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Giulio Cavalli

«Madre, ti lascio parole infinite»

_78534384_77921881Tutta una vita in un messaggio vocale. Il testamento di Reyhaneh Jabbari, 26 anni, impiccata dal regime per avere ucciso l’uomo che voleva stuprarla. Il 1 aprile, una volta saputo della sua condanna a morte, aveva registrato per la madre un audio messaggio con le sue ultime volontà. Qui sotto il testo integrale della lettera:

Cara Shole,
oggi ho appreso che e’ arrivato il mio turno di affrontare la Qisas (la legge del taglione del regime ndr). Mi sento ferita, perché non mi avevi detto che sono arrivata all’ultima pagina del libro della mia vita. Non pensi che dovrei saperlo? Non sai quanto mi vergogno per la tua tristezza. Perché non mi hai dato la possibilità di baciare la tua mano e quella di papà?

Il mondo mi ha permesso di vivere fino a 19 anni. Quella notte fatale avrei dovuto essere uccisa. Il mio corpo sarebbe stato gettato in un qualche angolo della città e, dopo qualche giorno, la polizia ti avrebbe portata all’obitorio per identificare il mio cadavere, e avresti appreso anche che ero stata stuprata. L’assassino non sarebbe mai stato trovato poiché noi non godiamo della loro ricchezza e del loro potere. E poi avresti continuato la tua vita nel dolore e nella vergogna, e un paio di anni dopo saresti morta per questa sofferenza, e sarebbe finita così.
Ma a causa di quel colpo maledetto la storia è cambiata. Il mio corpo non è stato gettato via, ma nella fossa della prigione di Evin e nelle sue celle di isolamento e ora in questo carcere-tomba di Shahr-e Ray. Ma non vacillare di fronte al destino e non ti lamentare. Sai bene che la morte non è la fine della vita.

Mi hai insegnato che veniamo al mondo per fare esperienza e per imparare una lezione, e che ogni nascita porta con sé una responsabilità. Ho imparato che a volte bisogna combattere. Mi ricordo quando mi dicesti che l’uomo che conduceva la vettura aveva protestato contro l’uomo che mi stava frustando, ma quest’ultimo ha colpito l’altro con la frusta sulla testa e sul volto, causandone alla fine la morte. Sei stata tu a insegnarmi che bisogna perseverare, anche fino alla morte, per i valori.

Ci hai insegnato andando a scuola ad essere delle signore di fronte alle liti e alle lamentele. Ti ricordi quanto hai influenzato il modo in cui ci comportiamo? La tua esperienza però è sbagliata. Quando l’incidente è avvenuto, le cose che avevo imparato non mi sono servite. Quando sono apparsa in corte, agli occhi della gente sembravo un’assassina a sangue freddo e una criminale senza scrupoli. Non ho versato lacrime, non ho supplicato nessuno.  Non ho cercato di piangere fino a perdere la testa, perché confidavo nella legge.

Ma sono stata incriminata per indifferenza di fronte ad un crimine. Vedi, non ho ucciso mai nemmeno le zanzare e gettavo fuori gli scarafaggi prendendoli per le antenne. Ora sono colpevole di omicidio premeditato. Il mio trattamento degli animali è stato interpretato come un comportamento da ragazzo e il giudice non si è nemmeno preoccupato di considerate il fatto che, al tempo dell’incidente, avevo le unghie lunghe e laccate.

Quanto ero ottimista ad aspettarmi giustizia dai giudici! Il giudice non ha mai nemmeno menzionato che le mie mani non sono dure come quelle di un atleta o un pugile. E questo paese che tu mi hai insegnata ad amare non mi ha mai voluta, e nessuno mi ha appoggiata anche sotto i colpi dell’uomo che mi interrogava e piangevo e sentivo le parole più volgari. Quando ho rimosso da me stessa l’ultimo segno di bellezza, rasandomi i capelli, sono stata premiata con 11 giorni di isolamento.

