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Vittorio Mangano

Provare una produzione sociale per un libro e uno spettacolo

Insomma alla fine sono quasi quindici anni che faccio il mio lavoro, che è il lavoro migliore che potesse capitarmi: raccontare storie. Certo poi alla fine le storie che racconti le paghi e non le cicatrizzi come dovresti, ne soffri le conseguenze e ne acquisisci i benefici, succede così a tutti, in ogni lavoro possibile ma in questi quindici anni alla fine ho imparato che nonostante gli sforzi (più o meno riusciti) di tenere libere le parole ogni libro ed ogni spettacolo sono il risultato del percorso di condivisione. Niente di troppo filosofico, eh: ragionarci insieme, litigarsi una scena o un capitolo, aspettare un cenno di approvazione o banalmente applaudire.  Poi pubblicare o andare in scena sono semplicemente la fase ultima, l’emersione di uno spigolo di tutto il resto.
Fare cultura in questo tempo è un lavoro terribilmente politico, inutile fingere, soprattutto se raccontando storie si decide di dichiarare la propria posizione. Fa politica ciò che dici, come lo scrivi, il pubblico a cui decidi di rivolgerti,  la storia che scegli e l’editore e il produttore.
Ho consegnato da poco il mio romanzo che uscirà prossimamente e ora c’è la stagione da programmare: saranno due nuovi spettacoli e uno dei due è uno spettacolo (e un romanzo) su Marcello Dell’Utri. Si intitolerà l’amico degli eroi e vuole essere un lavoro diverso da l’innocenza di Giulio nell’uso più cattivo della fantasia. Ne scriverò. Però stasera pensavo che un progetto così ha bisogno di una produzione politica, un editore del libro e un produttore dello spettacolo che siano un segno e un’indipendenza chiara e per questo mi è balenata l’idea di una “produzione sociale”, crowdfunding semplificherebbe qualcuno, che sia partecipazione nella presa di posizione. Ci sto pensando. Voi che ne dite?

«Mangano? Anche per me fu un eroe. Si è comportato da eroe»

Parole, opere e omissioni di Alberto Dell’Utri, fratello gemello del latitante Marcello, intervistato a La Zanzara. Che non contento aggiunge:

«L’Italia è un paese dove i magistrati rendono l’esistenza invivibile: non si può neppure andare al ristorante parlando in libertà con gli amici».

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Vittorio Mangano: “Era un soldato di Cosa nostra addetto alla sicurezza della famiglia Berlusconi”

“Vittorio Mangano? Altro che stalliere di Arcore! Era un soldato di Cosa nostra addetto alla sicurezza della famiglia Berlusconi“, ha rivelato Di Carlo ai giudici che indagano sulla presunta trattativa tra le istituzioni dello Stato e la criminalità organizzata. 

Francesco Di Carlo ha raccontato ai giudici di un incontro a Milano, nel 1974, tra lui, Marcello Dell’Utri (tra gli imputati del processo), Silvio Berlusconi e i boss Mimmo Teresi e Stefano Bontade. Durante la riunione si sarebbe discusso dei timori di Berlusconi per la sicurezza dei suoi figli. L’imprenditore temeva che potessero essere sequestrati e avrebbe chiesto aiuto ai mafiosi.

Secondo le dichiarazioni del pentito, i boss gli avrebbero garantito la loro protezione. L’incontro, già oggetto del processo per concorso in associazione mafiosa in cui Dell’Utri è stato condannato a 7 anni di reclusione, avrebbe dato il via ai rapporti tra l’ex premier e Cosa nostra. Bontade e Teresi avrebbero anche chiesto a Berlusconi di costruire a Palermo, ma lui avrebbe declinato l’invito.

Per garantire l’imprenditore Cosa nostra avrebbe mandato nella sua villa di Arcore Mangano. In cambio i capimafia avrebbero avuto da Berlusconi 100 milioni di vecchie lire. Il pentito ha anche parlato di investimenti di mafiosi in una società milanese. Bontade avrebbe raccolto quote dagli uomini d’onore per circa 10 miliardi di lire.

In un Paese normale

Ci sarebbero tutte le orecchie appoggiate alla porta dell’Aula dove si svolgono le udienze del processo sulla “trattativa” Stato-mafia almeno per produrre un rumore tale da non costringere gli interessati politici (diretti e indiretti) a prendere una posizione o che ne so, abbozzare una smentita.

