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Girovagando per l’Italia: dove siamo questa settimana

Oggi (che è lunedì) iniziamo alle 10.30 con una visita all’OPG (su cui vi consiglio di informarvi qui) di Castiglione delle Stiviere (MN) con il nostro candidato sindaco Franco Tiana. Poi alle 21 a Bollate (MI) per la serata sulle “mafie al nord” con Gianuigi Fontana (procuratore generale presso Tribunale Milano) Francesca Barra e Mario Portanova in Sala Consiliare, piazza Aldo Moro.

Martedì in Consiglio Regionale poi, alla sera, alle 20.45 con il libro “L’innocenza di Giulio” alla biblioteca comunale di Cologno al Serio (BG), piazza Garibaldi n.5.

Mercoledì sera, a Lodi,  “Il modello Formigoni non è salutare” sulla sanità poco sana di Regione Lombardia, con Roberta Morosini, coordinatrice SEL Lodi e Michele Galbiati, responsabile forum salute SEL Lodi, Alberto Villa, segretario FP CGIL Lombardia responsabile comparto sanità e Mauro Tresoldi, segretario FP CISL Lodi.

Giovedì alle 18 a Bergamo presento il libro “L’innocenza di Giulio” , Libreria Melbookstore, ore 18:00 via XX Settembre, 78/80.

Venerdì dalle 10 a Roma, Sede di Giurisprudenza della Luiss Guido Carli Viale Parenzo 11 Roma con Nicolò D’Angelo, Questore di Perugia, Gabriella De Martino, DNA, Ciro Corona, Associazione anti Camorra. Tutte le info le trovate qui.

Sabato sera a Como, in scena con NOMI, COGNOMI E INFAMI (Aula Magna del Politecnico Via Castelnuovo nr.7) per sostenere il candidato sindaco Mario Lucini.

Sappiamo dove incrociarci, insomma.

Andreotti, prescrizione non è assoluzione (ValigiaBlu sul libro L’INNOCENZA DI GIULIO)

di Matteo Pascoletti (da ValigiaBlu)

@valigiablu – riproduzione consigliata
Prima di essere un libro incentrato sui rapporti tra Andreotti e la mafia, L’innocenza di Giulio (Chiarelettere, 2012), scritto da Giulio Cavalli, è stato (è) uno spettacolo teatrale, sempre a opera di Cavalli, in cui ha preso parte Gian Carlo Caselli, che del processo Andreotti è stato il pm. Che Italia è, viene da domandarsi, quella in cui un magistrato deve salire su un palco per spiegare che un sette volte Presidente del Consiglio, nonché senatore a vita, è stato «prescritto»? Cavalli, in un percorso che dal palcoscenico è arrivato fino agli scaffali delle librerie, risponde al quesito. Lo fa trasformando gli atti giudiziari in racconto, un’operazione necessaria perché la verità che le carte attestano cessi di essere un fatto tecnico, appannaggio di pochi, e diventi un fatto pubblico che riguarda tutti, piaccia o no: «voglio ripercorrere un’inchiesta il cui fuoco sembra essersi spento sotto la cenere dei dibattiti facili e delle chiacchiere da bar».Riguardo alla sentenza, scrive il giudice Gian Carlo Caselli nella prefazione:

… per un congruo periodo di tempo, il senatore Andreotti è stato colluso con Cosa nostra. Questa verità dovrebbe rimanere scolpita nella memoria del paese, specialmente se parliamo di una persona che per sette volte è stata presidente del Consiglio e per ventidue volte ministro. E invece no. Queste parole sono state sapientemente esorcizzate, stravolte, cancellate. Le sentenze (emesse in nome del popolo italiano) vanno motivate affinché il popolo possa sapere per quali motivi appunto si viene assolti o condannati, ma anche perché il popolo possa conoscere i fatti che stanno alla base dei motivi per cui una persona è chiamata a rispondere di determinate azioni fronte a un tribunale. Qui il popolo è stato truffato.

Parlare di «prescrizione» o «assoluzione» riguardo al processo Andreotti significa perciò scegliere da che parte stare rispetto a una simile “truffa”. E questa parte non ha i colori di una maglia da tifoso, indossata mentre si grida, in faccia all’altra parte, «Prescritto! Prescritto!». Né coincide con un modo molto semplificato, e molto comodo, di guardare ai processi giudiziari, come se, per riprendere la metafora sportiva, “assoluzione”, “condanna” o “prescrizione” fossero un risultato da confrontare con ciò che si era precedentemente indicato sulla schedina. Questa parte, invece, considera necessario tradurre in verità storica una verità accertata in sede giudiziaria, cercando il più possibile di far sedimentare la verità storica nella memoria collettiva del paese.