Cara Shole, non piangere per quello che senti. Il primo giorno che nell’ufficio della polizia un agente anziano e non sposato mi ha colpita per via delle mie unghie, ho capito che la bellezza non è fatta per questi tempi.  La bellezza dell’aspetto, la bellezza dei pensieri e dei desideri, la bella calligrafia, la bellezza degli occhi e di una visione, e persino la bellezza di una voce piacevole.

Mia cara madre, il mio modo di pensare è cambiato e tu non sei responsabile. Le mie parole sono senza fine e le darò a qualcuno in modo che quando sarò impiccata senza la tua presenza e senza che io lo sappia, ti verranno consegnate. Ti lascio queste parole come eredità.
Comunque, prima della mia morte, voglio qualcosa da te e ti chiedo di realizzare questa richiesta con tutte le tue forze e tutti i tuoi mezzi. Infatti, è la sola cosa che voglio dal mondo, da questo paese e da te. So che hai bisogno di tempo per questo. Per questo ti dirò questa parte del mio testamento per prima. Per favore non piangere e ascolta. Voglio che tu vada in tribunale e presenti la mia richiesta. Non posso scrivere questa lettera dall’interno della prigione con l’approvazione delle autorità, perciò ancora una volta dovrai soffrire per causa mia.  È la sola cosa per cui, anche se tu dovessi supplicarli, non mi arrabbierei – anche se ti ho detto molte volte di non supplicarli per salvarmi dalla forca.

Mia buona madre, cara Shole, più cara a me della mia stessa vita, non voglio marcire sottoterra. Non voglio che i miei occhi o il mio cuore giovane diventino polvere. Supplicali perché subito dopo la mia impiccagione, il mio cuore, i reni, gli occhi, le ossa e qualunque altra cosa possa essere trapiantata venga sottratta al mio corpo e donata a qualcuno che ne ha bisogno. Non voglio che sappiano il mio nome, che mi comprino un bouquet di fiori e nemmeno che preghino per me. Ti dico dal profondo del cuore che non voglio che ci sia una tomba dove tu andrai a piangere e soffrire.  Non voglio che tu indossi abiti scuri per me. Fai del tuo meglio per dimenticare i miei giorni difficili. Lascia che il vento mi porti via.

Il mondo non ci ama. Non voleva il mio destino. E adesso sto cedendo e sto abbracciando la morte. Perché nel tribunale di Dio incriminerò gli ispettori, l’ispettore Shamlou, il giudice, i giudici della Corte suprema che mi hanno colpita quando ero sveglia e non hanno smesso di abusare di me. Nel tribunale del creatore accuserò il dottor  Farvandi, e Qassem Shabani e tutti coloro che per ignoranza o menzogna mi hanno tradita e hanno calpestato i miei diritti.
Cara Shole dal cuore d’oro, nell’altro mondo siamo io e te gli accusatori e loro sono gli imputati. Vediamo quel che vuole Dio. Io avrei voluto abbracciarti fino alla morte. Ti voglio bene.

Reyhaneh

(fonte)

A Roma il vigliacco non è Marino: è il PD

Il sempre lucido Marco Damilano scrive perfettamente quello che in molti pensano. Solo che lui trova le parole giuste:

Era da anni che non si vedeva uno spettacolo del genere. Un sindaco scelto con le primarie e poi eletto dai cittadini viene sbugiardato da una segreteria di partito che vorrebbe imporgli i nomi degli assessori. Dettano legge ras e capetti di corrente che non sono stati votati da nessuno (anzi, molti di loro hanno perso le primarie per cui hanno gareggiato) o hanno conquistato un posto con la riffa delle preferenze. Non per cambiare la città, sia chiaro, o per rovesciare il sindaco ma ammettendo le loro responsabilità. No, si chiede il commissariamento, togliere potere al sindaco incontrollabile e restituirli al partito, anzi, al Partito, cone se esistesse ancora quello con la maiuscola. Dimenticando che Marino fu scelto da Goffredo Bettini e poi eletto sindaco in un momento in cui l’intera segreteria cittadina era dimissionaria, la dirigenza si era volatilizzata e nessuno voleva metterci la faccia. Era la primavera del 2013, Grillo era ancora fortissimo e faceva paura, Alfio Marchini stava macinando voti, all’epoca i coraggiosissimi dirigenti del Pd romano che oggi reclamano le dimissioni si nascosero dietro la figura del chirurgo. Quello che oggi gli viene imputato, di essere un alieno estraneo alla città, un anno e mezzo fa sembrò essere il suo punto di forza. Se Marino avesse vinto, avrebbe trascinato anche il Pd. Se avesse perso, sarebbe stata unicamente colpa sua.