Le parole di Brusca, ad esempio:

“All’inizio degli anni ’90 –  spiega il pentito – è venuto meno il riferimento di Andreotti, l’intento di Pino Lipari era di dare vita a un movimento politico di imprenditori, un progetto che condividevo completamente. L’obiettivo era acquisire il potere politico, prima in Sicilia e poi a livello nazionale”. Di fatto si trattava di un progetto che avrebbe dovuto alzare il livello politico di Cosa Nostra, anche attraverso l’aggressione violenta nei confronti degli esponenti degli altri partiti. “A questo fine avevamo progettato di indebolire la sinistra e avevamo individuato in Carlo De Benedetti il sostenitore della sinistra. Parlando con Riina, c’era il progetto, mai concretizzato, di eliminare questo ostacolo per indebolire quella parte politica e concretizzare il progetto politico”. “Nel 1991 – specifica Brusca – c’era l’interesse a contattare Dell’Utri e Berlusconi per poter arrivare a Bettino Craxi, che ancora non era stato colpito da Mani Pulite, perché intervenisse sulla Cassazione per la sentenza del maxiprocesso”.

La sinistra sapeva
“La sinistra, a cominciare da Mancino, ma tutto il governo, in quel momento storico, sapeva quello che era avvenuto in Sicilia: gli attentati del ’93, il contatto con Riina. Sapevano tutto. Che la sinistra sapeva lo dissi a Vittorio Mangano quando lo incontrai. Gli dissi anche: ‘i servizi segreti sanno tutto ma non c’entrano niente’. Mangano comprese e con questo bagaglio di conoscenze andò da Dell’Utri”. Non è la prima volta che lo stesso Brusca nomina “la sinistra che sapeva”. Al termine della requisitoria del pm Nino Di Matteo all’udienza preliminare del processo sulla trattativa (tenutasi lo scorso 9 gennaio davanti al gup Piergiorgio Morosini,ndr) l’ex boss aveva reso dichiarazioni spontanee ben precise. “Non sono stato io il primo a dire che la Sinistra sapeva della trattativa – aveva sottolineato Brusca –, l’aveva detto già Riina in un processo e in quella sede aveva incluso nella Sinistra i comunisti”.

Quell’incontro di Natale
Nel suo racconto Brusca ricorda l’incontro di Natale del ‘92 insieme a Totò Riina e ad altri boss di primaria grandezza. In quella occasione Salvatore Biondino aveva preso una cartellina di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo per poi commentare con sarcasmo le sue dichiarazioni: “Ma guarda un po’, quando un bugiardo dice la verità non gli credono”. Di fatto Mutolo aveva parlato di Nicola Mancino, con particolare riferimento all’incontro di quest’ultimo con Paolo Borsellino, successivamente sempre negato dallo stesso Mancino. In quella stessa riunione di Natale Totò Riina aveva definito Mancino il “terminale” del papello.

La figlia di Mangano e quello che avevamo scritto tempo fa

La notizia che rimbalza oggi è questa:

In manette genero e figlia di Mangano.
La Direzione distrettuale antimafia di Milano ha colpito un’organizzazione criminale di stampo mafioso attiva in Lombardia. Otto gli arresti, tra cui ci sono anche il genero e la figlia di Vittorio Mangano, l’ex stalliere di Arcore condannato per omicidio e considerato collegato alla mafia siciliana. L’uomo che Marcello Dell’Utri definì “un eroe” e che Borsellino pensava fosse una sorta di ‘chiave’ del riciclaggio di denaro sporco in Lombardia.

L’operazione della Dda, eseguita dalla polizia, riguarda un’organizzazione che dagli inquirenti è ritenuta emanazione diretta di Cosa nostra: gli agenti hanno eseguito perquisizioni di società cooperative attive nella logistica e nei servizi che mediante false fatturazioni e sfruttamento di manodopera hanno realizzato profitti in nero dal 2007.

Tra gli arresti, come detto, anche Cinzia Mangano, figlia di Vittorio, e il genero di lui, Enrico Di Grusa. In manette anche Giuseppe Porto, ritenuto l’uomo di fiducia a Milano di Di Grusa.

