Vai al contenuto

Giulio Cavalli

Lettera di un’iscritta PD

Un pezzo a cuore aperto di Manila Filella per Non Mi Fermo. Manila oltre ad essere dei nostri per le attività di Non Mi Fermo è dirigente PD, per dire:

Ripeto a me stessa che il Pd è costituito da tante anime, perché ognuno possa ritrovare la sua, che la pluralità e la diversità delle sue componenti siano fonte di arricchimento culturale, che la complessità e la varietà ideologica siano la sua forza.

Mi convinco che i giovani, le donne, gli omosessuali, i disabili, avranno spazio… prima o poi…
– che se studi, approfondisci, segui la linea, mantieni un profilo basso, sei corretta e leale, i colonnelli delle varie segreterie saranno meritocratici…prima o poi;
– che se non ti pieghi agli interessi delle correnti e mantieni l’onestà intellettuale, troverai dei mentori che ti faranno crescere…prima o poi;
– che se presti, umilmente, la tua competenza professionale, offri un servizio utile agli elettori e di questo ti saranno grati…prima o poi;
– che da dirigente devi essere zelante, seria e non cadere in dinamiche che ti rendono ricattabile.

A volte mi ripeto che il Pd è un partito che premia le capacità della gente di spessore (dunque mi sopravvaluto, perché non sono ancora stata “premiata”);
– che solo l’etica ed il rigore morale è criterio di scelta dei rappresentanti istituzionali del partito;
– che l’estetica, soprattutto nelle donne, è solo un valore aggiunto, e che è immorale considerarlo come primario (salvo poi rilevarlo in camera di consiglio…con grande ipocrisia).

E invece a destra, da sempre, in modo opinabile, ma coerentemente, lo si utilizza come strumento di scelta!
Mi chiedo se ho compreso realmente la linea del mio partito, se ho ancora fiducia ed in cosa mi rappresenta realmente questa compagine confusa, se i vertici della struttura crollano sul famigerato art.18, prendendo posizioni al di fuori delle logiche.
Esistono tra i parlamentari del Pd o la dirigenza interna dei colleghi avvocati giuslavoristi? E qualcuno ha mai difeso in giudizio un lavoratore licenziato? In che modo? Lasciando a casa la coscienza?

E che dire dei toni morbidi o dicotomici del mio partito sulle questioni di natura etica? Ma qualcuno nella dirigenza è mai stato scosso dalla notizia di aver cresciuto un figlio omosessuale, a cui vengono negati i diritti fondamentali? O si è mai trovato nell’impossibilità di avere dei figli, confrontandosi con il tema dello straziante percorso dell’inseminazione artificiale?

Mi sono chiesta se per il mio partito gli stranieri siano davvero un patrimonio per il nostro paese o se la loro tutela sia strumentale ad una battaglia che predica la tolleranza meramente a fini propagandistici.
Inviterei i miei colonnelli nei tribunali o nelle carceri, a sostenere le ragioni dei clandestini, o in Questura, all’ufficio immigrazione, dove la dignità della persona umana viene calpestata giornalmente, pur di ottenere un permesso di soggiorno valido.
Oppure potrei invitarli a sentire le deposizioni dei minori stuprati da genitori “normali”, in famiglie borghesi, costituite da madri e padri eterosessuali.

La ‘ndrangheta che non tollera l’amore

18 marzo 1994. Pegli, Liguria. Maria Teresa ha quarant’anni ed è innamorata. Vedova è innamorata di nuovo, come quei fiori che rinascono quando ormai sembravano destinati a seccarsi. Vedova di un ‘ndranghetista e innamorata con un figlio giovane, Francesco Alviano, che a Rosarno in Calabria si è avvicinato a gente pericolosa, negli stessi giri del padre. Maria Teresa è con sua madre Nicolina Celano e la nipote Marilena Bracali, di ventidue anni. Tre donne in casa a Pegli, scappate dalla Calabria che ha incastrato i rami della loro famiglia, fuggite dagli uomini della cosca della Piana di Gioia Tauro. Tre donne morte ammazzate quel 18 marzo del 1994 a Pegli, così troppo poco lontana per scappare. Forse parlavano d’amore mentre venivano interrotte dall’irruzione dei killer.