Ossessione giustizialista? Niente affatto. In una puntata di Otto e mezzo andata in onda su LA7 lo scorso 17 febbraio, un serafico Maurizio Lupi parlava, a distanza di otto anni dalla sentenza definitiva, di Andreotti «assolto». Evidentemente o questo paese ha una memoria vaga e fallace, oppure di fronte a certi fatti preferisce anestetizzarsi con un potente narcotico: il negazionismo. Perché Andreotti, come ricorda nel libro Giulio Cavalli, è stato un uomo chiave di un sistema di potere politico che ha dialogato con la mafia arrivando all’intesa; arrivando al concorso esterno (accertato fino al 1980, nel caso di Andreotti), o persino alla subalternità, come nelle circostanze che hanno preceduto il delitto Mattarella, «la storica relazione che si rovescia: la mafia che usa la politica per correggere il tiro». Andreotti, «spericolato mediocre» dai «modi sottili», ha coltivato questo dialogo per proprio tornaconto, non facendo caso ai danni inflitti alla cosa pubblica, o ai morti disseminati lungo quella strada in cui il potere cerca interlocutori per accrescere se stesso e consolidarsi, diventando egoismo privato. La ferocia grigia con cui Andreotti ha commentato le uccisioni di servitori dello Stato come Ambrosoli e Dalla Chiesa non è stata una forma di umorismo cinico, o un cedimento al gusto per la boutade. È stata il modo con cui un certo tipo di potere, linguisticamente e culturalmente, ha negato in pubblico gli effetti più sanguinosi delle varie connivenze tra Stato e mafia. Un allontanamento necessario, perché la cultura della connivenza non può tollerare figure dalla schiena dritta che incarnano una testimonianza antitetica di cultura politica:

Subito dopo l’omicidio di Dalla Chiesa, Giampaolo Pansa gli chiede [ad Andreotti] perché non si sia presentato alle esequie del generale, e lui, con la solita voce grigia, proprio come l’anima, risponde: «Preferisco i battesimi ai funerali». 

«Perché venne ucciso Giorgio Ambrosoli?» ha chiesto a Giulio nel settembre del 2010 il giornalista Giovanni Minoli. «Questo è difficile, non voglio sostituirmi alla polizia o ai giudici, certo è una persona che in termini romaneschi se l’andava cercando».

Cavalli, spesso citando passaggi chiave del processo, usa la propria abilità di narratore per mostrare quante e quali verità oscene sono nascoste dalle menzogne pronunciate da Andreotti. Oscene proprio perché Andreotti, per giustificare il potere che ha esercitato negli anni, ha avuto bisogno di mentire, tenendo certe verità il più possibile lontane dall’opinione pubblica e, in ultimo, dalle aule di tribunale. «Mai conosciuto i cugini Salvo, ripete Giulio, mai»: è questo mantra a scandire il capitolo dedicato ai rapporti tra Andreotti e i cugini Salvo, e ogni ripetizione è un dito puntato contro gli incontri, le collusioni, gli interessi personali e la totale noncuranza per ciò che dovrebbe essere, in una democrazia, la politica.

L’innocenza di Giulio va letto complessivamente come un libro che si concentra su Andreotti per parlare dell’Italia, della storia politica e morale del paese. Merita attenzione l’ultimo capitolo, dedicato alle “innocenze di Giulio” che hanno costellato la storia italiana a partire da un lontano primo febbraio del 1893: è il giorno in cui la mafia uccide Emanuele Notarbartolo, direttore del Banco di Sicilia che ha denunciato al Ministro dell’Agricoltura le collusioni tra la mafia e alcuni membri del consiglio di amministrazione della banca; quasi un Ambrosoli ante litteram. I responsabili dell’omicidio, il capomafia Giuseppe Fontana e don Raffaele Palizzolo, sono assolti per insufficienza di prove nel 1903, dopo un’iniziale condanna. E la storia di un’Italia istituzionale che si professa innocente intanto che il sangue gli scorre sotto le suole, venendo a tempi più recenti, sembra ripetersi con Dell’Utri, secondo Cavalli. Il libro, infatti, è andato in stampa prima che la Cassazione assolvesse Dell’Utri per i reati contestati dopo il 1992, periodo chiave per capire l’eventuale ruolo della mafia nella nascita di Forza Italia; una sentenza che Cavalli presagisce con amara ironia: «ogni lustro avrà sempre la sua innocenza di Giulio».

