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Giulio Cavalli

Insieme alla Serbia e alla Grecia

Sul fronte situazione penitenziaria e sovraffollamento l’Italia si contende l’ultimo posto in Europa con Serbia e Grecia. Lo ha riferito dall’europarlamentare Juan Fernando Lopez Aguilar capo delegazione della Commissione Libertà civili in visita al carcere di Poggioreale a Napoli. Aguilar, sottolineando che il sovraffollamento è un problema ”strutturale” di tutti i Paesi Ue, ha evidenziato la ”drammatica” situazione italiana sia per il sovraffollamento che per la ”mancata attenzione ai diritti legati alle leggi”.

L’incivile graduatoria è nel commento riportato dall’Ansa.

La narrazione pedonale

trafficHa ragione Gianni Biondillo quando scrive nel suo bellissimo articolo che la mobilità in Italia è condizionata dalla mitizzazione pubblicitaria dell’automobile per tutti questi anni e che, in fondo, paghiamo il nostro conservatorismo, sempre. E poiché ho una passione da sempre per la declinazione “semplice” e possibilmente artistica di ciò che vorrebbero invece farci credere complicatissimo, credo che tutti i nostri amministratori stamattina dovrebbero aggiungere alla propria rassegna stampa il pezzo uscito su Nazione Indiana:

La questione classica che viene posta, quando si propone una ZTL, è sempre la stessa: ma così, chiudendo alle macchine votiamo a morte sicura il commercio minuto. Nessuno vorrà più comprare se dovrà farsela a piedi, andranno tutti nei centri commerciali. Anche questa è una narrazione tossica, un sillogismo falso. Non voglio neppure entrare nel merito su quanto sia devastante il consumo di suolo e di energia di un centro commerciale. Non voglio parlare di quanto sia opaca la gestione del flusso di denaro che ha fatto sorgere dal nulla sull’intera nazione questi centri, spesso vere e proprie lavatrici di soldi sporchi accumulati dalla criminalità organizzata. Neppure voglio dire di come sia un modello insediativo nato in un paese che ha dimensioni e tradizioni completamente differenti, imposto d’imperio qui, come prototipo unico della modernità. Lasciamo stare, tutto questo potrebbe sembrare un discorso “ideologico”. Arriviamo alle cose concrete, evidenti. Cosa facciamo quando andiamo in un centro commerciale?

Prendiamo la macchina, ovvio. Ci allontaniamo dal centro storico, ci incuneiamo in quale tangenziale ingorgata, troviamo finalmente l’uscita, posteggiamo in un parcheggio grande come due campi di calcio (mi viene in mente il “Ghost Parking Lot” dei SITE, dove le macchine, calcificate, ormai sembrano reperti archeologici), quasi sempre lontanissimo dall’ingresso, camminiamo in mezzo a tonnellate di lamiere per raggiungere finalmente l’entrata e poi finalmente dentro… camminiamo. Per ore. Camminiamo come fossimo per strada in un finto centro storico, kitsch fino all’inverosimile. Camminiamo per false piazzette, ci fermiamo a prendere un caffè in finti dehors, acquistiamo cose in pseudo negozi arredati come fossero finto-antichi. Bella contraddizione. Poiché non si può andare in macchina nel vero centro storico a comprare cose nei veri negozietti e prendere un caffè negli autentici bar delle vere piazze antiche, preferiamo prendere la macchina per andare in un luogo falso dove non facciamo altro che camminare come fosse autentico. Puro surrealismo.

I negozianti dei centri storici o sono miopi o forse fingono di non vedere che se la gente va nei centri commerciali è per colpa della politica della grande distribuzione che abbatte i prezzi e fa concorrenza sleale, mica perché la gente non ha voglia di camminare. Se esistessero politiche commerciali differenti, capaci di proteggere la vendita al dettaglio, se si riuscissero a ideare tecniche innovative e concorrenziali da parte delle associazioni di commercianti, l’intera categoria potrebbe vivere di rendita di posizione. La pedonalizzazione dei centri storici, là dove abbiamo depositato la nostra identità comunitaria, dovrebbe essere ovvia. Dovrebbe diventare un plus, non un disvalore. Certo occorre cambiare le pratiche quotidiane, inoculare nella testa di tutti che girare in macchina è da sfigati, che è molto più intelligente, per l’equilibrio psicofisico di ognuno e per la salute di tutti in generale, potenziare i mezzi pubblici, sviluppare la mobilità dolce. È proprio questo salto di paradigma la cosa più difficile da fare in un popolo in fondo pigro al cambiamento quale il nostro. Eppure questo salto è ormai improcrastinabile, se non vogliamo essere ricordati con stupore e imbarazzo (per non dire di peggio) dalle prossime generazioni.

