche e di parole d’ordine che hanno legittimato le ideologie da cui ha tratto alimento. Accenno ad alcune espressioni che di queste ideologie sono il risultato operativo: l’”urbanistica contrattata” (o concertata) come strumento per sottrarre il rapporto tra il pubblico (l’ente territoriale elettivo) e il privato (immobiliarista e/o proprietario) alla trasparenza e alla subordinazione del secondo al primo; la perequazione e la compensazione come riconoscimento, premio e incentivo alla formazione di plusvalori fondiari; i “programmi speciali” e gli “accordi di programma” in deroga alla pianificazione ordinaria; e infine i “diritti edificatori”, mera invenzione degli urbanisti (PRG di Roma) e causa del riconoscimento pratico dell’impossibilità di ridurre previsioni eccessive di edificabilità dei piani urbanistici. E vorrei aggiungere anche l’errore culturale e pratico commesso con l’introduzione dell’interesse degli investitori come componente legittimamente riconoscibile nella decisione della quantità dell’espansione urbana, fino a farne una componente del fabbisogno edilizio. La mia ferma opinione è che non sia sufficiente combattere l’espansione edilizia, ma occorra al tempo stesso difendere il territorio rurale dall’urbanizzazione non strettamente necessaria. Ciò significa collegare le mille vertenze aperte per combattere il consumo di suolo urbano con quelle, aperte in tutto il mondo, per la difesa delle utilizzazioni agro-silvo-pastorali d’interesse delle popolazioni insediate, per contrastare sia l’irragionevole espansione della “repellente crosta di cemento e asfalto” sia il land grabbing e la sostituzione di colture basate sul valore di scambio sul mercato internazionale anziché sul valore d’uso dell’alimentazione sana e risparmiatrice di energia. (Edoardo Salzano su Il Giornale dell’Architettura, marzo 2012)