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Giulio Cavalli

Macchiavellismo Cattolico

In scena anche quest’anno (come tutti gli anni) a Rimini con il grande meeting di Comunione e Liberazione: uno dei totem del consociativismo che sembra intoccabile per non turbare le acque della politica, dell’economia, di Regione Lombardia, della sanità privata e naturalmente del signore (quello minuscolo venerato solo in preziosissimi crocifissi affissi). I professori della società orizzontale che poi non sa resistere al fascino verticale del potere politico (lo scrive oggi Di Vico sul Corriere) mentre coopta adepti e affari come una holding qualsiasi ma questa sì unta dal Signore.

Io non so fino a quando perderemo abbindolati contro questo cristo elettorale che viene crocifisso da una solidarietà solo tra sodali come nei clan meno etici e soprattutto non so fino a quando non avremo il coraggio di dirci laici almeno per il rispetto degli insegnamenti cristiani esposti come gadget dai mercanti del tempio. CL è, in Lombardia, la crosta che ha narcotizzato il merito e la trasparenza immolando Formigoni come presunto traditore dopo diciotto anni (18) di servilismo al guinzaglio. E poco conta che oggi il Celeste sia il pupazzetto lamentoso dell’anno; Letta e Lupi firmano le larghe intese come vangelo e ci condannano tutti ad essere streghe per il nostro voler essere di parte.

Siamo strani noi, ostinatamente non devoti al macchiavellismo cattolico scambiato per politica e fede. Sempre così laici da irretirsi per qualche condannato prescritto da Dio e noi che non ne eravamo computamente informati.

Il #femminicidio e la strada breve della sicurezza

Insomma alla fine hanno licenziato un decreto sicurezza (con annessi provvedimenti NO TAV e altre regalìe del genere) e per rivendercelo come un atto umanitario l’hanno chiamato ‘decreto femminicidio’: come se ci rubassero in casa chiamandola ‘perlustrazione di sicurezza’, una cosa del genere.

Ci sono momenti in cui la politica chiaramente perde. Perde quando si arrocca su se stessa, perde quando si gingilla in discussioni che non interessano a nessuno tranne che a quelli che discutono e perde rovinosamente ogni volta che semplifica, banalizza e spottizza (è un neologismo, lo so, non esiste, ma rende benissimo l’idea) un tema su cui si stanno spendendo le più belle menti e si sono accesi dibattiti finalmente spessi.

Già si è voluto trasformare un tema che (secondo i più stupidi) trattava “di femmine” in un tema (esagerando in idiozia) “da femmine” come si faceva alle elementari, ma questo decreto legge ha più di un punto di debolezza, come scrive Loredana Lipperini:

No, non mi piace. Parlo del decreto legge sul femminicidio così come è stato raccontato. Premetto che non ho avuto modo di studiarlo nei dettagli, e che la sensazione che ho è che la ex ministra Idem avesse un’idea molto diversa (altrimenti, perché convocare le associazioni che si battono contro la violenza, giusto qualche settimana prima di essere messa alla gogna e costretta a farsi da parte?).
Non mi piace perché è un decreto repressivo. E molte di noi hanno detto e ripetuto che nessuna repressione e nessun giro di vite porterà a risultati se non si insiste sulla prevenzione. Scuola. Formazione degli educatori. Libri di testo delle elementari. Educazione al genere, all’affettività, alla sessualità. Da subito. Di questo non si parla.
Non mi piace perché non si parla di centri antiviolenza, e tantomeno della loro moltiplicazione e finanziamento, da quanto è dato almeno capire. Non si  parla di centri di ascolto per uomini abusanti. Non si cerca di capire, formare e prevenire, ma si  pigia sul pedale della guerra fra i sessi, fornendo a chi ancora sputa la parola femminicidio come una caramella mal masticata ottimi argomenti per parlare di espediente securitario.
Non mi piace perché glissa sugli strumenti fondamentali: un osservatorio che monitori i femminicidi, dicendoci quanti sono e come avvengono. Fin qui, le indagini statistiche, come detto centinaia di volte, sono incomplete e generiche.
Non mi piace perché, come ha dichiarato Michela Murgia, la non revocabilità della querela “è una grande responsabilità che lo Stato si assume perché chi impedisce alla vittima di revocare la denuncia deve poter garantire che l’inasprimento degli abusi non ci sarà. O che se ci sarà, la donna verrà protetta. Lo dico perché nella stragrande maggioranza dei casi dal momento della querela le cose per chi ha subito violenze cominciano a peggiorare”. Non solo, aggiunge Michela, “io ho sempre creduto che una donna debba avere la libertà di decidere se vuole o meno denunciare. Per questo non sono molto d’accordo con la procedibilità d’ufficio che prevede anche che possa essere il pronto soccorso a inviare una segnalazione a polizia e carabinieri. Questo vale ancora di più oggi: se una donna, a un certo punto, non se la sente di continuare l’iter processuale, deve poter fare un passo indietro. Non è giusto trasferire questo diritto alle forze dell’ordine. È un’ulteriore sottrazione che si fa a chi di violenze già ne ha subite parecchie”.