Tra Rozzano e Vibo Valentia

Operazione contro la ‘ndrangheta tra Calabria e Lombardia. I carabinieri hanno arrestato undici persone ritenute appartenenti alla cosca Patania di Stefanaconi (Vibo Valentia), tra cui anche un’ex militare dell’Arma. I fermi sono stati disposti nella provincia calabrese, ma anche in Lombardia: a Rozzano, hinterland milanese, Cantù e Carugo, entrambe in provincia di Como. L’operazione è stata coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro ed eseguita dai militari del comando provinciale di Vibo Valentia.

I presunti affiliati sono ritenuti responsabili, a vario titolo, di numerosi reati, tra cui: associazione di tipo mafiosousuraestorsione. Tra i fermati c’è anche un ex maresciallo dei carabinieri  ed ex comandante della stazione di Sant’Onofrio, il maresciallo Sebastiano Cannizzaro, radiato dall’Arma nel febbraio scorso. Anche l’ex militare è accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Avrebbe agevolato le attività della cosca Patania di Stefanaconi. Cannizzaro, già indagato, era stato sospeso nel maggio 2012 prima di essere radiato definitivamente, adesso si trova nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere (Caserta).

Sempre meglio l’azienda ‘ndrangheta

L’istituto Demoskopika ha effettuato una stima del giro d’affari di una delle più potenti organizzazioni criminali al mondo, la ‘ndrangheta: la mafia calabrese conta circa 60 mila affiliati e ha quasi 400 cosche ‘drine operative in 30 Paesi nel mondo, generando un fatturato complessivo di 53 miliardi di Euro. Per dare un’idea dell’enormità delle cifre, basta dire che è la somma dei fatturati di due colossi come Deutsche Bank e Mcdonald’s, e corrisponde ben al 3,5% del Prodotto interno lordo del nostro Paese per il 2013.

“Il maggiore introito – emerge dalla ricerca di Demoskopika – è costituito dal traffico di stupefacenti che determinerebbe guadagni per 24,2 miliardi di euro. Un’altra importante fonte di profitto è costituita dall’attività di riciclaggio che ha assicurato alle cosche calabresi un profitto di 19,6 miliardi di euro. Risultano significativi anche i guadagni criminali relativi a estorsioni e usura (2,9 miliardi di euro), agli appalti pubblici (2,4 miliardi di euro), al gioco d’azzardo (1,3 miliardi di euro). Meno rilevanti invece i proventi dal traffico di armi (700 milioni di euro) e di rifiuti illeciti (670 milioni di euro), dalla prostituzione (370 milioni di euro), dalla contraffazione (330 milioni di euro) e dall’immigrazione clandestina (130 milioni di euro), ma si tratta pur sempre di cifre enormi che vanno a incrementare un bilancio più che remunerativo e allettante”.

“La ‘Ndrangheta – dichiara l’economista e autore dello studio di Demoskopika, Raffaele Rio – è percepita come una componente ‘normale’ dal mondo produttivo. Si arriva ad una situazione paradossale per cui l’insieme delle attività vessatorie nei confronti delle aziende, dal racket all’usura, dagli incendi dolosi alle rapine, fino ai meccanismi più sofisticati di infiltrazione nel mercato, sembrano ormai costituire un sottofondo latente, uno scenario inevitabile delle loro attività. In questo quadro la criminalità organizzata calabrese rappresenta un evidente ostacolo che grava pesantemente sullo sviluppo del territorio”.

“Dal punto di vista economico – sottolinea Rio – scoraggia la libera iniziativa, altera il mercato e i meccanismi della concorrenza, crea monopoli basati sull’intimidazione e l’interesse privato; dissemina paura, determina sprechi e inefficienze. Sul versante sociale genera il consenso di pochi e l’acquiescenza di molti che, per quieto vivere, per interesse o per paura, preferiscono far finta di non vedere e perfino sottostare alle richieste dei criminali, piuttosto che denunciare e schierarsi apertamente contro di essi”.

“Queste trasformazioni – conclude l’economista – finiscono per avvicinare alla criminalità organizzata strati sempre più ampi di popolazione che, pur non appartenendo alle famiglie mafiose e non volendo condividere nulla degli affari dei boss, sono in qualche modo condizionati da una presenza che trae la sua forza dalla capacità di esercitare un capillare controllo del territorio”.