Il titolo del libro può essere inteso come metafora di un potere, corrotto negli scopi e negli strumenti, dall’andamento ciclico. Andreotti ne è stato un interprete, e non un artefice. Questo particolare potere, ci fa capire Cavalli, di fronte al popolo sovrano avrà sempre bisogno di assolversi da quei crimini commessi proprio a danno del popolo sovrano, legittimando così l’illecito con leggi apposite o sentenze pilotate. Riuscirà sempre e comunque nell’intento, finché voltarsi dall’altra parte, invece di essere visto come un’omertosa complicità, nel senso comune sarà percepito come un’accettabile compromesso per partecipare al potere, o un prezzo ragionevole per il quieto vivere. Contro questa cultura la poetica di Cavalli usa la parola per dare vita alla memoria, rendendola finalmente cosa pubblica. Una legittima difesa della coscienza contro l’ipocrisia con cui ci si siede al tavolo del potere per barattare la propria libertà con qualche briciola di privilegio:

Ogni tanto ti aspetteresti, però, che la storia avesse un po’ di memoria. Se non la gente, almeno la storia, così da poter raccontare per costruire il futuro, e non solo per ricordare. E invece la storia sta sempre lì, seduta a guardarti, petulante e noiosa come una bimbetta antipatica, mentre la memoria buona finisce per essere commemorata e poco esercitata.

Cominciare dalle periferie

Una riflessione di Alessandro Balducci.

Ponte Lambro è un quartiere di Milano fino a ieri noto come una zona da evitare. Se oggi ci passate scoprirete un moderno quartiere residenziale accogliente. Le famigerate «case bianche» non sono più tali: hanno colori allegri, coordinati e diversi; dalle facciate sono sparite (perché centralizzate) le mille parabole che denunciavano il recente carattere multietnico del quartiere; i piani terra una volta invasi di scritte e graffiti, sono puliti e ben tenuti; le aiuole fiorite e curate, gli spazi pubblici frequentati; i pochi servizi come la posta, il mercato comunale, il centro civico, la parrocchia, la scuola elementare sono animati da persone gentili e capaci. Insomma qualcosa è cambiato.

Le ragioni dello stigma del quartiere avevano molto a che fare con la disattenzione pubblica, sfociata più volte nel maltrattamento. All’origine vi erano i due grandi interventi di edilizia popolare realizzati in fretta e furia negli anni 70, occupati abusivamente, che si erano inseriti con violenza in un piccolo borgo di artigiani. A metà degli anni 80 viene chiusa la scuola media per insediarvi l’aula bunker per i processi di mafia (più sicurezza!). Per i Mondiali di calcio del ’90 viene iniziata la costruzione di un grande albergo il cui scheletro abbandonato è rimasto per vent’anni come monito e vergogna per Milano. Più di recente un’area verde è stata trasformata in un deposito di autobus. Anche gli interventi di pregio come l’ospedale Cardiologico Monzino e il Centro di riabilitazione della Fondazione Maugeri sono atterrati come isole in un territorio ostile. Un territorio dove la città ha scaricato tutto ciò che non poteva mettere altrove.

La situazione inizia a cambiare a metà degli anni 2000 quando il Comune lancia il Progetto Periferie che prevede la realizzazione di un «laboratorio di quartiere». Le prime mosse producono ulteriore delusione: il promettente progetto di Renzo Piano per inserire nuove funzioni nelle case bianche si risolve nello svuotamento di 40 appartamenti che restano murati per anni: mancanza di fondi. Ma il coinvolgimento degli abitanti, la passione di chi si occupa del Laboratorio di quartiere e la volontà di riscatto producono risultati concreti: i programmi di riqualificazione degli stabili, la risistemazione dei servizi pubblici e il loro rilancio, la scelta dei colori delle case, vengono decise insieme agli abitanti. Negli ultimi mesi il processo di rigenerazione si è accelerato: è stato finalmente aperto il cantiere per la riutilizzazione degli appartamenti murati e l’assessore all’Urbanistica è riuscita a ottenere la possibilità di demolire finalmente entro l’estate ciò che resta dell’albergo dei Mondiali.

