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Luglio 2015

Come le coppie sapute da tutti cornute eppure a messa ogni domenica

Quindi alla fine Roma si tinge di monocolore PD mentre SEL se ne esce dalla Giunta e il sindaco Marino appare ancora di più il “barboncino” di Matteo Renzi. E chissà se il sindaco (che è fuori da alcuni “sistemi politici” ma non è certo uno sprovveduto) è convinto davvero quando ci dice che questo rimpasto porterà grandi risultati. Perché, da fuori, l’unica cosa che si nota di primo acchito è che (finalmente, opinione personale) si smette di vedere i rimasugli di Italia Bene Comune (PD e SEL, perché Tabacci mi rifiuto di considerarlo per ecologia intellettuale) che si oppongono in Parlamento e poi vanno a braccetto nelle amministrazioni locali, come quelle passeggiate delle coppie sapute da tutti cornute eppure a messa ogni domenica. E, insisto, basta con il “sistema” Milano o Cagliari o Canicattì che ogni volta ci viene rivenduto come l’eccezione che conferma la regola.

Serve la regola, alla sinistra di questo Paese. Già.

L’ho raccontata a nord, a sud, a est e a ovest.

125639848-f7b96aaa-1152-498b-afdb-6e7956367042Napoli l’ho vista con gli occhi di Giacomo Leopardi, seduto a un tavolino del Caffè delle Due Sicilie, poi Caffè d’Italia; o intento a scrivere sulla terrazza della villa (che in realtà non era una vera villa, ma la sua dépendence) ai piedi del Vesuvio, dove lui abitò con Ranieri durante l’epidemia di colera. Forse nessuno se ne è accorto, ma io ho finito per raccontare l’Italia fuori dai particolarismi e dai localismi. L’ho raccontata a nord, a sud, a est e a ovest.

Sebastiano Vassalli (con Giovanni Tesio), Una nulla pieno di storie, Interlinea Edizioni

A proposito di Roma

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Vale la pena leggere Christian Raimo:

Fare politica a Roma in nome del degrado e del decoro vuol dire non aver presente che la “riparazione” che occorre a questa città non è un belletto, ma una cura radicale. Fatta di trasformazioni profondissime, infrastrutture serie, investimenti massivi, e soprattutto visione politica e scelte di lungo respiro, che si giocano sui trasporti, sui rifiuti, sul consumo del suolo.

Proviamo a porci degli interrogativi seri, e non domande pleonastiche che servono solo a confermarci nelle nostre inutili retoriche.

Non è ovvio, per esempio, che la condizione di sofferenza di Roma sia il prodotto della creazione di aziende partecipate che sono state il brodo di coltura del clientelismo? Come dimenticare che le politiche di austerità hanno sempre di più svuotato i fondi a disposizione della giunta per attività che non fossero di emergenza: tutto il settore cultura, per esempio, dalle biblioteche ai teatri, pesantemente sottofinanziato?

Immaginare di salvare Roma eliminando la sporcizia dal centro storico vuol dire, nel migliore dei casi, radicalizzare questa divisione tra un’immagine turistica – che serva come fondale per qualche produzione hollywoodiana – e una città reale – che non riesce per esempio a trovare una vocazione industriale.

Nel peggiore dei casi, significa invece preservare l’accesso di alcuni luoghi a un’élite sempre più ristretta e abbandonare il resto di questa città alle sue spinte peggiori: il razzismo, il neofascismo, la porosità alle mafie.

Chi vuole affossare Marino dovrebbe pensarci bene. Da parte sua anche il sindaco dovrebbe capire com’essere permeabile a un reale desiderio di partecipazione dal basso, prima di finire la sua esperienza politica piena di promesse sotto i colpi della demagogia.

Il resto è qui.

“Il più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un governo”

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Il Ddl Madia sancisce il silenzio assenso e la confluenza delle soprintendenze nelle prefetture. “Si tratta del più grave attacco al sistema della tutela del paesaggio e del patrimonio culturale mai perpetrato da un governo della Repubblica” dicono intellettuali, costituzionalisti e associazioni. Ma Renzi, al solito, tira dritto.

Ne ho scritto qui.