Chi è Catello Maresca?

marescaCatello Maresca è un magistrato. Un magistrato che da anni lotta contro la camorra rimettendoci la propria sicurezza. Nell’aprile di due anni fa Giuseppe Setola, ‘o Cecato, il killer più spietato dei Casalesi, mentre si trovava  nell’aula-bunker di Santa Maria Capua Vetere dice rivolto proprio al Pm “Teniamo tutti famiglia: dottore Maresca, voi dovete lasciare stare la famiglia mia!”.

A Ferragosto ignoti (!) hanno commesso un furto nella sua abitazione. Come scrive Arnaldo:

Nonostante i durissimi colpi inferti dalla magistratura contro le criminalità organizzate, i servitori dello Stato oggi sono più soli che mai. Non è la prima volta che il giovane magistrato Catello Maresca, questo il suo nome,  finisce nel mirino. Il clan dei Casalesi lo vorrebbe morto. Avete letto bene, morto. Lui con caparbietà, intuito e furbizia investigativa è riuscito a stanare padrini del calibro di Michele Zagaria alias Capastorta, e Antonio Iovine, ‘o Nennillo, da decenni latitanti. Pochi mesi fa in carcere gli inquirenti registrarono un colloquio tra un detenuto (il vivandiere di Zagaria), e un suo parente: “Può essere che nel frattempo che faccio l’appello muore Maresca. Voglio vedere cosa succede. Muore di malattia per cazzi suoi”.

Decreto FARE: per l’urbanistica si torna indietro di 30 anni

Ė invece passato quasi inosservato un emendamento introdotto dal Senato al testo governativo che consente a Regioni e province autonome di approvare con proprie leggi e regolamenti disposizioni derogatorie al D.M. n. 1444/68, dettando “disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attivitá collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.”

Nonostante la forma circonvoluta e imprecisa, ė tuttavia molto chiaro l’obiettivo perseguito: si tratta dell’ennesimo e forse definitivo tentativo di sopprimere le conquiste ottenute alla fine degli anni Sessanta in tema di spazi pubblici minimi e distanze tra gli edifici (18 mq/abitante, distanza pari all’altezza degli edifici, con un minimo di 10 metri tra pareti finestrate), dopo i guasti della stagione liberista degli anni Cinquanta conclusasi con il massacro di molte delle nostre città da parte della speculazione edilizia e infine con il tragico episodio della frana di Agrigento.

Con la pretesa delle incombenti difficoltà economiche del settore edilizio, vedremo così vanificarsi non solo la stagione che tra il 1975 e il 1990 aveva visto molte Regioni rafforzare quelle conquiste, con la prescrizione di dotazioni pubbliche superiori a quelle minime nazionali, attestate attorno a 24-28 mq/abitante in sintonia con le tendenze europee, ma verrà meno anche il plafond minimo garantito dalle norme nazionali, che nemmeno regioni così selvaggiamente deregolatrici come la Lombardia erano sinora riuscite a sfondare completamente.

Non sorprende che a condurre questo attacco sia stato l’attuale ministro alle Infrastrutture Maurizio Lupi che come assessore al Comune di Milano prima e parlamentare FI e PdL poi – spesso in combutta con il parlamentare milanese Pierluigi Mantini della Margherita, in una sorta di premonizione delle larghe intese – nelle scorse legislature aveva portato avanti proposte di impronta filo-liberista che equiparavano interessi pubblici e privati, fortunatamente mai giunte a definitiva approvazione.

Ma qualcuno si era accorto di quello che scrive Sergio Brenna qui?