L’operazione ha evidenziato un cospicuo flusso di denaro che serviva per mantenere latitanti ma che veniva anche investito in nuove attività imprenditoriali, infiltrando ulteriormente, quindi, l’economia lombarda.

Noi l’avevamo scritto il 28 novembre 2009 qui e qualcuno si era arrabbiato. La curiosità paga.

Licenziati dall’amico di Mangano

La notizia è stata derubricata ali trafiletti di cronaca ma LINKESTA riannoda i fili:

Sangue e manganelli a Basiano, nel milanese. La polizia ha caricato 90 lavoratori dell’Alma Group licenziati in tronco la scorsa settimana. Uno di loro è codice rosso all’Humanitas, mentre gli altri denunciano i «padroni». Cioè Natale Sartori, ex socio d’affari di Vittorio Mangano, vecchia conoscenza di Marcello Dell’Utri.

«I capi ci dicevano: ‘attenti a protestare che dietro di noi c’è la mafia’». Mohamed ha cinquant’anni. Viene dall’Egitto e ha un regolare permesso di soggiorno. Ha passato gli ultimi 15 a lavorare per 9 euro all’ora come facchino alla Gratico Srl di Basiano, nell’hinterland milanese, stabilimento dove si appoggiano le cooperative che si occupano di logistica e distribuzione alimentare per le grandi catene di supermercati come Il Gigante, Esselunga e Coop. […]

Del resto, Sartori era un amico e socio d’affari di Vittorio Mangano, il famoso stalliere di Arcore, in quella villa San Martino di proprietà dell’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Storie note. Gianni Barbacetto, giornalista del Fatto Quotidiano, ha definito Sartori come uno degli esponenti di spicco della «seconda generazione dei colletti bianchi di Cosa nostra».

Arrivato a Milano dalla Sicilia negli ’50 e ’60, Sartori, rolex submarine al polso, occhiali da vista Cartier, villa in Sardegna a San Teodoro, è stato titolare fino al 1994 della Cisa group, rete di società e cooperative che già all’epoca offrivano servizi alle imprese, soprattutto pulizie, facchinaggio, trasporti: lavoravano anche per Publitalia. Poi l’azienda ha cessato l’attività, come spiegano i dati della camera di commercio.

Dopo una condanna a 4 anni e 9 mesi per «corruzione continuata», Sartori è comunque tutt’ora un punto di riferimento per la logistica in Italia. Si è costruito un impero. Nel 2010 a Montopoli, in provincia di Pisa, la Cgil gli ha fatto la guerra quando aveva vinto un appalto della Conad per un magazzino di circa 50 mila metri quadri. I sindacati denunciarono «la tratta di migranti».

Lavoratori stranieri, per di più egiziani e pakistani che arrivavano dalla Lombardia per lavorare in Toscana. «Un segno evidente» spiegarono da Filt e Cisl «del rischio di traffico di lavoratori legati all’intermediazione di manodopera». L’affare con la Conad saltò, tra la soddisfrazione pure del Partito Democratico che da quelle parti è partito di governo: «Ha vinto la legalità, non la mafia».

Sartori è titolare insieme con la figlia Cristina e alla moglie Giargiana Provvidenza di diverse aziende che spaziano dall’alimentare ai bar fino alla ristrutturazione di immobili. Un impero nel servizio di distribuzione di catering, ma pure nell’immobiliare. Tra questa pure la Antichi Sapori Srl, Futura Srl, Immobitalia, Oversize, Eurologistica, Sistema Srl, Elco, F&P Holding.

Il giro d’affari è milionario. Basti pensare che la Italtrans, altra azienda che opera alla Gartico e che si appoggia alla Bergamasca, nel solo 2010 ha fatturato 140 milioni di euro, con una quota del 40% per le attività logistiche. Non solo. Gli affari sono pure all’estero. La signora Provvidenza risulta socia pure di una società di logistica in Romania, la Ge.Ho.Re.Ca distribution.

Il caso di Montopoli può essere solo un esempio del modo in cui opera Alma Group. La storia di Mohamed, infatti, fa scuola in questo spicchio di Brianza che cerca di combattere la crisi economica. Sono centinaia i lavoratori stranieri che ogni giorno cercano di portare a casa uno stipendio dignitoso.

