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Giulio Cavalli

Il diavolo e un angelo sul marciapiede di Milano

La politica della paura negli scorsi anni voleva militalizzare le periferie, se l’era presa con i negozi di kebab o di money transfert, aveva messo il coprifuoco proprio dove abito io. Perché, si sa, è lì che alligna il male. Ora ha già cambiato idea. Alza il tiro, con quella grevità becera che non aiuta a leggere il territorio. Paragona Milano a Scampia, comparazione indegna che non spiega né risolve nulla. Perché l’omicidio di lunedì scorso ci dice ben altro.

Quello che abbiamo scoperto è che nessuno è davvero al riparo. Si può morire a qualunque ora del giorno, dappertutto. Si può morire nel centro di una metropoli, quale è Milano, o, come è accaduto in Alta Savoia, sulle amene rive di un lago alpino. Il Diavolo abita ovunque. Anche qui. Esco dal bar. A pochi metri dal luogo del delitto una libreria espone un’intera vetrina di gialli scandinavi. Fettucce di plastica gialla, quelle che delimitano le scene dei delitti, ornano la vetrina con involontario pessimo gusto. Fanno tenerezza questi omicidi di carta, concilianti, indolori, consolatori, completamente avulsi dal mondo vero che fingono di raccontare. Pochi passi più in là, al numero 3 di via Muratori, il sangue è stato lavato, restano a terra pallidi cerchi fatti col gesso dalla scientifica. “Chi è stato?” mi viene chiesto. Non lo so, insisto. Scerbanenco comunque non avrebbe dubbi: i milanesi ammazzano al sabato. Ieri era lunedì, è sicuramente gente che viene da fuori. Poi lo vedo. Un fiore, legato con un nastro sull’archetto metallico. Un piccolo anonimo gesto di pietà, per le vittime e per la bambina sopravissuta, vittima anch’essa. Quello che cercavo (dove c’è il Diavolo c’è sempre un Angelo): il segno che Milano, anche se di corsa, non sa essere indifferente. Mai. (Gianni Biondillo su Nazione Indiana)

Serve il coraggio, in Lombardia

Ci vuole coraggio. Scegliere di provare a scostarsi dal luogo di osservazione dove per comodità si sono ammassati tutti come comari e provare a guardare la Regione Lombardia con occhi nuovi: dalle strade, dalle piazze e in mezzo ai presìdi, tra la gente, per dire. E forse sarebbe anche ora di provare a rivendicare il primato di questa politica così bistrattata, millantata e stropicciata da interessi minuscoli di botteghe coagulate da venti anni di mani sottobanco e sempre anticipata dall’intervento di una magistratura che fotografa le macerie di un sistema politico che è diventato schiavo delle sue maschere.

La crisi del formigonismo non è una crisi giudiziaria, su questo dobbiamo metterci d’accordo per non cadere nella tentazione di accettare un modello politico che nasce antisolidale al di là degli eventuali illeciti dei propri interpreti: oggi in Lombardia (e non solo) la crisi è profondamente politica, è il fallimento del potere che vuole diventare sistema e finisce per alimentare oligarchie, diseguaglianze e disgregazione sociale.

Nella sanità le vicende del San Raffaele, prima ancora della clinica Santa Rita e per ultime quelle che riguardano la Fondazione Maugeri raccontano di una discrezionalità del Governatore (esercitata con “le carte a posto”) che ha finanziato lautamente servizi ai cittadini che oggi rischiano di risultare compromessi per mala gestione privata: una spaventosa ricaduta pubblica causata dalla dissennatezza privata mostra il fianco di un’architettura organizzativa che scarica i costi e le colpe sulla comunità. Nel caso del San Raffaele qualche giorno fa l’Assessore Bresciani ha avuto modo di dirci in Commissione Sanità che “la faccenda occupazionale non riguarda la Regione essendo una struttura sostanzialmente privata” e la difesa patetica svela perfettamente l’inceppamento che ha incagliato il motore della Lombardia: il denaro dei cittadini lombardi viene affidato a strutture private e le responsabilità politiche possono finire tranquillamente in un cassetto. Senza risposte. Senza assunzioni di responsabilità. Senza spiegazioni.

