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Agosto 2013

Ci danno dei perduti perché sono dei perdenti

Marina la chiama lotta per la restanza e rende benissimo l’idea:

L’informazione: “Siete la generazione perduta” è definitivamente introiettata. Una delle più sporche e riuscite operazioni di propaganda di questo secolo. Come dire: siete degli zombie, siete già mezzi morti, siete dei cagnetti randagi, accontentatevi delle ossa che vi lanciamo.

Non è vero niente. Resistete soprattutto a questa falsa informazione. Non siete affatto la generazione perduta. Siete una generazione che avrà moltissimo da inventare. Una nuova civiltà economica. Una nuova civiltà politica. Un altro modo di studiare e di lavorare. Caricatevi di tutta l’energia che serve per questo compito gravoso e bellissimo.

“Chi definisce chi una generazione perduta?”, si domandava Hemingway. Risposta (mia) chi ha tutto l’interesse a mantenere lo status quo, e a bassissimo costo.

Lei seminava semi per casa

k8128459Lei seminava semi per casa. Semi di anguria.

Tutti all’inizio pensavano che fosse distratta, lei, mentre mangiava l’anguria gelata come un gelato d’anguria tenendola nella stoffa con due mani come un’anguria neonata. Pensavano che fosse distratta lei e distratta anche la stoffa, come se tutte e due avessero dei buchi come ferite, che perdessero semi. Qualcuno stupidamente aveva anche provato a chiederle di smettere, di provare a prestare più attenzione, almeno di tastarsi al mattino, appena sveglia, per provare a svegliarsi senza buchi. Ma niente.

Ride. Mentre sfarina anguria in ogni angolo dove riesce a starci in piedi, seduta, camminando, correndo per rispondere al telefono tra i due cuscini o tra un gesto iniziato e già dimenticato e il prossimo da dimenticare. La casa era solo il posto dove perdersi a forma di seme.

E non era vero niente: sembrava una distrazione mentre era una voglia naturale di aspettare un fiore. Una mattina dopo una pioggia che ha fischiato come un sax era diventato chiaro a tutti. E tutti ad aspettare il raccolto.E tutti a vergognarsi un po’, senza dirselo per pudore, di avere scambiato una semina ai tempi giusti del tempo per uno stupido vezzo da distrazione.

(studio per “La verità, vi prego, sull’amore”)

Grand Hotel Ermo Colle

Sembra fantascienza. Fantascienza horror. Una ricca possidente terriera (Maria Dalla Casapiccola, e il nome è degno del miglior Molière) vuole trasformare l’ermo colle dell’Infinito di Leopardi in un nuovo complesso residenziale. Dovrebbero esserci i buoni che combattono, no? E invece…

In Sovrintendenza sono disperati: «Non abbiamo i soldi, non abbiamo personale, non siamo in grado di gestire tutti i casi che ci arrivano», e allora la signora Dalla Casapiccola ha giocato sul velluto e, in poche udienze, ha ottenuto il permesso per fare quello che vuole con la casa colonica, che tra le altre cose è a un tiro di schioppo da un altro simbolo leopardiano: la torre del passero solitario. Un problema – quello della mancanza di fondi – che si presenta sempre uguale davanti ad ogni questione che riguarda i beni culturali sparsi lungo la penisola: Pompei cade a pezzi, ogni volta che dal sottosuolo delle città emerge qualche testimonianza del passato si preferisce coprire tutto e continuare i lavori, i pochi precari della cultura che dispongono di un contratto hanno stipendi da fame. Il paese che, secondo diverse statistiche, dispone della maggior parte dei beni artistici e culturali del pianeta Terra preferisce sempre voltarsi dall’altra parte. L’ultima carta da giocare prima dell’arrivo del cemento è un ricorso al Consiglio di stato. La Sovrintendenza sta lavorando a ritmo febbrile per produrre una documentazione convincente da depositare entro i primi di ottobre: bisogna dimostrare che, i progetti presentati dalla signora Dalla Casapiccola snaturerebbero un’area dall’indiscutibile valore storico e culturale, vincolata da sessant’anni. Detta così potrebbe anche sembrare una cosa semplice, ma il giudizio espresso dal Tar è un precedente inquietante. L’Infinito che scopre i suoi confini; un naufragare molto poco dolce, in questo mare di cemento.