Secondo le stime dell’istituto Demoskopika, inoltre, le attività di usura e di racket esercitate dalla ‘ndrangheta nella sola Calabria provocherebbero una mancata crescita di 3,5 punti sulla ricchezza complessiva prodotta dalla Regione, che ammonta a 1,2 miliardi di euro, e ne sarebbero vittime oltre 40 mila commercianti e operatori economici.

(via)

Carmine Schiavone: desecretare e (soprattutto) conoscere

Abbiamo avuto una nuova star televisiva che ha imperversato negli ultimi mesi: Carmine Schiavone. Personaggio perfetto nella sua delirante onnipotenza con cui ci comunicava il favore di essersi pentito pur essendo noi assolutamente inferiori rispetto alla sua grandezza intellettuale. Ci ha dato lezioni di democrazia e di buongoverno dall’alto degli omicidi compiuti o ordinati, ci ha propinato la sua sferzante ironia nei varietà comici di parainformazione e ci ha tenuto a dirci che la “terra dei fuochi” è stata tenuta nascosta. Come succede spesso in queste occasioni sono stati in molti a chiedere la desecretazione dei verbali della sua audizione in Commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo dei rifiuti e sulle attività illecite ad esso connesse e quasi tutti si sono indignati perché volevano conoscere. Sarebbe bello potere sapere quanti l’abbiano letta; cosa ne pensa quell’esercito “civico” pronto alla rivolta degli eventuali “segreti” di cui Schiavone dovrebbe essere detentore. Perché viene il dubbio che noi siamo fatti così: lottiamo per desecretare e poi non leggiamo nemmeno. Nel dubbio, eccola qui.

 

Caso Uva: sempre peggio

Ora si scopre che gli atti raccolti dai magistrati sono “illogici“. Le ombre quelle no: paventano una logica chirurgica e aberrante.

Il caso Uva squassa ancora la magistratura. L’11 marzo era già sembrato un colpo di scena che il giudice Giuseppe Battarino, nel respingere la richiesta di archiviazione di due carabinieri e sei agenti di polizia proposta dai pm Agostino Abate e Sara Arduini, li avesse obbligati invece a chiedere il processo ai rappresentanti delle forze dell’ordine per la morte nel giugno 2008 del 43enne Giuseppe Uva in ospedale dopo una parte della notte trascorsa nella caserma dei carabinieri. E il 20 marzo i pm, come in questi casi impone la legge, avevano ovviamente ottemperato all’obbligo, formalizzando l’incriminazione di carabinieri e poliziotti richiesta dal gip Battarino per le ipotesi di reato di omicidio preterintenzionale, arresto illegale, abuso d’autorità e abbandono di minore. Solo che – si scopre adesso – ad avviso del loro procuratore capo facente funzioni Felice Isnardi (inviato 20 giorni fa dalla Procura generale di Milano a reggere la scoperta Procura di Varese), i due pm l’avrebbero sì fatto, ma in un modo tale da costruire imputazioni deboli per illogicità e contraddittorietà, con il risultato di rischiare di minare in partenza un processo nel quale non credono e al quale solo il gip li ha obbligati.

Il timore reverenziale per la polizia

9788861904613_il_partito_della_poliziaOra, chiariamolo subito, io alle forze dell’ordine devo questi ultimi anni di protezione e quindi non venitemi subito a scrivere che “non si fa dell’erba un fascio” oppure “sono poche mele marce” e tutti questi altri eccessi di legittima difesa che spuntano un secondo dopo avere letto il titolo. Seguitemi con calma.

Scrive Marco Preve nel suo interessantissimo libro ‘Il partito della Polizia’:

La polizia ha sempre funzionato come termometro di una democrazia. Più è presente nella società, meno quella società è libera e democratica. Nessuno Stato può fare a meno della polizia, a essa è affidato l’ordine pubblico, la difesa della proprietà privata, l’incolumità delle persone. Il sacrificio di una piccola porzione di libertà individuale vale la pena se in cambio tutti si sentono più sicuri. A patto che, attraverso le istituzioni, la società sia in grado di controllare l’operato dei poliziotti e riesca a intervenire laddove emergano degli abusi.

Sembra semplice, ma nell’Italia di questo inizio Duemila le responsabilità e i ruoli sono saltati e noi cittadini liberi ne abbiamo fatto le spese.