Milano e quelle brutte scritte: la memoria di via Palestro sia ancora più forte

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Chissà se l’esercito milanese di detersivo e spugnette è pronto per scendere in piazza contro un’offesa ben più grave alla città e alle sue memorie più drammatiche. Intanto vale la pena leggere l’articolo di Aaron Pettinari:

“No 41 bis”, “41 bis= Tortura”. Eccole, alla vigilia delle commemorazioni per la strage di via Palestro, apparire sui muri delle vie di Milano (piazza Leonardo Da Vinci, piazzale Maciachini, uno dei viadotti in zona Mac Mahon, viale Monza all’altezza di Precotto, Villa San Giovanni, viale Monteceneri, alcuni dei luoghi dove sono state rinvenute, ndr) le scritte contro il regime del carcere duro che viene applicato ai condannati soprattutto per mafia e terrorismo ma anche a sequestro di persona e sfruttamento della prostituzione minorile.
Chi ha scritto quel terribile messaggio alla vigilia di una delle stragi del 1993? Certo è che appare impossibile pensare ad una coincidenza se si considera che proprio gli attentati di quell’anno a Firenze (provocando l’uccisione di 5 persone), in via dei Georgofili nella notte fra il 26 e il 27 maggio, Milano (in via Palestro causando altre 5 morti) e Roma, con danneggiamenti alle chiese di San Giorgio al Velabro e San Giovanni in Laterano, erano ritenute un chiaro messaggio di Cosa nostra proprio contro il regime del 41 bis introdotto dalla Legge Gozzini nel 1992.

Lo scriveva chiaramente la Dia, in una nota firmata da Gianni De Gennaro inviata al Ministro dell’Interno Mancino il 10 agosto 1993, analizzando l’excursus di stragi avvenute prima in Sicilia (Capaci e via d’Amelio) e poi in continente.
“La strage di Capaci e l’omicidio di Salvo Lima sono da interpretare come due momenti significativi di una strategia a difesa di Cosa Nostra – si legge nella relazione – dopo la strage di via d’Amelio, Cosa Nostra è divenuta compartecipe di un progetto designato e gestito insieme ad un potere criminale diverso e più articolato”. Quindi viene fatto un chiaro riferimento alle bombe piazzate a Roma, Firenze e Milano. “La scelta dei tempi di esecuzione (delle stragi di Roma, Firenze e Milano) appare legata ad una concreta possibilità per i mass media, e in particola per le reti televisive, di intervenire con assoluta tempestività amplificando e drammatizzando gli effetti delle esplosioni con le riprese in diretta”. Una strategia per “insinuare nell’opinione pubblica il convincimento che in fondo potrebbe essere più conveniente una linea eccessivamente dura per cercare soluzioni che conducano ugualmente alla resa di Cosa Nostra a condizioni in qualche moto più accettabili per Cosa Nostra. La perdurante volontà del Governo di mantenere per i boss un regime penitenziario di assoluta durezza ha concorso alla ripresa della stagione degli attentati. Da ciò è derivata per i capi l’esigenza di riaffermare il proprio ruolo e la propria capacità di direzione anche attraverso la progettazione e l’esecuzione di attentati in grado d’indurre le Istituzioni a una tacita trattativa”.
E’ in questo documento che il termine trattativa compare per la prima volta. Che il 41 bis fosse al centro del dibattito lo ha persino dichiarato nella sua deposizione al processo trattativa Stato-mafia l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (Le stragi mafiose del ’93 si susseguirono secondo una logica unica e incalzante per mettere i pubblici poteri di fronte a degli aut aut, perché potessero avere per sbocco una richiesta di alleggerimento delle misure di custodia in carcere dei mafiosi”), segno che in ambito istituzionale si aveva questa percezione. Un dato poi confermato proprio dalle note della Dia e dello Sco a firma di Manganelli. “Verosimilmente – continua la nota di De Gennaro – la situazione di sofferenza in cui versa Cosa Nostra e la sua disperata ricerca di una sorta di soluzione politica potrebbe essersi andata a rinsaldare con interessi di altri centri di potere, oggetto di analoga aggressione da parte delle istituzioni, ed aver dato vita ad un pactum sceleris attraverso l’elaborazione di un progetto che tende a intimidire e distogliere l’attenzione dello Stato per assicurare forme d’impunità ovvero innestarsi nel processo di rinnovamento politico e istituzionale in atto nel nostro paese per condizionarlo. È chiaro che l’eventuale revoca anche solo parziale dei decreti che dispongono l’applicazione dell’Art. 41 bis, potrebbe rappresentare il primo concreto cedimento dello Stato, intimidito dalla stagione delle bombe”.
Un consiglio, quest’ultimo, che evidentemente non venne considerato dal Ministro della Giustizia Giovanni Conso che nel novembre dello stesso anno lascerà scadere il regime di 41 bis per 373 detenuti mafiosi dando luogo proprio a quel primo segnale di cedimento.