Non perdere mai la curiosità per le cose belle della vita.

“Non perdere mai la curiosità per le cose belle della vita. Continua a farti stupire dalle escursioni nei boschi, nei canyon, in montagna. Vai a pesca e vai a caccia. Esci dalla routine cittadina se puoi. Circondati di buoni amici che ti possano essere d’aiuto nei momenti di difficoltà. Innamorati. Riprenditi il tuo cuore infranto. E poi innamorati ancora. Respira ogni giorno la vita come se fosse la prima volta. Cerca qualcosa da amare e non smettere di farlo finché non trovi qualcos’altro per cui valga la pena vivere.
Non incolpare gli altri per i loro errori. Ti rende più debole. Sei un uomo forte. Non ti fermare ad ascoltare chi ti critica negativamente. Parla con convinzione e credi in te stesso perché il tuo modo di essere è più importante di come ti hanno educato. Avrei voluto congratularmi personalmente con te ma so che questo non avrebbe cambiato molto.
Cerca di non dimenticarmi. Se serve qualcosa basta un’email”.

Le parole sono di Andrew Pochter, 21 anni e un cuore grande da non riuscire a tenersi dentro tutta la voglia di vivere. 21 anni e un viaggio in medioriente che amava e accarezzava con la macchina fotografica al collo. Andrew le ha scritte ad un ragazzo dodicenne a cui aveva fatto da tutor in campo estivo. Amava la pace, Andrew, e la inseguiva con gioia spericolata.

E’ morto ad Alessandria d’Egitto. Probabilmente scambiato per un manifestante.

Tenere il punto. Fermo.

Per ottenere questo, oltre tutto, la strada è assai semplice: basta che ognuno faccia la sua parte, nella distribuzione dei ruoli che l’assetto istituzionale prevede: assicurare la decadenza; sanzionare la ineleggibilità; nessuna grazia a posteriori, neanche di tipo semplicemente risarcitorio o consolatorio; garantire l’esecuzione della pena nelle forme previste dalla legge. E, per favore, ci sia risparmiata almeno questa volta la farsa penosa di un ricorso dilatorio (infondato e inutile) alla Consulta, che svelerebbe, forse ancor più drasticamente di quanto non farebbe una qualche forma di “assoluzione”, di quale pasta sia fatto il cosiddetto tessuto politico italiano.

Dopo aver detto “sì” per vent’anni o, ancor più frequentemente, “nì”, – vero simbolo del malcostume nazionale, – si decida per favore di dire con chiarezza “no”: non si può discutere; non si può accettare; non si può fare. L'”agibilità politica” è una nozione che lo Stato di diritto ignora. Infatti: o c’è, perché le condizioni, giuridiche e politiche dell’interessato, la consentono; o, se le condizioni, giuridiche e politiche dell’interessato, non la consentono, non c’è. Non può essere reinventata a posteriori, sulla base del principio, in ogni caso molto dubbio, che il consenso popolare sottrae al controllo e ai rigori della legge.

Un’Italia in risalita, non solo nei mercati e nello spread, ma come tono pubblico generale, civiltà del confronto, libertà del pensiero e, se mi è consentita la parola forte, dignità nazionale (troppe volte evocata solo per lasciarla trascinare nel fango), può partire solo dal punto fermo che ipotizziamo. L’occasione ce l’ha offerta anche questa volta la magistratura; ma spetta ai politici e alle istituzioni di portarla rapidamente fino in fondo.

Non sarà facile, anche restando dentro i limiti rigorosamente fissati dalla “semplice” applicazione delle leggi (come io ipotizzo). Siccome la battaglia è decisiva, – e questo lo sa bene anche il principale protagonista della faccenda, – tutti i mezzi verranno usati, dal rovesciamento dell’attuale governo (esempio supremo di confusione delle sfere) a intraprese anche più dure. Sotto la scorza mediatico-plutocratica emergerà più chiaramente in questa fase finale il caudillo potenzialmente eversore. Verrà evocata senza mezzi termini la guerra civile; ne saranno messe in opera concretamente le premesse, magari attraverso l’alleanza con altre forse eversive incistate ormai da anni nel degradato sistema italiano.