È una «guerra fra poveri», con le società consortili che cercano manodopera sempre più a basso costo. C’è chi denuncia mancanza di norme di sicurezza. Altri che parlano di intimidazioni, giri poco chiari. Casi di «caporalato». A Pioltello, in un magazzino di smistamento l’anno scorso ci hanno trovato 25 chili di cocaina. Chi ci lavorava? Anche qui, tra i consorzi spunta la Alma Group.

Già allora Sartori si difese. E il legale della società, Francesco Marasà, già avvocato di Bernardo Provenzano e di Mangano, tutelò la società nelle sedi opportune. Ma i Cobas continua a fare muro.  «Continueremo a protestare», dice Fabio Zerbini che segue i lavoratori anche con assistenza legale. «Domani saremo qui per trovare una soluzione».

La mafia che gocciola dai polsini del Re

La notizia dei 100 milioni versati da Silvio Berlusconi alla mafia secondo il foglio dattiloscritto e controfirmato da Vito Ciancimino secondo quanto scritto da Felice Cavallaro sul Corriere della Sera sarebbe una notizia solo in un Paese con la memoria andata in prescrizione dove un Governo ricattabile gioca a confondere i fatti con le opinioni, e a curare il cancro delle mafie con i cerotti. Quindi è una notizia.

Eppure, nell’Italia dell’informazione trasformata in vassoio per raccogliere le bave del re, l’ultima rivelazione di Massimo Ciancimino (e, per la prima volta, di sua madre Epifania Scardino) è passata come una brezza di ferragosto perfettamente inscatolata tra i “complotti” e le “invenzioni” che sono la ciclica difesa del fedele Ghedini a tutela servile del premier. Non importa nemmeno che l’anziana moglie di Don Vito dica «Si, mio marito incontrava negli anni Settanta Berlusconi a Milano… Ma alla fine si sentì tradito dal Cavaliere…». Eppure di un assegno di 25 milioni dato dal Cavaliere ai Ciancimino se ne parla ormai da sei anni, dopo un’intercettazione in cui il figlio Massimo parla della regalìa berlusconiana alla sorella dichiarando di avere ricevuto quei soldi direttamente dalle mani di Pino Lipari. Sarebbe una notizia, in un Paese normale. In questo ferragosto di battibecchi e divorzi è diventata invece una voce di corridoio.

O forse non è una notizia perché la memoria non si è appassita come qualcuno vorrebbe e ci si ricorda che nel processo Dell’Utri si legge che ogni anno arrivavano milioni in regalo direttamente da Arcore. Dichiarazioni di più pentiti ma (poiché il cecchino Feltri ci insegna che solo la “carta canta”) anche ben documentati: durante le indagini negli anni novanta sulla famiglia mafiosa di San Lorenzo infatti si ritrova un appunto nel libro mastro del pizzo che dice “Can 5 5milioni reg”. O forse ci si ricorda perfettamente che che i fratelli Graviano furono spediti a Milano a partire dal ’92 dove “avevano contatti importanti” e dove incontrarono più volte anche Marcellino Dell’Utri. Lo dice il pentito Gaspare Spatuzza ma (siccome vi diranno che Spatuzza non è credibile e i pentiti non possono deviare il corso della politica) lo dice anche l’ex funzionario della DC Tullio Cannella, politico per nulla pentito. E ci si ricorda che Gaetano Cinà, uomo d’onore della famiglia di Malaspina (un clan vicinissimo a Provenzano), visitava spesso gli uffici di Milano 2 e l’ex fattore di Arcore Vittorio Mangano sia un condannato mafioso con il tratto per niente eroico della vile omertà.