Striscione contro il 41 bis
Quella contro il 41 bis è una battaglia storica dei parenti dei detenuti che vi sono sottoposti. E’ uno dei punti del famigerato papello di Riina (il documento con le richieste di Cosa nostra, tra cui anche la “dissociazione” consegnato lnel 2009 da Massimo Ciancimino ai pm di Palermo) di cui parlò il pentito Giovanni Brusca e secondo l’accusa dei pm del processo trattativa è stato uno dei cardini di quel dialogo tra Stato e mafia che veniva condotto a colpi di bombe. Non solo. Fece scalpore nel 2002 la comparsa allo stadio di Palermo di uno striscione contro il 41 bis durante la partita Palermo-Ascoli del 22 dicembre. Ed è chiaro che oggi, con questi nuovi murales che hanno invaso la città di Milano, si vive una sorta di flash back. “Stanno comparendo diverse scritte in tutta Milano contro il 41 bis”, ha lanciato l’allarme nei giorni scorsi David Gentili, presidente della commissione antimafia del comune di Milano. “Scritte particolari – ha spiegato – bianche, a caratteri grandi, grafia incerta, ma ben studiate. L’assessore Rozza ha già dato indicazione per cancellarne tre. Segnalazioni sono giunte per Piazza Sire Raul, Piazza Maciachini e una, non specificata in zona San Siro”. Poi, l’invito ai cittadini a non far finta di non vedere. “Se ne individuate qualcuna – ha scritto Gentili – inviate a me o al Presidente di Zona, oppure all’assessore le indicazioni. Le faremo cancellare immediatamente. Per la commemorazione della Strage di Palestro, ci piacerebbe coinvolgere i cittadini stessi nel censurare con nettezza una campagna aggressiva, anonima, di sostegno ai mafiosi, che ci preoccupa. Vi prego di condividere il messaggio”.
Per la strage che causò la morte dei Vigili del Fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’Agente di Polizia Municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina vennero condannati Cosimo Lo Nigro, Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano, Gaspare Spatuzza, Luigi Giacalone, Salvatore Benigno, Antonio Scarano, Antonino Mangano e Salvatore Grigoli vennero riconosciuti come esecutori materiali.
Nel 2002, in base alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Carra e Scarano, la Procura di Firenze dispose l’arresto dei fratelli Tommaso e Giovanni Formoso (“uomini d’onore” di Misilmeri), identificati dalle indagini come coloro che aiutarono Lo Nigro nello scarico dell’esplosivo ad Arluno e che compirono materialmente la strage. Nel 2003 la Corte d’Assise di Milano condannò i fratelli Formoso all’ergastolo e tale condanna venne confermata nei due successivi gradi di giudizio.
A riaprire lo scenario della strage è stato poi il pentimento dell’ex boss di Brancaccio Gaspare Spatuzza. In particolare, Spatuzza riferì che lui, Cosimo Lo Nigro, Francesco Giuliano, Giovanni Formoso e i fratelli Vittorio e Marcello Tutino (mafiosi di Brancaccio) parteciparono ad una riunione in cui vennero decisi i gruppi che dovevano operare su Roma o Milano per compiere gli attentati. Secondo Spatuzza, Formoso e i fratelli Tutino operarono su Milano e in un primo momento lui, Lo Nigro e Giuliano li raggiunsero per aiutarli nello scarico dell’esplosivo e nel furto della Fiat Uno utilizzata nell’attentato, per poi tornare a Roma al fine di compiere gli attentati alle chiese. Spatuzza scagionò Tommaso Formoso, dichiarando che all’attentato partecipò soltanto il fratello Giovanni, che da Tommaso si era fatto prestare con una scusa la villetta di Arluno dove venne scaricato l’esplosivo ma questo non fu sufficiente per la Corte d’Assise di Brescia che rigettò la richiesta di revisione del processo allo stesso Formoso.
Lo scorso 27 giugno si è poi concluso il processo nei confronti di Marcello Tutino, che era stato accusato di essere il “basista” della strage. La Corte d’Assise ha decretato l’assoluzione “per non aver commesso il fatto” ai sensi del secondo comma dell’art.530 del codice di procedura penale (ovvero la vecchia insufficienza di prove, pre riforma).