E credo non sia un caso che proprio in Lombardia stiano spuntando torbide figure professionali con evidente “peso politico” che sono proprie di tempi che si speravano passati. Nel processo Andreotti c’è un’interessante deposizione di Tommaso Buscetta che racconta una Sicilia dove politica, imprenditoria e Cosa Nostra si incontrano, ognuno con la propria spericolatezza, nella penombra degli interessi convergenti che soddisfano tutti. Dice Buscetta che i protagonisti di questo sistema che vive più tra le pieghe che nei luoghi ufficiali sono “gli amici degli amici”, quelli che “in ogni momento possono fare capire di essere vicino alla gente che conta”. Quando saltano i meccanismi di trasparenza e democrazia (ovvero quando la politica decide di essere socia d’impresa) i “faccendieri” sono gli anelli di congiunzione dei poteri che hanno bisogno di mettersi d’accordo. Per questo la vicenda Daccò è una storia intollerabile per il malcostume che rappresenta, al di là delle ricevute e delle barche di lusso.

Sotto la gonna della sussidiarietà sventolata da Formigoni e la sua banda c’è la solidarietà svenduta per poche lire ai soliti noti. Succede nella sanità, nella scuola, nei grandi appalti delle inutili infrastrutture, nella gestione del territorio nel consenso ammansito dalle periodiche regalie.

E allora ci vuole coraggio. Ci vuole anche il coraggio di porre le domande giuste. Una volta per tutte.

I soldi dati in questi anni alla sanità e alla scuola privata avrebbero costruito eccellenze pubbliche di cui essere fieri tutti e non qualche cerchia? Una seria legge sul consumo di suolo avrebbe impedito i PGT costruiti su misura per insoliti noti come la vicenda Ponzoni insegna? Un chiaro piano industriale regionale potrebbe evitare i soliti disperati e inefficaci interventi tampone? È possibile uscire dal linguaggio delle cose e tornare alle persone? Smettere di parlare di lavoro senza tenere conto dei lavoratori? Spogliare il PIL regionale su cui tutti si immolano dal doping del riciclaggio? Svincolare la cura dal profitto e tornare ad investire sulla prevenzione? Ricostruire una sanità ormai ospedalocentrica partendo dai presidi di medicina di base nei territori? Pensare ad una mobilità dolce che non abbia bisogno di più cemento ma di trasporto pubblico? Chiedere cultura, pretendere cultura, rivendicare il valore d’impresa e occupazione che sta dietro alla cultura? Occuparsi dell’accesso alla rete in zone con mastodontiche tangenziali e senza banda larga? Dirsi che i diritti civili sono di solito i diritti degli altri?

Ci vuole coraggio. Ci vuole il coraggio di riconoscere che il centrosinistra ha fallito perché troppo spesso ha inseguito i formigonismo di maniera volendo solo sostituire gli interpreti (ne è un esempio chiaro il penatismo che si è saputo pensare solo sistematico e sistemistico allo stesso modo con la sola differenza di essere fallimentare anche dal punto di vista elettorale). Ci vuole il coraggio di non sopportare più chi propone lo stesso modello promettendo una gestione più etica. Ci vuole il coraggio di dichiarare (alzando la voce, se serve) che un’alternativa si costruisce solo percorrendo le diversità, con compagni di viaggio che vogliano arrivare là dov’è il posto che ci prendiamo la briga di raccontare e volere raggiungere. E ci vuole il coraggio di rinunciare all’autopreservazione a mezzo di alchimie algebriche, alleanze matematiche più che di intenti e riciclaggio di facce che hanno già avuto l’occasione e l’hanno persa, ci vuole il coraggio di uscire da un centrosinistra con cinquanta sfumature di grigio che corteggia pornograficamente le segreterie prima dei cittadini.

Noi siamo in viaggio. Questo è il nostro viaggio. Il viaggio nel coraggio di sinistra che ancora è diffusa in tutte le città della Lombardia.