La colossale balla degli immigrati che ci “costano”

In questi giorni vi stiamo raccontando quello che sta succedendo a Tor Sapienza, con la “rivolta” nei confronti degli ospiti del centro per rifugiati e le più o meno gradite visite di esponenti politici locali ed amministratori (mentre il Governo ha scelto di lavarsene le mani ed il Pd ha preferito abbandonare al proprio destino il sindaco di Roma Ignazio Marino). Intorno alla vicenda è esploso un dibattito variegato e le analisi si sono concentrate su diversi livelli di profondità: dalla specificità del caso romano (i 4 campi solo al Prenestino), ai problemi delle periferie, dalla crisi economica che ha esasperato i ceti meno abbienti alle lacune normative nei processi di accoglienza / espulsione dei clandestini e via discorrendo. Su una cosa però analisti e commentatori sembrano concordare: sulla crescita del fronte dell’odio, della rabbia e dell’indignazione, soprattutto nelle periferie dei grandi centri urbani. Sentimenti certamente coltivati da una certa parte politica ma anche nutriti da una sequela impressionante di notizie false, esagerazioni, allarmismi e speculazioni che hanno trovato nei social network dei megafoni formidabili.

Tutto o quasi ruota intorno al denaro, alle risorse che lo Stato dilapiderebbe per soccorrere, accogliere e assistere gli immigrati che raggiungono le nostre coste. Abbiamo già provato a chiarire, ad esempio, le esatte dimensioni dell’impegno finanziario del nostro Paese nell’operazione Mare Nostrum, oppure a far chiarezza sull’insussistenza di quel “l’Europa non ci aiuta”, vero tormentone degli ultimi mesi, o sul fatto che la spesa per l’immigrazione sia meno del 3% della spesa sociale; ma le informazioni parziali e decontestualizzate sul tema sono tante e così surreali che resta difficile finanche impostare un debunking più o meno serio. Si consideri ad esempio la questione dei costi totali, spiegata in maniera surreale da un (cliccatissimo) pezzo de Il Giornale, in cui si stima in 12 miliardi di euro l’anno il costo degli sbarchi:

I capitoli più costosi sono la sanità (3,6 miliardi) e la scuola (3,4). I trasferimenti monetari (assegni familiari, pensioni e sostegni al reddito) valgono 1,6 miliardi. Eclatante il dato della giustizia: 1,75 miliardi […] Un immigrato che accetti di essere registrato nei centri di accoglienza costa alla collettività 2.400 euro, il doppio dello stipendio di un agente addetto ai controlli. Il conto è semplice. Si parte dalla «diaria» di 30 euro al giorno per le spese personali: 900 euro esentasse, più di molte pensioni e casse integrazioni. Altri 30 euro al giorno vanno come rimborso a chi li ospita (bed&breakfast, case private, ostelli). Aggiungiamo un’assicurazione mensile di 600 euro e si arriva alla rispettabile somma di 2.400 euro mensili spesi dallo Stato per ogni straniero sbarcato e assistito”

Un minestrone in cui coesistono numeri veri, bufale, imprecisioni, inesattezze e vere e proprie invenzioni: il risultato è la trasmissione a catena di informazioni errate e strumentali ad un certo racconto. Ma il discorso sull’utilizzo strumentale di dati e cifre (tra decontestualizzazioni, forzature e falsificazioni) è evidentemente lungo e complesso (si potrebbe citare, ad esempio, il miliardo e mezzo speso per la sorveglianza coste, dato vero ma da distribuire nel periodo 2005 – 2012). Meglio provare a chiarire alcuni punti, a cominciare dalla “retribuzione giornaliera” che lo Stato corrisponderebbe agli immigrati.