Il sospettato numero uno è stato proprio il figlio di Maria Teresa, Francesco. Forse lei aveva raccontato del nascondiglio del boss che era stato arrestato esattamente 24 ore prima che lei partisse come partono le persone che  sentono addosso la puzza di morto e la vendetta. Forse Francesco doveva dimostrare di avere la caratura per una buona carriera, punendo la sfrontatezza infame della madre. Già così sarebbe una storia da pelle d’oca. Ma forse è anche peggio, forse. La pentita Giuseppina Pesce (la figlia del boss Salvatore, appunto, quello che insieme ai Bellocco controlla la Piana) ha raccontato un’altra verità: Maria Teresa si era innamorata e una vedova di ‘ndrangheta non può tradire il marito nemmeno da criminale e nemmeno da morto. Si era presa la licenza d’amare senza permesso. E doveva finire così. Chissà se avremo un cuore abbastanza grande per riuscire a ricordare e raccontare anche questa storia, tra le storie che gocciolano sangue.

 

(La notizia arriva fino a El MundoUna mujer debe ser siempre fiel al marido, siempre, incluso después de su muerte. La viuda de un mafioso tiene rigurosamente prohibido volver a casarse o mantener cualquier tipo relación sentimental, y si lo hace lo pagará con la vida. Eso establece el llamado código de honor de la mafia, un compendio del machismo y la brutalidad más absolutas que, por desgracia, aún sigue en vigor. )

Quanto è vicina la camorra e San Marino

Giovanni Tizian al solito scrive un pezzo preciso (e con nomi e cognomi, come piace a noi) sull’infiltrazione camorristica nel piccolo stato a forma di neo che è San Marino. Il copione è sempre lo stesso: riciclaggio, criminalità e politica. Gabriele Gatti e Fiorenzo Stolfi sono nomi della politica sammarinese (che noi continuiamo a considerare minuscola senza tenere conto del percolato che partendo da noi finisce per stagnare lì) che da tempo risultano chiacchierati:

E’ il sistema San Marino, raccontato nelle oltre 100 pagine di relazione conclusiva della Commissione consiliare Sammarinese sulle infiltrazioni mafiose.

Istituita per la prima volta nella storia di San Marino nel luglio 2011, la commissione dotata di potere di indagine, ha ascoltato decine di testimoni. Parole che raccontano di contatti diretti e indiretti tra il boss Francesco Vallefuoco – legato alla camorra napoletana del gruppo Stolder, al clan dei Casalesi e a esponenti di Cosa nostra- e alcuni politici sammarinesi. Nomi noti e importanti della vita istituzionale locale come Gabriele Gatti e Fiorenzo Stolfi, entrambi ex ministri della piccola Repubblica e tuttora consiglieri, il primo nel Partito socialista democratico cristiano, il secondo nei socialisti democratici.

La carriera di Gatti inizia nel ’74 quando entra nel Psdc. Da oltre trent’anni siede al Consiglio Grande e Generale (il parlamento sammarinese). Nel ’90 è stato presidente del Comitato dei ministri al Consiglio europeo. Il 2008 lo vede Segretario di stato alle Finanze, diretto interlocutore del ministro Giulio Tremonti durante i tentativi di accordi bilaterali tra Italia e San Marino. E infine l’anno scorso assume la massima carica di capitano reggente per la durata di sei mesi. 

Fiorenzo Stolfi, “il ministro Fiore” è il nome in codice affibbiatogli dal boss, è consigliere in Parlamento ed ex Segretario di stato agli Esteri. I sospetti e le responsabilità la commissione li fa ricadere su di loro. Sospetti e ombre che partono da due inchieste della primavera 2011 coordinate dalle procure antimafia di Bologna e Napoli, precedute da un altro ciclone giudiziario che ha travolto il Credito Sammarinese coinvolto in una storia di riciclaggio con un narcotrafficante della ‘ndrangheta. 

Dei seri accordi bilaterali (con San Marino ma anche la Svizzera, ad esempio) sulla trasparenza bancaria e finanziaria sarebbero sane pratiche antimafia che spettano tutte alla politica e non sembrerebbero nemmeno così difficili. Perché ogni tanto sorge il dubbio che gli stati cuscinetto (quando ero piccolo li sentivo chiamare così) servano a tenere calda la testa qui, prima di tutto.