Scritto per MilanoX

Due parole a De Corato

Sull’emergenza criminalità che ogni volta accende le speculazioni politiche non ho potuto esimermi dal rispondere alle bassezze intellettuali di De Corato e la sua banda. Qui il video:

La lezione olandese

Sarà che ci avevo visto giusto quando dicevo che la lezione olandese merita di essere seguita con attenzione ed analisi. Perché ora Roemer parla di sinistra, di Europa e soprattutto di alleanze. La responsabilità di dire cose di sinistra (senza cadere nelle facilonerie, ovvio) nel momento di crisi del liberismo è un imperativo che sembra essere più virale di quanto si pensi. E le nostre indecisioni e strategie sembrano ancora più incomprensibili mettendo il naso fuori dai confini nazionali e ascoltando la campagna elettorale olandese. Come racconta anche L’Espresso:

Ci sono un paio di cose da cambiare», afferma il leader socialista. «La principale è avere sul tavolo un’agenda sociale per l’Olanda e per l’Europa. Questa, adesso, è l’Europa per i mercati finanziari, per le grandi società, non è più l’Europa per le persone. Dobbiamo pensare che c’è una via sociale per uscire dalla crisi, dobbiamo avere la possibilità di dimostrare che esiste la possibilità di produrre lavoro, soprattutto per i giovani, di avere diritti sociali, buona sanità e buona istruzione e si può fare pagando tutti, non schiacciando il peso della crisi sulla pelle dei poveri». 

La sua ricetta è fatta di tasse più alte per i ricchi e per le società, rispettivamente al 65 per cento ed al 30 per cento, «cioè ai livelli di altri paesi europei», e di 3 miliardi di investimenti pubblici in infrastrutture. «Bisogna fare, non parlare». Quanto a parlare, ripete spesso la parola “solidarietà”, ma come un prodotto per la casa, non di esportazione. «Altri soldi alla Grecia? Non è una soluzione, negli ultimi mesi glieli abbiamo dati varie volte e le cose non stanno andando meglio. La Grecia ha bisogno di più tempo, non di più soldi». Spagna e Italia hanno invece bisogno di consolidare i conti pubblici e «di una Bce più attiva nel mercato dei titoli, è l’unico modo per abbattere le speculazioni e andare avanti». Sostegno quindi a Mario Draghi nel suo braccio di ferro con la Bundesbank. Quanto a Mario Monti, sospira, sorride e allarga le braccia: non è il suo tipo, glielo si legge in faccia. 

Il problema per Roemer è proprio quello delle alleanze, fuori e dentro l’Olanda. «Vedremo cosa succederà», conclude pensando al 12 settembre. «Io voglio un governo il più di sinistra possibile, voglio una risposta sociale alla crisi, non andrò al governo con nessun politico di destra e un’agenda liberale. E vorrei lavorare in Europa con altri governi socialisti». Merce rara.

Provate sempre a riparare il mondo

“È un tempo, questo, in cui non passa giorno senza che si getti qualche pietra sull’impegno pubblico, specie politico. Troppa è la corruzione, la falsità, il trionfo dell’apparenza e della volgarità. Troppo accreditati i finti rinnovamenti, moralismi abusivi, demagogia e semplicismo. Troppo evidente la carica di eversione e deviazione che caratterizza mansioni che dovevano essere di estrema responsabilità. Troppo tracotanti si riaffacciano durezza sociale, logica del più forte, competizione selvaggia”.

Lo dice nel 1991 Alexander Langer, uno dei promotori del pensiero “verde” europeo attento alle fragilità e all’opportunità che sta dietro alle debolezze.

“Sinora si è agito all’insegna del motto olimpico citius, altius, fortius (più veloce, più alto, più forte), che meglio di ogni altra sintesi rappresenta la quintessenza dello spirito della nostra civiltà, dove l’agonismo e la competizione non sono la nobilitazione sportiva di occasioni di festa, bensì la norma quotidiana e onnipervadente. Se non si radica una concezione alternativa, che potremmo forse sintetizzare, al contrario, in lentius, profundius, suavius (più lento, più profondo, più dolce), e se non si cerca in quella prospettiva il nuovo benessere, nessun singolo provvedimento, per quanto razionale, sarà al riparo dall’essere ostinatamente osteggiato, eluso o semplicemente disatteso”.

Luca Sofri lo racconta per Repubblica. Ed è archeologia sana e indispensabile di questi tempi.

Caro Marchionne ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte prenderanno le dovute distanze.