Per fare fronte allo scarto d’irrazionale che s’introduce qualche volta e poi permane a tratti nella storia, l’esperienza insegna che l’unico strumento adatto alla bisogna, – si pensi al Novecento, – è l’assoluta fermezza: l’eloquente dimostrazione, fin dal primo momento, fin dalle prime battute, che l’eversione, il rovesciamento delle parti, lo stupido arrangiamento, il compromesso che posticipa al passaggio successivo l’inevitabile catastrofe, non hanno neanche una minima possibilità di fare il primo passo avanti.

Asor Rosa, qui.

Non voglio imparare ad avere paura

Oggi a Roma c’era il caldo torrido. Il caldo torrido che entra di gran lena nella scena delle parole precostituite come fioreamore o pioggiatorrenziale o macabrascoperta. In realtà forse non era nemmeno torrido ma sono piuttosto abbastanza torrido io ogni volta che tiro la testa fuori dalla porta di casa con tutte queste notizie di morti ammazzati che mi dovrebbero ammazzare e alla fine non riesco nemmeno a farci il callo. Sarò pavido, o forse, semplicemente fatico a diventare abitudinario.

Ho percorso qualche metro, lo ammetto, qualche metro, dal confine della proprietà privata di me stesso e quel limite da cui poi devo consegnarmi alla protezione del mio stato. Roba da film russo, se ci pensate, scritto così. Ma a viverla non ha il sapore dello spionaggio, no, quanto piuttosto il peso dell’obbligo della lista della spesa: mi sento come uno di quei pensionati che ogni mercoledì esce con il foglietto scritto dalla moglie e non può fallire nemmeno un prodotto per sopravvivere, solo che c’è la mia vita, in fondo, nella mia lista della spesa, eh.

Ora vi racconto quanto gli spaventati cronici vedono l’epica nelle cose inutili. Almeno per togliersi di dosso il mito, che proprio mi è insopportabile per anarchia naturale, il mito. Oggi esco dal recinto naturale non bonificato e noto un’auto che avevo notato ieri, l’altro ieri, l’altro altro ieri e l’altro l’altro l’altro ieri: notare le auto parcheggiate fuori casa è una malattia. Una mania. Una stortura da perditempo con tanto tempo a disposizione per coltivare le storture. Lo scrivo senza poesia: avere paura ti trasforma in un maniaco dei particolari, in un ossessionato guardaspalle di te stesso e in un sospettoso cronico.

Rischio tutti i giorni di diventare una persona peggiore. Mi salvano i miei figli, i miei amori e l’obbligo di concimare l’orto dei miei sorrisi. Io non voglio imparare ad avere paura, non voglio convincermi che sia una convivenza forzata nella gioia e nel dolore, no. Non voglio nemmeno spendere centimetri di occhi per memorizzare i colori del parcheggio sotto casa. Voglio sorridere come questa sera in cui mi ripenso a centellinare le targhe come i brontoloni, quelli tutto il pomeriggio appesi alle reti dei cantieri. Sono vivo, smutandando il mito gonfiabile con incollata la mia faccia.

Se cominciassimo a proteggere chi protegge le donne?

Il Governo nel 2009 ha tagliato loro i fondi destinati per tutelare e assistere le donne vittime di violenza. Il nostro paese sta attraversando un periodo storico in cui la violenza sulle donne sta aumentando in modo vertiginoso.

Quest’anno hanno subito danni da vandalismo due centri antiviolenza e un giardino dedicato alle vittime di violenza.

A Firenze il Centro Artemisa ha subito un incendio al portone d’ingresso. Non sono state fiamme a sorpresa: molte operatrici avevano già denunciato minacce da mariti ed ex compagni delle donne protette.

Ad Olbia, poco fa, il Centro Prospettiva Donna ha avuto il gentile dono di un piede di porco che cercava di aprire l’ingresso per accedere all’archivio.