Per darsi una regolata

Lo scrive bene Pippo:

Solo che c’è un problema: perché la regolata se la doveva dare il Pd stesso medesimo a luglio in assemblea nazionale, quando chiedemmo data e regole delle primarie. E Rosy Bindi, che ora figura tra i possibili candidati, quell’ordine del giorno non lo fece votare. Fu trasformato senza il placet dei proponenti in un testo vago, sfumato, inutile.

Ed eccoci qui, a chiederci, due mesi dopo, di darci una regolata. Geniale.

Com’è geniale vociferare di primarie a doppio turno, pensando che poi tutti debbano limitarsi a due candidature.

Com’è geniale non sapere ancora di quale coalizione si tratta, perché se non c’è Vendola non c’è più nemmeno la coalizione.

E in fondo per quanto riguarda noi non si può non tenere in considerazione quello che scrive oggi Aldo Giannuli quando scrive:

Peraltro, è sin troppo ovvio che, in mancanza di una coalizione, le primarie diventano solo una sorta di congresso surrettizio con il quale Renzi cerca di scalzare Bersani. A quel punto, se congresso deve essere, tutti si misurano i muscoli per pesare nelle trattative (Civati, Boeri, Spini, Bindi, l’Anima Bella, i veltroniani, Tabacci, e, -perché no?- il mago Othelma, Cicciolina ec ecc), anche perché il sistema a doppio turno incoraggia esattamente questi comportamenti al primo. A parte il fatto che questo dà una immagine da circo equestre al Pd che, ormai, è una fricassea di partito, che ci fa l’esponente di un altro partito in questo “festival del narciso”?

Forse davvero dovremmo darci una regolata tutti: decidere se nella coalizione ci sta IDV e, se si dialoga, con chi, cosa rispondere a Foroni e gli altri 29 firmatari contro Vendola sulla questione dell’articolo 18 e che chi sostiene Monti in questo momento ci dica quale legge elettorale dovremmo aspettarci. Altrimenti sembra davvero di giocare una partita senza avere deciso quali siano le regole.

Fioroni non ci vuole

La notizia di oggi è di quelle da farti cadere dalla sedia. Pare che l’on.le Fioroni, in compagnia di una trentina di parlamentari del PD, abbia chiesto a Bersani di escludere la possibile candidatura di Vendola alle primarie di coalizione perché quest’ultimo sarebbe stato reo di aver presentato il referendum abrogativo delle scellerate modifiche all’art. 18 dello statuto dei lavoratori. In sintesi ecco il Fioroni-pensiero: “non possiamo imbarcarci chi propone di abrogare norme che abbiamo votato” .

Ne parla Francesco Arcari su Non Mi Fermo.

Contenuti e contenitori

 Anche io, personalmente, da elettore di centrosinistra senza ancora le idee chiare, vorrei che i candidati si prendessero la pena di rispondere, non solo alle domande poste dall’associazione Laicità e Diritti (qui: http://www.laicitaediritti.org/). Mi piacerebbe capire in modo chiaro che tipo di mercato del lavoro propongono (perché – per esempio – a me il “modello Ichino” convince molto poco) che tipo di rapporti intenderebbero tessere con il mondo dell’imprenditoria (perché – per esempio – mi provoca l’orticaria sentire più d’un candidato di una coalizione di centrosinistra magnificare il “modello Marchionne”), che tipo di modello di tassazione si intende perseguire (perché la Costituzione – se non sbaglio – già indica la via della progressività, che altro non è se non la declinazione del principio redistributivo della ricchezza). Giusto per iniziare. Giusto per capire. Anche perché fino ad ora queste primarie hanno parlato poco di contenuti e troppo di contenitori.

Francesco per Non Mi Fermo. E la risposta che aspettiamo per credere che le primarie siano iniziate sul serio.

Memento Rostagno semper

In questi giorni sto lavorando ad un pezzo su Mauro Rostagno (il sociologo e giornalista italiano, come lo definisce wikipedia, ucciso dalla mafia il 26 settembre 1988) per l’evento a Milano che lo vuole ricordare 24 anni dopo. In molti campi Mauro è stato un innovatore pagandone il dazio come spesso succede con l’isolamento che concima l’attentato e poi innaffia il silenzio. Appartengo ad una generazione che su Rostagno ne sa poco, che vede il ’68 come un lungo happy hour molto floreale e che ha bisogno di poche ma rassicuranti vittime di mafia. Con morti certi, assassini identificati e un certo analfabetismo sui mandanti.