Silvia adesso lotta contro la chiusura dell’Irisbus perchè, a fine anno, dalla Cig dovrà passare alla mobilità in assenza di un progetto industriale. E la mobilità dura solo due anni. Con gli altri colleghi operai ha preso contatti con la BredaMenariniBus, l’unica fabbrica italiana di autobus urbani (l’Irisbus, una volta Iveco, produceva pullman), per tentare una vertenza collettiva. Sono convinti che il piano di sviluppo per l’Italia passi anche per la ristrutturazione ed il miglioramento del trasporto pubblico. Silvia è splendidamente raccontata da Marika Borrelli. E ha deciso di scrivere a Marchionne:

Caro Sergio Marchionne,

anche se con molto ritardo, ritengo sia giunto il momento di rispondere alla sua lettera, inviatami il 9 luglio 2010. Vorrei tanto poterla incontrare perché ho delle domande da porle e, soprattutto, vorrei cercare di capire dov’è finito l’uomo che ci disse: «Scrivere una lettera è una cosa che si fa raramente e solo con le persone alle quali si tiene veramente. Vi scrivo prima di tutto come persona, prendete questa lettera come un modo più diretto e più umano che conosco».

So che non è sua abitudine interloquire con chi ha di fronte, che non ama il confronto né il conflitto; mentre io penso che alla base di ogni rapporto ci sia prima il confronto e, se necessario, anche un sano conflitto per poter raggiungere degli obiettivi.
DA 30 ANNI IN FABBRICA. Io in fabbrica ci sto da 30 anni, ho svolto tantissimi lavori e ho contribuito, senza presunzione, ai profitti dell’azienda. Ecco perché mi sembra irrispettoso da parte sua togliermi il lavoro che ho svolto sempre con il massimo impegno e continuità, nonostante i tanti disagi.
Se era vero che teneva a noi, perché ha cambiato idea? Un uomo, quando fa delle scelte così difficili, deve avere il coraggio di guardare negli occhi coloro che ne pagheranno le conseguenze, altrimenti è solo un codardo.
Come mamma, anche io ho dovuto guardare negli occhi i miei figli per dire loro che le cose sono cambiate e che bisogna essere pronti a fare enormi sacrifici. Ma anche che dobbiamo resistere e rimanere insieme, perché restare uniti nei momenti di difficoltà è la sola cosa che aiuta.
OPERAI SENZA ALTERNATIVA. Lei non ha voluto fare questo sforzo. Non ha atteso che passasse la bufera. Ha gettato la spugna cercando di mettersi al sicuro. Troppo semplice così: i veri eroi sono quelli che resistono soprattutto nei momenti di difficoltà. Ma lei l’alternativa l’aveva, noi no.
«Vi scrivo da uomo», continuava la sua lettera, «che ha creduto e crede ancora fortemente che abbiamo la possibilità di costruire insieme, in Italia, qualcosa di grande, di migliore e di duraturo. Perché la cosa peggiore di un sistema industriale, quando non è in grado di competere, è che alla fine sono i lavoratori a pagarne direttamente e senza colpa, le conseguenze». Perché ha dimenticato tutto questo? E il fatto che nelle fabbriche c’erano uomini e donne, ognuno con una propria storia e con una famiglia e dei figli da mantenere?
Senza rancore, le chiedo di avere l’umiltà di ammettere che ha fallito. Il suo piano di Fabbrica Italia ha seminato un numero indefinito di disoccupati; 50enni senza pensione e giovani senza futuro.
LO SPETTRO DEGLI SPECULATORI. L’Italia, Paese che lei dice di amare, resterà probabilmente senza la Fiat e, se il governo non interviene, rischiamo di finire in mano agli speculatori che vorranno appropriarsi solo dei nostri marchi.
Se l’obiettivo era quello di abbassare il costo del lavoro, forse l’ha ottenuto. Noi saremo, in futuro, il Paese in cui sarà più utile investire. Una volta affamati non saremo più liberi di poter scegliere e se avremo un lavoro sarà senza diritti e a basso salario.
Eppure lei scriveva: «Non abbiamo intenzione di toccare nessuno dei vostri diritti, non stiamo violando alcuna legge. Quello che stiamo facendo è tutelare il lavoro, proprio quel lavoro su cui è fondata la Repubblica italiana. Non c’è nessuna contrapposizione tra azienda e lavoratori, sappiamo bene che la forza di un’organizzazione arriva dalle persone che ci lavorano e lo avete dimostrato nel 2004 salvando la Fiat dall’orlo del fallimento». E continuava: «Quello di cui c’è bisogno è un grande sforzo collettivo, una specie di patto sociale per condividere gli impegni, le responsabilità e i sacrifici. È il momento di guardare al bene comune e di lasciare da parte gli interessi particolari. Sono convinto che anche voi, come me, vogliate per i nostri figli e per i nostri nipoti un futuro diverso e migliore».
LA CHIUSURA DELLO STABILIMENTO. Noi quei sacrifici li stavamo facendo, avendo accettato la sfida. Lei invece ha inevaso tutte le promesse, chiudendo il nostro stabilimento. Sottolineo nostro perché ritengo che la Fiat, proprio per i motivi da lei citati, sia anche nostra.
Le parole scritte nella sua lettera hanno un acre sapore di postumo. Resta l’amarezza di non avere avuto il diritto di replica.
Ma anche per lei non si prospettano momenti sereni. Ci sarà un tempo in cui tutti coloro che hanno avallato le sue scelte e l’hanno osannata in parlamento nel febbraio del 2011, prenderanno le dovute distanze. La storia ci insegna che questa, in Italia, è una pratica molto diffusa.