Ecco, molto semplicemente: lo Stato non corrisponde neanche un singolo euro agli immigrati clandestini che vivono nel nostro Paese. Il discorso è invece in parte diverso per i richiedenti asilo, i rifugiati e gli “ospiti” dei Cie, Cda, Cpsa e Cara. Ogni migrante trattenuto in un centro di accoglienza riceve infatti in media circa 2,5 euro, il cosiddetto pocket money che dovrebbe servire alle piccole spese giornaliere (effetti personali, bevande calde ai distributori e sigarette). Come si vede, siamo ben lontani dalla cifra di 30 / 40 euro al giorno di “retribuzione”, rilanciata continuamente dalla presunta “controinformazione”. Tra l’altro, come rilevato dall’inchiesta di Repubblica, ci sono seri dubbi sulle modalità e sull’effettività dell’erogazione del contributo, che spesso finisce per ingrassare speculatori ed affaristi, che letteralmente prosperano sulla pelle dei migranti.

Per tutti i servizi connessi all’accoglienza e al mantenimento dei migranti nei Cie lo Stato spende circa 30 euro al giorno. Discorso in parte diverso per quel che concerne i Cara (i centri di accoglienza per richiedenti asilo) e la messa a disposizione di posti straordinari per la prima accoglienza dei cittadini stranieri, gestiti da cooperative o da privati. È interessante precisare però che il “reclutamento” delle strutture non è a totale discrezione delle prefetture (il riferimento è ai fantomatici hotel 5 stelle lusso con piscina, sauna e sala giochi in cui sarebbero ospitati i migranti), ma avviene con un “modulo precompilato” con procedure e standard fissi, messo a disposizione dal ministero dell’Interno. Il gestore che stipula la convenzione si impegna ad offrire “servizi di gestione amministrativa, di assistenza generica, di pulizia e igiene ambientale, di erogazione dei pasti”, nonché all’erogazione del pocket money (che per i nuclei familiari non può superare i 7,5 euro) e di una tessera telefonica di 15 euro. La somma complessiva per singolo ospite del centro varia a seconda degli accordi tra prefettura e gestori, ma in media si aggira sui 40 euro che, come spiega Daniela Di Capua, direttrice del servizio centrale Spar a Redattore Sociale, “servono a pagare gli operatori, l’affitto ai privati degli immobili, i fornitori di beni di consumo. Una piccola quota va per gli interventi di riqualificazione professionale, come i tirocini, orientati a permettere ai migranti di vivere in autonomia una volta usciti dal sistema di accoglienza […] Queste risorse fanno parte di un fondo ordinario del ministero. Non sono spese straordinarie”.

Per i minori le cifre salgono, come si legge su Internazionale: “Il costo pro capite varia a seconda delle rette delle singole comunità di accoglienza […] Le rette possono dunque superare anche i 140 euro, ma per quelli che rientrano nello Sprar, indipendentemente dalla rette della comunità, noi eroghiamo 80 euro al massimo”.

Insomma, per farla breve: ai clandestini che dimorano nel nostro Paese non diamo nulla, a chi è in attesa di risposta alla domanda di tutela come profugo o rifugiato politico o a chi risiede nei centri di accoglienza o di identificazione diamo 2,5 euro al giorno. Quando questi soldi arrivano nelle loro tasche, ovviamente. Se cercate “chi ci guadagna” da questa situazione, converrà volgere lo sguardo altrove.

(fonte)

La dignità nelle parole

Condivido questo video perché nonostante il clamore e la polvere su Tor Sapienza e sulle periferie e nonostante la continua legittimazione sotto traccia del razzismo, le parole di Carlotta Sama hanno un suono che riporta a fare pace con il mondo e nonostante la delicatezza del tono impongono principi costituzionali che hanno bisogno di essere ricordati:

(Grazie a Laura Caputo per la segnalazione)