Più temiamo (piuttosto che rispettare) la nostra polizia e più siamo un Paese che ha un problema. Reale. La catena di comando della Polizia di questi ultimi anni (da De Gennaro in poi) ha avuto gravi responsabilità passate in giudicato (dalla scuola Diaz, ai fatti della caserma Ranieri a Napoli per citane un paio) ma non ne ha mai pagato il conto, anzi: i colpevoli hanno fruito tranquillamente di promozioni e solidarietà ai più alti livelli. Solo l’ultimo grado di giudizio ha “costretto” la politica a rimuovere i condannati.

Eppure la polizia oggi è vissuta troppo spesso come un pericolo piuttosto che un protezione (basti pensare ai casi Aldrovandi, Uva o Cucchi) e difficilmente il dibattito si è aperto al di là delle fazioni precostituite (centrodestra pro Polizia, sinistra contro e moderati zitti). Quanto è stata affidabile la nostra polizia? Potremmo prendere in prestito le parole di Francesco Carrer (uno dei criminologi, non da salotto televisivo, più noti d’Italia, esperto del Consiglio d’Europa e consulente di forze dell’ordine, organismi ed enti locali in tema di sicurezza).

«Sul piano sostanziale sono d’accordo con lei. Ho sempre sostenuto che il personale di quello che gli anglosassoni definiscono il settore del Law enforcement (poliziotti e magistrati) dovrebbe, quando sbaglia, essere sottoposto a norme più rigorose e restrittive del normale cittadino. Personalmente ho avuto occasione di scrivere che ritengo deleterio che a costoro venga applicata la norma del “patteggiamento”, “che umilia cittadini e poliziotti onesti, prevista per ridurre i tempi dei processi e che consente di dichiararsi colpevole senza sottoporsi a giudizio e di usufruire così di agevolazioni e sconti della pena. Il che può significare che cittadini onesti che hanno denunciato esponenti delle forze di polizia se li ritrovano in servizio dopo pochi mesi, magari promossi di grado”. Il personale delle forze di polizia viene considerato alla stregua di ogni altro cittadino e pubblico dipendente. In pratica, ciò significa che ogni provvedimento disciplinare viene preso solo quando il comportamento in oggetto è stato giudicato un reato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio. Il che, considerando i tempi della giustizia italiana, può richiedere una decina d’anni d’attesa. Ciò significa che, di fatto, il provvedimento immediato più severo per un poliziotto sorpreso a rubare in un negozio – reato grave moralmente, meno giuridicamente – è il trasferimento in un ufficio distante un paio di chilometri da quello in cui lavorava al momento del fatto. A ciò aggiunga l’atteggiamento di molti sindacati, più realisti del re e più attenti ai propri iscritti e alle loro deleghe che non ai cittadini. Scegliendo un esempio fior da fiore, in Francia e in Italia queste organizzazioni si sono fieramente opposte alla possibilità di controlli sul personale. Forse che la negazione aprioristica di comportamenti negativi (violenze, torture, ma anche altri reati) e la difesa dei loro possibili autori non è simile all’accettazione delle fabbriche di armi in nome della salvaguardia dei posti di lavoro? 

[…]

«Per chiarire la mia posizione, ho avuto modo di scrivere che “dovremo porci l’obiettivo di arrivare ad avere poliziotti così preparati sul piano professionale, così onesti su quello morale e così motivati su quello personale da essere percepiti dalla maggioranza del paese come al di sopra di ogni critica e di ogni sospetto. Avere poliziotti talmente autorevoli da rendere irreale il fatto che la loro parola valga quanto, se non meno, non solo di quella di un pregiudicato, ma anche di un normale cittadino. Avere poliziotti così integerrimi da rendere risibile qualsiasi critica di avvocati difensori, politici e pennivendoli. Avere poliziotti così corretti da rendere certa e automatica la condanna per ogni episodio di oltraggio a pubblico ufficiale denunciato da uno di loro. Avere poliziotti così onesti da impedire a qualsiasi magistrato anche il solo formarsi dell’idea di metterne uno sotto accusa”. Da tempo quest’obiettivo ha giustificato gran parte delle mie fatiche nel settore, ma sempre con la consapevolezza che si tratta di un traguardo a lungo termine che in certi momenti sembra anche a me del tutto irrealizzabile e onirico. Più prosaicamente, “ogni paese ha la polizia che si merita e, comunque, che è stato capace di darsi”.»

Insomma: ‘Il partito della Polizia’ fossi in voi lo leggerei. Senza riverenza. Confidando nell’intelligenza delle persone che non fanno “di tutta l’erba un fascio” in un libro che fa i nomi e i cognomi. Come piace a noi.