Silvia Curcio operaia Irisbus

Lunedì, 03 Settembre 2012 

«Auguriamo a Vendola possa rimanere incinta lui o la sua dolce metà»

Il deputato leghista Torazzi durante l’ostruzionismo leghista in aula al decreto sull’Ilva: «Auguriamo a Vendola possa rimanere incinta lui o la sua dolce metà».

E’ la Lega ripulita di Maroni, quella di #primailnord, quella che non doveva più lasciarsi andare a xenofobia o urla o battute. E ha lo stesso odore di un branco di cani bavosi che provano a volare ma hanno solo le ali da polli.

E poi ci vengono a dire che la questione dei diritti in Italia sta facendo passi in avanti. Che se ne può discutere. Che non ci sono preconcetti. E che non sono fondamentali per cambiare la cultura di questo Paese. Così intriso di subcultura di “bassa Lega”.

#cosaseria con le figure: in Francia

Per interessante info storica, un cronogramma (fonte: Le Monde) del “potere” Francese (Dipartimenti, Regioni, Senato, Assemblea Nazionale e Presidente della Repubblica) dal 1958 (De Gaulle) all’odierno poker di sinistra da Hollande in giù.

‘Ndrangheta in Lombardia: operazione “Ulisse”. Facciamo il punto.

L’omertà

Il dato sconfortante che emerge dallo sviluppo delle inchieste Infinito e Crimine, e che ha portato oggi all’esecuzione di 37 ordinanze di custodia cautelare volte a smantellare le cosche di ‘ndrangheta radicate tra Milano e Monza, è sempre lo stesso: l’omertà degli imprenditori vittime di estorsione e usura. Piuttosto a dare un contributo fondamentale alle indagini, da quanto trapela da ambienti investigativi, è arrivato da un nuovo pentito. Si tratta di Michael Panaija, 37enne arrestato l’11 aprile 2011 perché ritenuto uno dei responsabili dell’omicidio di Carmelo Novella, il capo della “Provincia” lombarda (l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta in Lombardia) ucciso il 14 luglio 2008 a San Vittore Olona perché voleva la scissione dalle cosche calabresi. A farne il nome come uno dei presunti esecutori era stato il collaboratore di giustizia Antonino Belnome. Era stato lui a snocciolare il suo e i nomi di altre 18 persone arrestate nel 2011 perché avrebbero avuto un ruolo – come mandanti, come esecutori, come fiancheggiatori, o come basisti – nell’omicidio Novella e in altri tre omicidi commessi nell’ambito delle guerre interne alla ‘ndrangheta per il predominio sul territorio e come ritorsione per i fatti di sangue. Si tratta dell’omicidio di Rocco Cristello, avvenuto il 27 marzo 2008 a Verano Brianza; di quello di Antonio Tedesco, ucciso il 27 aprile 2009 a Bregano, il cui corpo è stato trovato mummificato sotto due metri di calce e terra in un maneggio (è stato riconosciuto da una catena d’oro) ; e di quello di Rocco Stagno, fratello del più potente Antonio Stagno, avvenuto il 29 marzo 2010 in un cascinale a Bernate Ticino, il cui cadavere invece non è ancora stato trovato. Ora Panaija risulta aver svelato dettagli sulla reazione delle cosche lombarde dopo il maxi blitz che a Milano, nel luglio 2010, aveva portato all’arresto di oltre 170 persone, 110 delle quali già condannate con rito abbreviato. Le cosche di Giussano e Seregno avrebbero proseguito sia i traffici di droga, sia le estorsioni e lo strozzinaggio di piccoli imprenditori locali, soprattutto di origine calabrese. Oggi in manette sono finiti Ulisse Panetta, il presunto boss proprio della locale di Giussano, e alcuni appartenenti alle famiglie Cristello e Corigliano. L’inchiesta è coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini e dai pm Alessandra Dolci e Cecilia Vassena. Le ordinanze sono firmate dal gip Andrea Ghinetti.