L’inopportunità e il conflitto d’interessi come metodo

Chi guiderà la commissione che dovrà individuare i responsabili del crollo dell’argine del torrente Carrione, a CarraraLucio Boggi, consigliere del Pd, ma soprattutto appena citato a giudizio per una storia di appropriazione indebita. Un’inchiesta che non ha niente a che vedere con la manutenzione degli argini, ma riguarda una vicenda legata alla vendita di un’azienda del marmo. Boggi non dà peso al processo (“Non scappo da colpe che non ho”) e la circostanza non sembra scuotere il suo partito. Resta che il consigliere democratico ricoprirà un ruolo delicato nelle prossime settimane: ricostruire – a capo della commissione interna della Provincia – perché l’argine del Carrione ha ceduto dopo pochi anni dalla sua realizzazione. E l’ente che ha affidato i lavori è proprio la Provincia, guidata da poco tempo da Narciso Buffoni (Pd) e commissariata dalla Regione perché non ha speso i soldi destinati alla lotta al dissesto idrogeologico. 

Il pm Alberto Dello Iacono ha firmato il decreto di citazione a giudizio – saltando così l’udienza preliminare – per Boggi per una presunta appropriazione indebita in concorso. A processo con il consigliere finirà anche un’imprenditrice di Pietrasanta (Lucca), Arianna Dell’Amico, amministratrice unica della Ari Marmi. Secondo la ricostruzione della Procura i due hanno violato gli accordi di una scrittura privata durante una trattativa di cessione della Ari a due imprenditori, Riccardo e Andrea Ferrari. Quell’intesa – risalente al 2009 – prevedeva che la Dell’Amico cedeva il 100 per cento della Ari Marmi ai Ferrari per 400mila euro. Ma per 4 anni – secondo quella scrittura privata – l’imprenditrice non avrebbe potuto compiere alcun atto amministrativo che riguardasse l’azienda senza il consenso degli acquirenti. Ma – secondo le accuse – gli accordi non vengono rispettati. Anzi, la Dell’Amico e Boggi firmano un secondo accordo. Prima c’è l’imprenditrice cede a Boggi un ramo dell’azienda (già venduta ai Ferrari). Poi, nel luglio 2013, c’è la cessione di tutte le quote a soli 10mila euro. L’accusa sostiene che Boggi fosse a conoscenza dell’atto precedente di vendita, “procurandosi in tal modo un ingiusto profitto con pari danno dei Ferrari”. Il consigliere provinciale, contattato da ilfattoquotidiano.it, si dice “estraneo ai fatti. Parlare di appropriazione indebita – dice – è una calunnia, perché non c’è stato passaggio di denaro e non siamo nemmeno al primo grado di giudizio. La notifica poi non nasce come iniziativa motu proprio della magistratura, bensì ancora una volta prende le mosse dai soliti personaggi con cui ho già avuto a che fare in passato: Ferrari, padre e figlio”.

Sarà Boggi, scelto dal presidente della Provincia Buffoni e che di lavoro fa l’imprenditore nel settore del marmo, il “controllore” della Provincia per i fatti del 5 novembre, quando il Carrione ha sfondato l’argine nuovo (costruito dalla Provincia nel 2007 e certificato nel 2009) provocando l’ennesimo disastro. Quello che in sostanza dovrà analizzare, insieme agli altri 5 componenti della commissione, tutti gli atti amministrativi sui lavori e trovare i responsabili. A partire dalla gara d’appalto fino ad arrivare ai vari collaudi e controlli che gli enti preposti avevano il compito di effettuare. Arrivando poi a stabilire come hanno lavorato gli uffici, se sono state eseguite correttamente tutte le procedure e far scattare, se necessario, eventuali provvedimenti. Si occuperà quindi di individuare il “buco” nelle procedure e nei lavori, nonostante, in qualche modo, anche le cave siano ritenute responsabili dell’esondazione, per la miriade di detriti trovati a valle.