Si sta anche discutendo di un progetto modello che aumentando la popolazione consenta la riapertura della scuola media, la realizzazione di un parco e di nuove attrezzature capaci di attrarre utenti dall’esterno per integrare meglio il quartiere nella città. Ponte Lambro è una dimostrazione che risanare le periferie si può, che la rigenerazione ha soprattutto a che fare con la cura e la ricostruzione del senso di cittadinanza degli abitanti. C’è da augurarsi che l’esplosione che demolirà l’ecomostro seppellisca per sempre anche un approccio alla periferia come luogo della disattenzione e della semplificazione.

Il Paese dei suicidati

Leggo la notizia dei dati di suicidi di imprenditori dal Corriere e leggo i partiti che ci dicono di non potere rinunciare ai rimborsi pubblici perché altrimenti chiuderebbero. E (senza cadere nell’antipolitica o nel populismo) mi chiedo se non sia il caso di provare a parlarne tenendo bene a mente le diverse vie d’uscita scelte (e possibili) da due mondi con lo stesso problema. Di cosa sono vittima gli imprenditori suicidati? Ci può davvero bastare “la crisi” come risposta? La chiudiamo così? Io non credo che esistano formule magiche e forse non ho nemmeno le soluzioni pronte, mi piacerebbe però che il titolo di apertura dei giornali fossero i lavoratori (imprenditori, artigiani, operai, giovani: tutti) che muoiono di lavoro piuttosto che la contabilità sempre garantita dei partiti. Perché poi non affidiamoci ai luminari analisti per capire perché il partito di maggioranza è quello degli astenuti. E il compito di tenere alta l’attenzione è un dovere politico.

Dall’inizio del 2012 in Italia ci sono stati 23 suicidi di imprenditori. La statistica è stata stilata dalla Cgia di Mestre, che ha preso in esame i casi legati in qualche modo alla crisi economica. Ben 9 dei 23 complessivi (pari al 40% del totale) sono stati registrati solo in Veneto.

 AZIENDE IN GINOCCHIO – Secondo i dati diffusi dall’osservatorio mestrino, il 49,6% delle aziende chiude i battenti entro i primi 5 anni di vita e solo da inizio 2012. «La grave difficoltà che stanno vivendo le imprese, soprattutto quelle guidate da neoimprenditori – dichiara Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre – è causata da tasse, burocrazia, ma soprattutto mancanza di liquidità. Sono i principali ostacoli che costringono molti neoimprenditori a gettare la spugna anzitempo. È vero che molte persone, soprattutto giovani, tentano la via dell’autoimpresa senza avere il know how necessario, tuttavia è un segnale preoccupante anche alla luce delle tragedie che si stanno consumando in questi ultimi mesi».

Piazza della Loggia: siamo stati noi

La Corte d’assise d’appello di Brescia ha assolto Carlo Maria Maggi, Delfo Zorzi, Maurizio Tramonte e il generale dei carabinieri Francesco Delfino nel IV processo per la strage di Piazza della Loggia, avvenuta nel 1974. In primo grado, il 16 novembre 2010, i 4 erano stati assolti con formula dubitativa.

Nei confronti del quinto imputato del processo di primo grado, Pino Rauti, anch’egli assolto, non era stato presentato ricorso da parte della Procura ma solamente da due parti civili. Uno dei ricorsi è stato dichiarato inammissibile con la conseguente disposizione del pagamento delle spese processuali a carico delle parti civili. Prima di leggere la sentenza, il presidente della Corte d’assise d’appello, Enzo Platè, ha ringraziato i giudici popolari per l’impegno e lo scrupolo profusi durante la durata del processo. 

Si sono detti «sereni perché è stato fatto tutto il possibile» il procuratore Roberto Di Martino e il pm Francesco Piantoni, titolari dell’inchiesta sulla strage di piazza della Loggia che causò 8 morti e oltre cento feriti il 28 maggio del 1974. «Ormai è una vicenda che va affidata alla storia, ancor più che alla giustizia», ha commentato il procuratore di Martino. La procura attenderà il deposito delle motivazioni per decidere se ricorrere in Cassazione. 

E se una strage passa alla storia (quella volutamente minuscola che è sempre in pasto ai più voraci millantatori e revisionisti) allora significa che abbiamo perso noi. Dove non ci sono i colpevoli allora i colpevoli sono i morti?

Restiamo umani. Un anno dopo per tutti gli anni dopo.