Le estorsioni e i nomi

Le accuse per i 37 indagati arrestati stamani dai carabinieri del Ros a Milano e provincia sono di associazione mafiosa, porto e detenzione illegale di armi (Kalashnikov, mitragliette Uzi, bombe a mano), usura ed estorsione, aggravati dalle finalita’ mafiose. I provvedimenti di custodia cautelare scaturiscono da diversi filoni investigativi avviati dal Ros a seguito dell’indagine ‘Crimine’ che ha portato nell’aprile 2011 all’arresto di 11 affiliati alle ‘ndrine di Seregno e Giussano. Tra questi c’erano anche gli autori dell’omicidio di Rocco Cristello, Carmelo Novella, Antonio Tedesco e Rocco Stagno, tutti commessi in Lombardia tra il 2008 e il 2010 nell’ambito delle faide tra le cosche Gallace e Novella di Guardavalle (Catanzaro). Le indagini hanno svelato le attivita’ delle cosche al Nord: traffico di droga, usura ed estorsioni. Numerosi gli episodi di questo tipo raccolti dai militari. A partire dal 2007, quando le vittime dell’estorsione furono i titolari della concessionaria di auto ‘Selagip 2000′ di Giussano, a cui venne chiesto il pagamento di 500mila euro dopo minacce, telefonate minatorie, attentati incendiari, e l’esplosione di colpi di pistola contro le vetrine. E’ del 2010, invece, quella nei confronti di Domenicantonio Fratea, imprenditore nel settore immobiliare e titolare di una bar a Giussano. A lui vennero chiesti 80mila euro con la medesima modalita’ intimidatoria. La lista prosegue con Roberto Gioffre’, titolare di una sala giochi che alla fine del 2010 fu costretto a rinunciare a un credito di 70mila euro, che vantava nei confronti di alcuni affiliati, dopo numerose minacce. Infine, Stefano Sironi, imprenditore edile di Giussano, costretto a riconoscere interessi esorbitanti sulle somme prestate dalla cosca.

Il ruolo di Ulisse Panetta a Giussano

Dall’agosto 2010, in seguito al maxi blitz delle operazioni Infinito e Crimine che il mese prima avevano portato all’arresto di circa 300 persone in Lombardia e in Calabria, è Ulisse Panetta ad assumere il comando dell’associazione mafiosa facente capo alla locale di Giussano in qualità di vice di Michael Panaija, arrestato l’11 aprile 2011. Lo scrive il gip Andrea Ghinetti nell’ordinanza di arresto che oggi ha colpito lo stesso Panetta e altre 36 persone. Dall’agosto 2010, si riassume nel capo di imputazione, Panetta fa carriera. Già “in possesso della dote del vangelo, dapprima ‘contabile’ e ‘mastro di giornata’, quindi, dopo l’arresto di Belnome, ‘capo società’, diventa il “capo e organizzatore” della locale di Giussano. Di conseguenza, “sovrintende alla gestione dell’armamento in dotazione della locale, comprensivo di armi corte, lunghe, esplosivo e munizionamento, parte del quale è stato a lui sequestrato nel febbraio 2012, alla scelta del luogo di occultamento ed alla individuazione delle persone deputate di volta in volta a servirsene. Mantiene i contatti con gli esponenti delle famiglie di riferimento in Calabria, mandando e ricevendo ‘ambasciate’. Provvede a mantenere i contatti con le famiglie degli arrestati della locale sia a seguito degli arresti del luglio 2010, sia di quelli dell’aprile 2011. Partecipa ai summit sopra indicati nel corso dei quali vengono conferiti a lui stesso e ad altri doti e cariche. Partecipa alla pianificazione delle attività criminali della locale percependone anche parte dei proventi”. Antonino Belnome è il pentito che per primo ha fatto luce sull’omicidio di Carmelo Novella, ex capo della “Lombardia”, l’organismo che riuniva tutte le locali di ‘ndrangheta nella regione.