Ho ritrovato un pezzo uscito su Il Manifesto ormai più di un anno fa che traccia bene della morte di Rostagno la confusione e la banalizzazione successive. Mi colpisce quella solita zona molle e grigia che una certa semplificazione anche politica oggi cerca di dissipare in questo sempiterno gioco di buoni da una parte e cattivi dall’altra, di Stato in perenne lotta contro la mafia e mai pezzi di Stato consapevolmente o meno al suo servizio. Vale la pena rileggerlo, sul serio:

In fondo, anche quella dell’uccisione di Mauro Rostagno è stata una storia semplice. Cosa Nostra uccise, nel lontano settembre 1988, a Trapani, un giornalista perché le faceva molta paura. Molti erano al corrente che questa sarebbe stata la sua sorte e si adoperarono per facilitare il compito di Cosa Nostra, prima e dopo l’uccisione.
Tra questi, diversi esponenti dell’arma dei carabinieri; magistrati; uomini politici, leader dell’opinione pubblica. Ora che, a distanza di 23 anni, si celebra finalmente un processo contro mandanti ed esecutori, alcune delle circostanze vengono fuori e confermano quanto, in Sicilia, la dissimulazione sia sempre stata un’abitudine; la menzogna ben accetta; la connivenza con la mafia ben più vasta e profonda di quanto sia logico immaginarsi. Per il lettore del manifesto, che è sicuramente già molto informato, riassumo qui alcuni passaggi simbolo della vicenda.

Mauro Rostagno: una storia semplice

SUBITO PRIMA DEL DELITTO

Nel 1988 Mauro Rostagno, una delle icone del ’68, gestisce alle porte di Trapani una comunità per il recupero di tossicodipendenti e alcolisti. A questa attività associa quella di giornalista televisivo, con trasmissioni in cui cui si parla di mafia e corruzione politica, come mai è stato fatto in Sicilia (e non sarà mai fatto dopo): nomi e cognomi, filmati, inchieste vanno in onda ogni giorno dell’emittente locale RTC con ascolti altissimi. All’inizio dell’anno Rostagno è andato dai carabinieri di Trapani a denunciare quanto ha appreso su Licio Gelli e una potentissima loggia massonica in cui convivono i capimafia, i politici e le istituzioni della città e ha ottenuto che la sua denuncia fosse trasmessa in Procura. E’ andato a Palermo a parlare di altre sue scoperte (traffico d’armi all’aeroporto di Kinisia) con il giudice Giovanni Falcone, e a Roma alla direzione del Pci.
Nel luglio 1988, Leonardo Marino, il “pentito” che i carabinieri del colonnello Umberto Bonaventura istruiscono da settimane, dichiara che Mauro Rostagno, insieme ad altri, era al corrente del delitto Calabresi avvenuto nel 1972 ad opera di Lotta Continua. L’attività antimafia di Rostagno viene così resa pubblica, la sua immagine pubblica pesantemente colpita. In tutto il lunghissimo processo Calabresi si scoprirà che, da parte degli inquirenti, non ci fu mai nulla che giustificasse quell’avviso di garanzia. Rostagno chiede inutilmente di essere interrogato. Il 26 settembre 1988 viene ucciso.

IL DELITTO

E’ un agguato in una strada di campagna. L’illuminazione pubblica è stata tagliata. L’automobile usata è stata rubata mesi prima a Palermo e subito dopo viene trovata bruciata. Per la polizia, guidata dal vicequestore Rino Germanà capo della Squadra mobile, ovviamente si tratta di un delitto di mafia. Movente: far tacere Rostagno. Per i carabinieri di Trapani, invece, la mafia non c’entra per nulla. Rostagno è rimasto vittima di spacciatori di droga, oppure di una faccenda di corna. Per la magistratura di Trapani, in città la mafia non esiste (e dire che tre anni prima a venti chilometri di distanza è stata scoperta la raffineria d’eroina più grande d’Europa). All’obitorio, i carabinieri diffondono la voce che nella macchina di Rostagno c’erano rotoli di dollari e siringhe per eroina.