Ma Boggi è noto anche per essere stato accusato negli ultimi anni un politico “collezionista” di conflitti di interessi. E’ per esempio consigliere comunale del Pd – la maggioranza che sostiene il sindaco Angelo Zubbani – e fa parte della commissione marmo, nonostante i suoi legami con il settore. Prima degli accordi con la Ari Marmi, infatti, era già socio di un’altra azienda, la Aleph Escavazioni con la quale estrae nel bacino Sagro, formato da un numero non irrilevante di cave. Nonostante da ormai due anni l’opposizione (e in particolare il Movimento Cinque Stelle) ne chieda le dimissioni dalla commissione, lui non se n’è mai andato. Non solo: nel 2013 è stato anche nominato membro del consiglio di amministrazione della Cassa di Risparmio di Carrara, l’ente tesoriere del Comune (perché tra le tante cose è anche commercialista). Il punto è che nel frattempo era già entrato nella commissione bilancio. Dopo un anno di esposti, interrogazioni e accesi dibattiti in consiglio comunale, Boggi si è arreso alle pressioni della minoranza e ha lasciato il cda della banca.

(fonte)

diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi

“Prevedo la spoliticizzazione completa dell’Italia: diventeremo un gran corpo senza nervi, senza più riflessi. Lo so: i comitati di quartiere, la partecipazione dei genitori nelle scuole, la politica dal basso… Ma sono tutte iniziative pratiche, utilitaristiche, in definitiva non politiche. La strada maestra, fatta di qualunquismo e di alienante egoismo, è già tracciata. Resterà forse, come sempre è accaduto in passato, qualche sentiero: non so però chi lo percorrerà, e come.”

– Pier Paolo Pasolini- (1975)

Sempre sull’attentato a Di Matteo

Un importante articolo di Riccardo Lo Verso:

Gli episodi sono sempre più circoscritti. È nel dicembre 2012 che la mafia avrebbe iniziato a progettare l’attentato al pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Si tratta dell’attentato di cui parla oggi Vito Galatolo, il boss che, prima ancora di pentirsi, si è voluto togliere un peso dalla coscienza. “Ci sono dietro gli stessi mandanti di Borsellino”, ha detto il capomafia aprendo scenari ancora più inquietanti.

Un direttorio ristretto di boss avrebbe deciso di sfidare lo Stato colpendo uno degli uomini simbolo della lotta a Cosa nostra. Oggi i boss che avrebbero fatto parte del piano, coordinato dallo stesso Galatolo, sono tutti in cella. Il progetto di morte è andato avanti per dua anni. Poi, il blitz Apocalisse di cinque mesi fa avrebbe evitato il peggio. Era pronto persino l’esplosivo che in questi giorni gli uomini della Dia hanno cercato senza successo nelle campagne di Monreale dove c’è la villetta di uno dei 95 arrestati del mega blitz di giugno.

Si scopre che ci furono grandi preparativi fra l’8 e il 9 dicembre di due anni fa per fare incontrare Girolamo Biondino – fratello di Salvatore, l’autista di Totò Riina – e Vito Galatolo. Entrambi sono finiti in carcere nel blitz Apocalisse del giugno scorso. Sono accusati il primo di essere il capo mandamento di San Lorenzo-Tommaso Natale e il secondo di avere guidato la famiglia dell’Acquasanta. Solo la prudenza di Biondino, che aveva già scontato una lunga pena, gli suggerì di defilarsi all’ultimo minuto. Forse aveva capito di essere pedinato. E così Galatolo avrebbe incontrato i rappresentanti delle famiglie di Partanna Mondello e Tommaso Natale. Il boss dell’Acquasanta che ha deciso di pentirsi colloca in quella stagione di summit l’inizio del progetto di uccidere Di Matteo.

Il rampollo di una delle più blasonate famiglie mafiose si trovava in città per seguire un processo. Era stato da poco scarcerato. Aveva, però, il divieto di soggiorno a Palermo e si era trasferito a Mestre. Con un apposito permesso gli era stato dato il via libera per presenziare alle udienze. L’organizzazione dell’incontro sarebbe stata affidata a due picciotti.

Alle ore 19:05 dell’8 dicembre di due anni viene intercettato in macchina Roberto Sardisco, braccio destro di Silvio Guerrera, considerato il reggente della famiglia di Tommaso Natale. A bordo di una Fiat 500 raggiungono un bar a Tommaso Natale. Sardisco scende dalla macchina e sale su un furgone. Alla guida c’è un altro indagato. Assieme arrivano al civico 61 di via Barcarello dove c’è la villetta di Mimmo Biondino. Entrano in casa. Pochi minuti dopo Sardisco telefona a Guerrera: “Domani alle dieci”. Secondo gli investigatori, è la conferma dell’appuntamento. Infine arriva una telefonata a casa di Galatolo dove l’uomo sta cenando con la moglie: “… telefonò Vito e ha detto che potete scendere che aspetta a noi per mangiare”.