Nonostante il premier si affanni a scrivere pizzini a Cicchitto in cui gli raccomanda in Aula di parlare di mafia (avendo già altri nel partito che si occupano a parlare “con la mafia”), nonostante anche nel centrosinistra qualcuno insista per scambiare la mafia come sceneggiatura buona per le fiction piuttosto che cancro delle istituzioni, oggi Cosa Nostra può guardare dall’alto i frutti della propria strategia di tensione e poi cooperazione con le istituzioni: tra il ’95 e il 2001 sono state approvate alcune leggi che sono fatti, mica opinioni. Sono state chiuse le carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. Con la scusa della privacy si è imposta la distruzione dei tabulati telefonici più vecchi di cinque anni. In modo bipartisan è stata riformata la legge sui collaboratori di giustizia con il risultato di una diminuzione sensibile dei pentiti (calpestando il modello di Falcone e Borsellino). Si è pressoché smantellato il 41 bis e con la riforma del “giusto” processo si è concessa la facoltà di non rispondere, elevando l’omertà ad un (eroico) diritto di stato. Alcuni parlamentari hanno anche provato a parlare di “dissociazione” mafiosa. Il ministro Alfano ha proposto una riforma che consentirebbe alle difese di chiamarei in tribunale un numero illimitato di testimoni, per ingolfare ancora meglio la palude dei processi. L’onorevole Gaetano Pecorella ha proposto il ricorso alla Convenzione Europea per la revisione dei processi (guarda caso, idea del vecchio Vito Ciancimino per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo). Sempre ricalcando l’idea del vecchio boss Don Vito la Lega propone l’elezione dei giudici. Ad abbattere le difficoltà del riciclaggio ci ha pensato lo “scudo fiscale”.

Cosa dobbiamo aspettare perché sia un diritto (e soprattuto un dovere) raccontare e dire del rapporto adultero tra le mafie e questa Seconda Repubblica? Quando si riuscirà a gridare che il marcio di questo Stato sta uscendo dai polsini dei nostri governanti?

Mafia é mafia. Senza sinonimi, senza moderazioni.

‘Ndrangheta: pronto il menù dell’Expo. Adesso tocca a noi.

Gli arresti di ieri  a Milano che hanno portato in carcere 15 uomini legati a Francesco Valle (classe 1937), per gli amici Don Ciccio, ha i soliti disgustosi ingredienti della ‘ndrangheta in Lombardia. Le solite caratteristiche che non dobbiamo mai dare per scontate in una Regione in piena fase di alfabetizzazione, ch non dobbiamo stancarci di scrivere, che non dobbiamo smettere di raccontare sui giornali, sui blog, per strada, agli amici. La presa di coscienza deve essere un trauma che distrugge i collusi, condanna gli indifferenti  e isola i negazionisti.

C’è il boss come te lo aspetti: Francesco Valle, testa rotonda e stempiata e bocca (dicono) semi analfabeta con la solita casa che vorrebbe essere una reggia ma rimane sempre un mausoleo kitch con il solido sbrodolamento del gusto mafiopolitano (scrive Davide Milosa “leoni e discoboli, cavalli alati e la copia del cristo redentore di Rio de Janeiro. Il tutto rigorosamente in marmo bianco a puntellare viottoli, prati all’inglese e una piscina. All’ingresso una targa: villa Angelina”). Alle signorotte impomatate lombarde andrebbe di traverso il thé se sapessero che le ville stile Scarface sono uscite sottovoce dalla copia di Gomorra sul comodino e si sono insediate nel proprio borgo.

Poi ci sono i figli: Angela Valle (46 anni) e Fortunato Valle (47 anni e un nome che oggi suona come uno scherzo del destino) che sono in posa nelle foto segnaletiche come mansueti yesman a disposizione per legami di sangue. Come la ‘ndrangheta ci ha abituato da sempre. Angela sorride, Fortunato invece ha l’aria di avere perso a causa dell’arresto un appuntamento importante nel pomeriggio. I due mandano avanti “l’impresa” con la faccia dell’aziendina lombarda ma nell’ombra dediti all’usura, ai prestiti non convenzionali e a gestire i rapporti con le finanziarie. Fortunato poi si prodiga per amore di famiglia a tessere rapporti istituzionali con l’aiuto degli amici A.M. e Riccardo Cusenza riuscendo (come si legge nell’ordinanza del GIP Giuseppe gennari) ad allargare la loro “sfera di influenza interessandosi a operazioni legate alle costruzioni immobiliari” e ad altre attività imprenditoriali “nella zona di Rho-Pero” in previsione “del prossimo Expo”. In particolare, l’assessore Valia “si prodigò” per mettere in contatto Fortunato Valle” con altri amministratori locali di altri comuni”.