Restiamo umani. Lo so, chiamare in questo modo lo speciale dedicato a Vittorio Arrigoni ad un anno dalla sua morte, non è originale. Avremmo potuto cercare espressioni o slogan con più effetto, forse più creativi. Ma poi ci siamo chiesti: esiste un’espressione migliore per descrivere l’impegno di Vittorio Arrigoni e, più in generale, di coloro che credono per la pace? No. Perché il “restiamo umani” rappresenta il bisogno di non perdere il senso dell’umanità mai e in nessun caso. Perché l’umanità, la difesa della dignità degli uomini è l’unica risposta all’odio, al fanatismo, all’intolleranza. Perché la pace – non siamo così ingenui da non saperlo – è spesso sedicente tale o espressione di equilibri di potere. Ma la vera pace non può che passare attraverso una reale ricoversione dei cuori. No all’odio, no al fanatismo, no all’ingiustizia. No a privare chiunque della sua umanità.

Vittorio Arrigoni è un personaggio scomodo. Difficile. Una persona a tinte forti. Che divide. Lo sappiamo e non lo nascondiamo.

E tuttavia il nostro desiderio è quello di andare oltre la semplice commemorazione, ma far nascere da questo sito nel sito (che resterà online per una settimana) un sereno dibattito, un confronto, una riflessione. Sulla pace, sul pacifismo, su Gaza, su ciò che accade in medio oriente. Un confronto senza anatemi, insulti, proprio nel rispetto dell’umanità con la quale vogliamo ricordare una tragica morte. Lasciate la vostra testimonianza, scrivete i vostri commenti, partecipate al ricordo di Vittorio Arrigoni.

Quanto a Vik abbiamo pensato che il modo migliore per raccontare la sua visione del mondo e della vita fossero proprio i suoi scritti. Li abbiamo ripubblicati senza commenti, così come li aveva fatti.

Doveroso, infine, ringraziare Egidia Beretta Arrigoni e Maria Elena Delia. Se oggi questo sito è online è anche grazie alla loro disponibilità.

Lo scrive Gianni Cipriani presentando lo speciale che trovate qui.

 

Una risposta alla Santanché

Arriva proprio da Nilde Iotti, che lei paragona a Nicole Minetti così impunemente.

È necessario cogliere negli altri solo quello che di positivo sanno darci e non combattere ciò che è diverso, che è “altro” da noi.

Nilde Iotti, su Corriere della Sera, 1987

Ma va? Legge Harlem contro i negozi etnici impugnata.

Il governo impugna la ‘legge Harlem’ contro i negozi etnici in LombardiaSecondo il governo ci sarebbero però requisiti di incostituzionalità, perché la legge “contiene disposizioni restrittive in materia di esercizio di attività commerciali da parte di cittadini di Paesi non europei e dell’Unione europea – si legge nel comunicato – che contrastano con i principi comunitari e statali in materia di condizione giuridica degli stranieri, tutela della concorrenza e disciplina delle professioni, con violazione dell’articolo 117 della Costituzione, e in materia di rilascio e rinnovo delle concessioni del suolo pubblico per l’esercizio del commercio che contrastano con la normativa statale e comunitaria in materia di servizi. 

Peccato, perché come avevo già scritto la discussione era stata proprio edificante.

Impara dalla Mafia

E’ il titolo di un libro edito in Europa (in Italia pubblicato da Rizzoli col titolo: ”La regola del Padrino. Lezioni di Cosa Nostra per i business“). Marco Nurra me ne aveva parlato su twitter mentre se l’era ritrovato tra le mani in aeroporto. Del favoreggiamento culturale alla mafia ne avevamo già parlato qui e ora il dibattito continua sul blog di MarcoE infine l’amara constatazione che ‘Mafia‘ è un marchio che all’estero vende, un po’ come il famoso e ormai privo di significato ‘Made in Italy‘.  Al mio ritorno a Madrid ho scoperto che il libro di Ferrante è in bella vista un po’ ovunque (e io sono di quelli che entrano in tutte librerie che incontra). Mi chiedo che visibilità abbiano dato a questo libro in Italia, pubblicato da Rizzoli col titolo: ”La regola del Padrino. Lezioni di Cosa Nostra per i business“.

Qualcuno l’ha visto in libreria? Cosa ne pensate dei prodotti culturali che ammiccano alla Mafia?

Il resto qui.

Mi ripeto, il giorno che finalmente riusciremo a scrivere e sancire il reato di favoreggiamento culturale alla mafia forse ci sentiremo tutti più civili.

(E intanto il libro IL CASALESE lotta contro la censura che vorrebbe imporre Nicola Cosentino, per dire).