Il bunker

Una botola nascosta nel pavimento della cucina, con un perfetto meccanismo di apertura telecomandata. Un bunker in piena regola per scappare ai blitz della forze dell’ordine, identico a quelli di ‘ndranghetisti latitanti dell’Aspromonte. La novita’ e’ che il nascondiglio si trovava nel profondo Nord, a Giussano, piccolo comune della Brianza. Per la precisione in via Boito 23, dove il boss Antonio Stagno, di 44 anni, originario di Giussano e attualmente detenuto nel carcere di Opera per altri motivi, aveva la sua residenza. Si tratta di un vero e proprio bunker con una parete mobile che si aziona con un telecomando – ha spiegato il pm della Dda di Milano, Alessandra Dolci – come quelli che siamo soliti trovare in realta’ come San Luca o Plati’. Per gli investigatori e’ un dato molto importante perche’ dimostra l’ulteriore passo in avanti della ‘ndrangheta al Nord, ormai cosi’ a proprio agio da esportare tecniche ritenute esclusiva delle zone d’origine. Il procuratore aggiunto del Tribunale di Milano, Ilda Boccassini, ha aggiunto che questo e’ momento di cambiamento per le ‘ndrine, con i giovani che stanno prendendo il posto degli ”anziani”. Nonostante cio’, pero’, resistono le tradizioni come quella dei bunker, di cui i calabresi sono considerati esperti costruttori.

Le minacce: i coltelli al ristorante

Rocco mi punto’ contro anche un coltello, il coltello da tavola del ristorante”. Cosi’ una delle ‘vittime’ delle estorsioni messe in atto dalle cosche della ‘ndrangheta di Giussano e Seregno, in Brianza, smantellate oggi con l’operazione ‘Ulisse’ condotta dai carabinieri del Ros, ha raccontato agli inquirenti della Dda di Milano l’ ‘umiliazione’ che subi’ quando nella sala di un locale venne preso anche a ”pugni e schiaffi al volto da parte di quasi tutti i commensali”, tra cui il presunto boss del clan di Seregno, Rocco Cristello, uno dei 37 arrestati. Nelle oltre 230 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare, infatti, viene riportato anche il ‘capitolo’ della ”estorsione nei confronti di Gioffre’ Roberto”, ovvero le ”modalita’ estorsive attraverso le quali i due maggiori esponenti della locale di Seregno, ovvero Cristello Rocco e Formica Claudio (rispettivamente capo locale e capo societa’) si ‘appropriarono’ del locale chiamato ‘Casino’ Royale’ di Paina di Giussano, piu’ volte emerso nell’indagine ‘Infinito’ come luogo abituale di appuntamento degli affiliati”. La ‘vittima’ dell’estorsione, l’imprenditore Roberto Gioffre’, ha spiegato nella sua denuncia e nelle sommarie informazioni ai pm di aver dovuto incontrare nel 2009 in un ristorante di Seregno i presunti boss per cercare di ‘resistere’ alle vessazioni. ”Gioffre’ – scrive il gip Andrea Ghinetti – si reco’ all’appuntamento accompagnato dal fratello Francesco, consigliere comunale a Seregno”.

Appena entrati nel locale, Gioffre’ venne aggredito da Rocco Cristello che gli grido’: ”tu sei un pezzo di m…”. L’imprenditore disse agli uomini del clan che non avrebbe consegnato i ”50 mila euro” richiesti e per tutta risposta venne preso a ”pugni e schiaffi” al tavolo del ristorante. Poi il coltello puntato contro che fece reagire il fratello di Gioffre’, consigliere comunale. Cristello Rocco a quel punto, ha raccontato Gioffre’, ”lancio’ un’occhiata eloquente a mio fratello dicendogli ‘Franco, fatti i cazzi tuoi’, frase che fece desistere mio fratello”. L’importo totale ”di denaro” estorto a Gioffre’, sintetizza il gip, ”ammonta a 70 mila euro”. E’ questo l’unico dei 4 episodi di usura ed estorsione riportati nell’ordinanza nel quale la ‘vittima’ ha denunciato le vessazioni subite dai clan della ‘ndrangheta. Negli altri casi, invece, come si legge nell’ordinanza, gli imprenditori si limitavano al massimo a pronunciare al telefono, intercettati, frasi come ”mi hanno condannato a morte mi hanno detto (…) sono un morto che cammina”. Uno dei pentiti ‘chiave’ delle indagini di ‘ndrangheta degli ultimi mesi in Lombardia, Antonino Belnome, ha spiegato a verbale ai pm della Dda di Milano che ”la scelta delle persone da sottoporre ad estorsione nel territorio lombardo ricadeva quasi sempre (…) su imprenditori di origine calabrese in quanto maggiormente inclini per mentalita’ a sottostare alle richieste estorsive senza coinvolgere le forze dell’ordine”. Non solo, spiega ancora il gip riportando le parole di Belnome, ”le vittime, di solito e per risalente consuetudine, si rivolgono ad esponenti della criminalita’ organizzata del paese d’origine perche’ svolgano un ruolo di mediazione (e non gratis, ovviamente)”.