Poi c’è la violenza: quella che colpisce di più i cuori e gli stomaci e serve per fare volare la notizia. Una ventina gli imprenditori e i commercianti strozzati, uno dei quali venne anche “convocato e picchiato brutalmente” da Fortunato Valle alla Masseria di Cisliano, una maxi-struttura con ristorante e piscina organizzata come un vero e proprio bunker, con telecamere, allarmi e sensori. Dalle vittime mai una denuncia.”O con lo Stato o contro lo Stato”, è stato il richiamo del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini.

Poi ci sono le vecchie conoscenze, quelle che pensi che siano scomparsi nella melma mafiosa dei tempi che furono e in vece riemergono in maschera e boccaglio per ricordarci che la mafiosità è un gene da cui non si guarisce. Paolo Martino (classe 1955) è da decenni l’uomo al nord della cosca De Stefano e “pontiere” tra i Valle, i Papalia e Francesco Lampada (suo ex socio in un’attività di videopoker poi passata ad un “soldatino” delle figlie di Vittorio Mangano. Sì, proprio lui, l’idolo del Senatore Marcello Dell’Utri.

Poi c’è la politica: l’assessore Valia “si prodigò” per mettere in contatto Fortunato Valle” con altri amministratori locali di altri comuni”. In un’intercettazione del 23 gennaio 2009 Fortunato Valle dice: “L’hanno fatta zona, come si dice, zona essendoci l’Expo”. Un altro risponde: “Sarà di espansione, di interesse”. Nell’informativa c’è anche il particolare di un tentativo di infiltrazione “nell’amministrazione del comune di Cologno Monzese, facendo candidare Valle Leonardo (il terzo figlio di Don Ciccio) alla carica di consigliere comunale” nella lista dei Riformisti. In una conversazione del 27 aprile 2009, poi, Cusenza vanta anche, spiega il gip, “di essere molto vicino all’attuale presidente della Provincia di Milano, Guido Podestà“. Podestà (che ha un cognome che è un programma politico) in una nota smentisce tutto e parla di “vanterie”. Amen.

Infine c’è Expo. Mentre la politica non riesce nemmeno ad innescare la marcia e togliere il freno a mano la ‘Ndrangheta si è già messa la lavoro. Quella mafia che , ci avevano detto, “non sarebbe mai entrata nei cantieri Expo”; quella mafia che Maroni dichiarava di tenere “sotto osservazione”. Quella mafia che ancora una volta dimostra di essere più organizzata e decisionista della politica.

Eppure all’insediamento delle Commissioni in Regione Lombardia quando (come gruppo Italia dei Valori) abbiamo proposto una Commissione speciale sulle infiltrazioni in Expo nessuno ci ha risposto. Tutto in sordina. Richiesta negata.

Dicono gli uomini d’onore che per sapere stare sul campo bisogna essere capaci di “reinventarsi”. Adesso ci mettiamo a farlo anche noi. Mica per scherzo. Presto gli aggiornamenti.

Dall'Ortomercato al Corvetto, svelata in aula la nuova alleanza tra 'ndrangheta e Cosa nostra. Cooperative, false fatture e fondi neri

Ne ha parlato l’imprenditore Mariano Veneruso, accusato di aver favorito la cosca Morabito, Venersuo ha ammesso la sua conoscenza con  Giuseppe Porto, un palermitano molto vicino al latitante Gianni Nicchi

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Il personaggio

Mariano Veneruso è nato a Napoli nel 1959. A Milano arriva a metà degli anni Settanta. Inizia subito a lavorare nel settore della logisica e del facchinaggio. Prima come impiegato di grandi aziende, poi in proprio. Nel 1997 fonda la Time service. L’impresa dura lo spazio di due anni poi fallisce. Veneruso ci riprova con altre due cooperative

Poi, attorno al 2003 fa il salto di qualità. Conosce Antonio Paolo e nel 2006 rileva quasi tutti gli interessi del Nuoco Coseli, il consorzio di Paolo. Veneruso, che risulta incensurato, fonda il Consorzio Europa di cui fanno parte la New Gest di Cardile, la New Coop di La Penna e la Padana servizi. Nello stesso consorzio lavora anche Salvatore Morabito

Prima dell’inchiesta Ortomercato, Veneruso viene coinvolto nell’indagine Ciramella condotta dalla Dda di Reggio Calabria