Il 9 dicembre gli investigatori sono pronti a monitorare gli spostamenti di tutti i protagonisti. Quattro minuti dopo le 9 Guerrera è in macchina. Sardisco passa sotto casa di Tommaso Masino Contino, in cella con l’accusa di essere il capo della famiglia di Partanna Mondello. Nel frattempo, Biondino esce di casa a piedi. Percorre le vie Barcarello, del Tritone e del Mandarino e sale sulla Citroen C4 di Guerrera. La macchina è imbottita di microspie. Biondino si informa: “Che c’è Vito?”. Risposta affermativa. Guerrera, però, spiega che “a Masino non l’ho potuto trovare”. Biondino si rammarica: “Ci voleva Masino… ci voleva per certi discorsi… Masino ci vuole perché sa tanti discorsi”. Poi inizia a innervosirsi: “Dove dobbiamo salire? Là? Neanche io lo so, dove vuoi posteggiare posteggi, dove ci portano queste teste di minchia… li prenderei a calci nel culo a queste teste di… entra là dentro… abbiamo tante cose… da discutere”.

Gli inquirenti li hanno seguito passo dopo passo. Dopo aver percorso le vie Rosario Nicoletti, Partanna Mondello ed Emilio Salgari si sono fermati in via Jack London. Sono scesi dalla macchina per entrare nel condominio al civico 31 di via Partanna Mondello. Dopo pochi minuti, però, Biondino e Guerrera escono. Salgono in macchina e vengono intercettati in via Lanza di Scalea. L’incontro è saltato. Biondino deve avere fiutato qualcosa. Forse i movimenti delle forze dell’ordine.

Nel pomeriggio della stessa giornata vengono monitorati nuovi spostamenti. C’è una novità importante: Biondino si è defilato. Guerrera e Contino si spostano a bordo di una Smart. “Dobbiamo andare in corso Tukory… è da stamattina che mi rompo i… – spiega Guerrera – mi stavano facendo attummuliari stamattina. Stamattina non ti ho potuto trovare… hanno una cosa urgente, subito”. Alle 17 e 30 arrivano in via Lincoln. E si spostano in macchina verso una zona Secondo gli investigatori, avrebbero incontrato da qualche parte Vito Galatolo.

Cosa c’era di così urgente da trattare? Probabilmente in pochi, pochissimi erano a conoscenza dell’argomento. Non a caso Galatolo avrebbe parlato di un numero ristretto di personaggi, legati anche ad altri mandamenti della città, che a loro volta avrebbero partecipato ad altri summit su cui adesso si dovrà fare luce.

Perché nel dicembre 2012 la mafia inizia a progettare un attentato contro Nino Di Matteo.C’entrano il processo e l’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia di cui il pubblico ministero si occupa assieme ai colleghi Vittorio Teresi, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia? Le indiscrezioni che trapelano addensano l’ombra dei mandanti esterni. Soggetti diversi da Cosa nostra potrebbero avere deciso di servrsi dei boss per colpire loro obiettivi. Anche di questo avrebbe parlato Galatolo, figlio di Enzo, capomafia dell’Acquasanta coinvolto nelle stragi del’92 e in omicidi eccellenti come quello del giudice istruttore Rocco Chinnici.

Galatolo, 41 anni, detto “u picciriddu”, avrebbe deciso di vuotare il sacco temendo che che l’attentato potesse ancora essere realizzato. Troppo alto il rischio di subirene le conseguenze giudiziarie. Galatolo ha parlato anche dell’arrivo in città di un carico di esplosivo di cui, però, non c’è traccia. Gli investigatori lo hanno cercato in una villetta di Vincenzo Graziano. Già condannato per Mafia, Graziano aveva finito di scontare la pena nel 2012, ma è tornato in cella nel blitz Apocalisse con l’accusa di essere il regista del monopolio, realizzato d’intesa con Galatolo, nel settore delle slot machines e delle scommesse sportive on line. Gli veniva inoltre contestato, sulla base delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Sergio Flamia, di avere affiliato, assieme a Galatolo, mentre si trovavano in carcere, un nuovo uomo d’onore. Accuse che, però, non hanno retto al vaglio del Tribunale del Riesame e Graziano è stato scarcerato.