Che dignità di protezione alle donne possiamo avere se non riusciamo a difendere chi le difende?

Ecco sì, ci siamo capiti

Malvino oggi lo scrive come non si potrebbe scrivere meglio:

Le sentenze vanno rispettate, sempre, anche quando sono considerate ingiuste, perciò, da quando la Corte di Cassazione ha stabilito che l’espressione «paese di merda» configura il reato di vilipendio alla nazione, io mi limito a pensarlo, e, anche se ritengo che non ci sia definizione più efficace per esprimere il degrado morale, culturale e politico in cui versa l’Italia, la evito, e mai – mai, ripeto – verrei qui a scrivere che «questo è un paese di merda»: mi costa enorme sacrifizio, ma la legge è legge, e dinanzi ad essa mi inchino. Tuttavia, anche se vanno rispettate, le sentenze possono essere criticate, ed io qui potrei avvalermi di tale diritto, spiegando perché, a mio modesto avviso, «paese di merda» sia definizione che all’Italia va proprio a pennello, chiamando illustri autori in favore della mia tesi, vuoi sulla forma, vuoi sulla sostanza, e però ci rinuncio, anche perché al post dovrei dare necessariamente un titolo che contenga l’espressione, e questo potrebbe dare l’impressione, almeno al lettore malizioso, che, per capzioso aggiramento, io voglia violare la legge sopravanzando il legittimo diritto. Perciò mi risolvo a titolare: Ci siamo capiti.

Il resto (da leggere) è qui.

Pentiti di pentirsi

Se anche Carmine Schiavone dichiara che non si pentirebbe più forse sarebbe davvero il caso di porsi una domanda. Porsi domande richiede esercizio: bisogna smettere di credere di avere sempre la risposta giusta, bisogna lasciare perdere chi propina la risposta unica e bisogna non dipendere da una risposta in particolare.

Parliamo di Falcone, di Borsellino, ci commuoviamo in comunione legalitaria davanti al film su Peppino Impastato, amiamo gli antimafiosi, tutti, anche quelli con passati mafiosi e presenti paramafiosi (come Massimo Ciancimino), ci terrorizziamo per i delitti, commemoriamo gli ammazzati (dimenticando gli assassini perché si, va beh, quelli sono particolari da studiosi, probabilmente, ci convinciamo, come un condono), resistiamo alle sfilate, leggiamo i libri meglio se minacciati (almeno la quarta di copertina e la prefazione per avere un’infarinatura generale come per un’interrogazione di mafiosità), siamo solidali con tutti, e intanto non notiamo le pericolose sfumature nel mezzo.

Le sfumature nel mezzo sono le zone di pascolo di mafie e antimafie: il recinto in cui guardare. Nelle sfumature di mezzo ci stanno i testimoni di giustizia che rimangono parcheggiati nel limbo oppure i pentiti che si pentono di essersi pentiti, come appunto Carmine Schiavone ma anche molti altri.

I pentiti e i testimoni di giustizia sono roba che scotta. Dentro (sarebbe il caso di dirselo, una volte per tutte) ci sono millantatori, falsi pentiti ancora al soldo delle cosche (ne avevamo parlato in questa puntata di Radio Mafiopoli e in questa, eh), e separare il grano buono dal cattivo non è cosa banale. Eppure noi siamo lo Stato che per primo ha colto l’importanza della protezione di chi si pente e chi denuncia proprio dai tempi di Falcone e Borsellino e non è difficile capire il peso del messaggio che passa con l’adeguata vicinanza a chi trova la forza di denunciare.

Qualcuno storcerà il naso a leggermi, oggi, perché i testimoni di giustizia (coloro che denunciano un reato a cui hanno assistito e di cui sono stati vittime) sono diversi dai collaboratori (coloro che hanno commesso un reato e se ne pentono) per spessore morale della loro vita precedente. Certo, va bene. Ma il punto che interessa è un altro: la protezione. Dice il dizionario:

Opera protettrice e di assistenza nei confronti di chi è in condizione di inferiorità, di debolezza o di ciò che è minacciato nella propria integrità.

Ma non siamo un paese per deboli, noi. No. Di questi tempi.