A TRAPANI, SUBITO DOPO

Il capitano dei carabinieri Elio Dell’Anna del Reparto Operativo invia alla procura trapanese un rapporto riservato in cui afferma che il giudice istruttore Lombardi (inchiesta per il delitto Calabresi) gli ha comunicato, a Milano, che «il Rostagno era al corrente di tutte le motivazioni, compresi esecutori e mandanti, concernenti l’omicidio Calabresi; il Rostagno aveva rotto i ponti con i suoi ex compagni di lotta e forse aveva intenzione di dire la verità».
La sua informativa verrà riscontrata come falsa.

A MILANO, CINQUE ANNI DOPO

Nel novembre del 1993 al processo d’appello per l’omicidio Calabresi (dove Sofri. Bompressi e Pietrostefani verranno assolti), l’avvocato di parte civile Luigi Ligotti dichiara: «… Mauro Rostagno non è morto per lupara … è stato fatto tacere dai suoi compagni di un tempo, loro sì mafiosi». (Luigi Li Gotti diventerà poi senatore per l’Italia dei Valori e sottosegretario alla Giustizia nel secondo governo Prodi).

A TRAPANI, OTTO ANNI DOPO

Il procuratore capo Gianfranco Garofalo convoca, gioioso e spavaldo, una conferenza stampa per annunciare la risoluzione del «caso Rostagno». L’ha fatto uccidere la sua compagna Chicca Roveri, che viene arrestata come mandante, per questioni adulterio, gelosie e traffici di droga. «Cosa Nostra non doveva essere gratuitamente incolpata» afferma solennemente. La sua inchiesta crolla miseramente in due settimane, ma questo non impedisce la pubblicazione di un libro di un certo successo: «Rostagno, un delitto in famiglia», edizioni Mondadori.
Se l’iniziativa del procuratore fosse ispirata alla malafede, o semplicemente frutto della sua vanità, o della sua insipienza, ancora oggi non è dato sapere.

A PALERMO, DICIANNOVE ANNI DOPO

Il pubblico ministero Antonio Ingroia chiede il rinvio a giudizio di Vincenzo Virga, capo mafia di Trapani come mandante dell’omicidio; e di Vito Mazzara, suo killer di fiducia, come esecutore. L’accusa presenta una inequivocabile perizia balistica; rivela il movente attraverso le dichiarazioni dei maggiori esponenti di Cosa nostra (Brusca,Siino, Sinacori); rivela che l’uomo che tagliò la luce quella sera, tale Vincenzo Mastrantonio operaio Enel e autista di Virga, venne ucciso nel 1989 «perché sapeva troppo». Mostra che le armi in dotazione a Mazzara hanno ucciso altre persone, oltre a Rostagno.
Ricorda che il filone giusto fu quello della polizia di Stato, che subito indicò la pista mafiosa e che Rino Germanà fu oggetto di un attentato nel 1992, dal quale si salvò con coraggio rispondendo al fuoco. Per quanto riguarda Vincenzo Virga, egli è un ex contadino diventato imprenditore, monopolista del cemento trapanese, proprietario della più grande gioielleria della città. Sodale di Marcello Dell’Utri, per cui agisce come «recupero crediti»; fondatore del primo club di Forza Italia, latitante dal 1994, in carcere dal 2001.
All’udienza di ieri sono stati ascoltati l’allora capo del reparto operativo dei Carabinieri di Trapani, oggi generale, Nazareno Montanti e l’allora brigadiere dei CC, oggi responsabile degli stessi a Buseto Palizzolo (Tp), Beniamino Cannas.
Non si ricordavano quasi nulla, nemmeno le cose che si ricordano tutti.
Anche per loro era stata una storia piuttosto semplice. Routine.

La sindrome primaria per le primarie

L’appariscenza perfetta: Michele: No veramente non… non mi va. Ho anche un mezzo appuntamento al bar con gli altri. Senti, ma che tipo di festa è? Non è che alle dieci state tutti a ballare i girotondi ed io sto buttato in un angolo… no. Ah no, se si balla non vengo. No, allora non vengo. Che dici vengo? Mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente? Vengo. Vengo e mi metto, così, vicino a una finestra, di profilo, in controluce. Voi mi fate “Michele vieni di là con noi, dai” ed io “andate, andate, vi raggiungo dopo”. Vengo, ci vediamo là. No, non mi va, non vengo. (Ecce bombo, 1978, di Nanni Moretti)