Del tritolo non c’è traccia. Qualcuno potrebbe avere già provveduto a ripulire i luogo dove era stato custodito. E poi ci sono le menti esterne. Quelle che, secondo Galatolo, avrebbero voluto la morte del giudice Borsellino e ora spingevano per assassinare Di Matteo.

Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà formo la santa società …

“Buon vespero e santa sera ai santisti! Giustappunto in questa santa sera, nel silenzio della notte e sotto la luce delle stelle e lo splendore della luna, formo la catena! Nel nome di Garibaldi, Mazzini e La Marmora, con parole d’umiltà formo la santa società …”. E’ il boss che parla. Gli altri affiliati, riuniti in cerchio, ascoltano in silenzio. La sacralità del rito ricorda una messa, invece si tratta della cerimonia di conferimento della Santa, il più alto grado di affiliazione ‘ndranghetista. Che va in scena non in Calabria, ma nella Lombardia di Expo. Finora, solo i pentiti (pochi) lo avevano raccontato. Adesso, le telecamere nascoste del Ros dei carabinieri di Milano lo mostrano per la prima volta nella sua interezza. Fermi immagine definiti storici dagli inquirenti che questa mattina hanno arrestato 40 persone nell’ambito dell’indagine coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia milanese. Un altro duro colpo alla ‘ndrangheta del nord inferto dai carabinieri guidati dal tenente colonnello Giovanni Sozzo. Che arriva a pochi giorni di distanza da un’altra operazione che ha smascherato gli appetiti dei mammasantissima attorno ai subappalti dell’Esposizione universale.

L’ordinanza di custodia cautelare in carcere è stata firmata dal gip Simone Luerti. Le accuse a vario titolo contro i 40 indagati sono associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi. Al centro dell’operazione “Insubria“, nata dalla storica inchiesta “Infinito“, la prima a riconoscere il radicamento al nord italia delle cosche calabresi, tre sodalizi della ‘ndrangheta radicati nel comasco e nel lecchese, con diffuse infiltrazioni nel tessuto locale e saldi collegamenti con le famiglie di origine. Oltre alla Lombardia (Milano, Como, Lecco, Monza-Brianza, Bergamo), gli arresti sono avvenuti anche in provincia di Verona e Caltanissetta. L’inchiesta della Dda, coordinata dai pm Ilda Boccassini, Paolo Storari e Francesca Celle, ha riguardato in particolare le cosche dei comuni brianzoli di Calolziocorte, di Cermenate e di Fino Mornasco, tutte facenti parte della nuova ‘Ndrangheta del Nord Italia, chiamata “La Lombardia”.

Dopo due anni di intercettazioni ambientali e filmati, sono stati documentati, in particolare, i rituali mafiosi per il conferimento delle cariche interne e le modalità di affiliazione. È la prima volta che viene ripresa la cerimonia di conferimento della Santa. I filmati, che riprendono i boss durante le cosiddette “mangiate“, mostrano l’uso di un linguaggio in codice, in cui il capo della locale viene chiamato Garibaldi, il contabile Mazzini, mentre il Mastro di giornata, tra le più alte cariche dell’associazione, viene chiamato La Marmora. Un altro filmato mostra tutta la violenza delle ‘ndrine: i giuramenti vengono fatti davanti con una pistola e una pastiglia di cianuro, che servono come monito al nuovo affiliato sulla sua sorte in caso di tradimento o “grave trascuranza”. Quanti colpi ha in canna, ne dovete riservare sempre uno!”, spiegano i boss, intercettati, altrimenti c’è sempre “una pastiglia di cianuro” oppure “vi buttate dalla montagna”.

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