Milano, 26 novembre 2009 – Un benzinaio in piazzale Corvetto. Sembra questo lo snodo principale attraverso il quale passano gli affari di ‘ndrangheta e Cosa nostra. Il sodalizio affaristico è emerso durante l’ultima udienza del processo Ortomercato. A dare corpo a questo inedito legame, le parole dell’imprenditore Mariano Veneruso, alla sbarra con l’accusa di aver dato supporto finanziario e logistico alla ‘ndrangheta. Incalzato dalle domande del pm Laura Barbaini, Veneruso, classe ’59, origini napoletane, ma residenza in via Ravenna proprio al Corvetto, è subito entrato nei particolari. “Si tratta del benzinaio Esso – ha detto – qui, noi andavamo perché il titolare è un amico e la benzina la pagavamo poco”.

Ma c’è dell’altro. Perché qui Venersuo ci è andato spesso anche con Gianni Falzea, giovane calabrese di Africo imparentato con Rosario Bruzzaniti, capocosca assieme a quel Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu, arrestato nel 2004 dopo anni di latitanza. Dunque, a quegli incontri c’era Veneruso, Falzea e anche Salvatore Morabito, giovane boss calabrese. “Morabito – ha detto Veneruso – non veniva mai in macchina. All’epoca lui non aveva la patente e così veniva in zona con la metropolitana, dopodiché qualcuno di noi andava a prenderlo”. Poi ecco il particolare che non ti aspetti. Sì, perché assieme a quei calabresi, gli uomini della Squadra mobile filmano e fotografano anche il siciliano Giuseppe Porto. Circostanza confermata dallo stesso Veneruso in aula.

Per capire meglio, ecco cosa scrive la Squadra mobile a proposito di quel palermitano dai grossi baffi e dagli occhi a mandorla. “Porto Giueseppe è vicino alla famiglia mafiosa palermitana di Pagliarelli, segnatamente a Gianni Nicchi, latitante e strettamente legato al capo dell’omonimo mandamento mafioso di Antonino Rotolo”. Lo stesso Porto a metà anni Novanta viene coinvolto in un’inchiesta di mafia nella quale emerge, tra le altre cose, un enorme giro di fatture false, giocato su un castello societario, al cui vertice c’erano due imprenditori messinesi. Sotto di loro, proprio Pino Porto, titolare di diverse cooperative e, particolare non di poco conto, molto legato agli eredi di Vittorio Mangano che proprio al Corvetto avrebbero le loro attività legali. La zona ha, dunque, una forte presenza di Cosa nostra. Particolare confermato dall’ultima inchiesta del pm Ilda Boccassini. E ribadito dal fatto che qui Pino Porto, alias il cinese, è di casa da sempre.

Dopodiché da quel benzinaio di piazzale Corvetto al bar Golden di corso Lodi ci passano poche centinaia di metri. Ai suoi tavolini, il primo marzo 2003, si incontrano Veneruso, una tale Mario La Penna, altro imprenditore nel campo della logistica, lo stesso Pino Porto e un altro imprenditore calabrese, tale Alberto Chillà, non coinvolto nel processo Ortomercato, ma “storico socio di Pino Porto”, almendo stando alle dichiarazioni di Veneruso. Non solo: “Chillà era amico di Morabito e fu lui a presentarmelo, proprio nel 2003”. Chillà, dunque, viene descritto come l’anello di congiunzione tra Morabito e Porto. Quello stesso Porto che, ha rivelato il pm, “andò ad Africo con la moglie per trovare Morabito”. L’ombra di una joint venture tra Cosa nostra e ‘ndrangheta si fa sempre più pesante, quando in aula si torna  a parlare delle centinaia di cooperative che ruotavano attorno ad Antonio Paolo. Tra queste c’era la New Gest di Carmelo Cardile, parente, guarda caso, di Chillà. La New Gest, aperta nel 2004 proprio da Veneruso che nel 2007 la passa proprio a Cardile. La società fin da subito risulta inattiva, però in poco meno di tre mesi monetizza quasi un mlione di euro. Denaro del tutto ingiustificato vista l’inoperosità della impresa. La New Coop, invece amministrata da La Penna, ha i suoi uffici in via Scalarini, a due passi da piazza Bonomelli, guarda caso proprio al Corvetto. (dm)

DA http://www.milanomafia.com/home/veneruso