Il politico che nega

Francesco Gioffre’, consigliere comunale di Seregno (Milano), con un atteggiamento ”vicino alla connivenza”, tento’ ”di minimizzare” con le sue dichiarazioni agli inquirenti le minacce subite dal fratello Roberto, vittima di estorsione da parte della cosca della ‘ndrangheta dei Cristello. Lo scrive il gip di Milano, Andrea Ghinetti, nell’ordinanza di custodia cautelare a carico di 37 persone, eseguita oggi da carabinieri del Ros e del comando provinciale. ”Un discorso a parte – scrive il gip – meritano le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, opaco fratello della vittima ed unica ‘voce fuori dal coro’ il quale, sentito a s. i.t. (sommarie informazioni testimoniali, ndr) il 26 aprile 2011, pur ammettendo di conoscere i fratelli Rocco e Francesco Cristello (che sostiene di avere aiutato per una pratica presso il comune nel quale egli stesso e’ consigliere comunale), ha tentato in ogni modo di minimizzare la portata dei fatti giungendo quasi a prendere le difese dei Cristello, sino al punto di dirsi estremamente stupito nell’apprendere la notizia del loro arresto del luglio del 2010”, nell’ambito del maxi-blitz ‘Infinito’. ”E’ di tutta evidenza – si legge ancora nell’ordinanza – alla luce delle risultanze investigative sopra esposte, che le dichiarazioni di Gioffre’ Francesco, nella parte in cui contrastano con quelle del fratello Roberto, non possono ritenersi credibili ma debbono al contrario essere inquadrate nel medesimo clima di intimidazione del quale e’ stato vittima anche Roberto Gioffre’, che ha evidentemente portato i due fratelli a reagire in modo diametralmente opposto”. Mentre uno dei due fratelli Roberto ”ha scelto di denunciare i fatti con rischio personale che lo ha portato a temere talmente tanto per se’ e per i suoi familiari da decidere di lasciare il Paese per trasferirsi all’estero, il politico locale Gioffre’ Francesco ha fatto una scelta diversa, vicino alla connivenza, piu’ in linea con quella gia’ riscontrata in altri casi oggetto della presente misura cautelare”

 

Sciacallaggio 2.0

Francesco su Non Mi Fermo segnala un inquietante caso di sanatoria per niente sana. A parecchi euro. Ed illegale. Sarebbe il caso di farla girare e chiedere nelle sedi opportune.

Il web, come il mondo offline, è pieno di insidie, soprattutto per chi è in difficoltà.
Capita così che da un tweet pubblico, si scopra una storia che, da qualsiasi angolo la si guardi, è decisamente poco limpida, per usare un eufemismo.
Il sito Africa-News.eu, riporta oggi un articolo inquietante: invita i cittadini africani presenti in Italia, a non pagare per procurarsi falsi documenti, e punta il dito verso il sito www.sanatoria2012.com.
“Il sito promette aiuto a tutti quei lavoratori che non sono in regola. Promette anche di procurare documenti all’immigrato lavoratore, per dimostrare di essere entrato in italia prima del Dicembre 2011. […] Considerate che questi servizi sono tutti illegali. Chiunque abbia bisogno di aiuto, viene invitato a contattare le persone che gestiscono il sito (nessuno sa chi essi siano), con la garanzia di venire aiutati  a trovare la soluzione appropriata. I gestori di sanatoria2012.com  chiariscono di offrire il servizio a pagamento […]. Il sito non ha un indirizzo fisico o un numero di telefono, ed è così impossibile sapere a chi vadano in mano i tuoi soldi.”

Il post è qui.