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Gli italiani che derubano sui rom

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Ogni tanto la cronaca regala drammaturgie finissime, inaspettate come saprebbe fare solo la penna di un creativo potente: a Roma, dopo una campagna elettorale (fiacchetta) di salvinate contro i rom succede ancora una volta che un’indagine della magistratura racconti quanta gente continui a lucrare sui campi rom. Illegalmente. Rubano sui campi rom e sono italiani, italianissimi. Romani al midollo.

I problemi in Italia sono problematici solo per quelli che non ci guadagnano: i rom, i rifugiati, gli ammalati, gli anziani, i disabili, i disoccupati, i senza casa e molti altri fragili ancora sono una miniera d’oro per chi ha lo stomaco di non intenerirsi. E oltre a essere un’ottima palude per un funzionale sistema correttivo si può anche fingere di intenerirsi o odiarli secondo le bisogna. Cosa c’è di meglio di un nemico da abbattere disponibile a diventare un’emergenza stabile?

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A Roma chiudere l’ufficio rom, intanto.

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A proposito degli arresti di oggi a Roma vale la pena leggere l’intervento di Claudio Stasolla, presidente dell’Associazione 21 luglio:

«La prima volta che ho incontrato Virginia Raggi è stato in una giornata di fine estate del 2013 quando, come consigliera comunale, mi chiese di organizzare una visita presso alcune baraccopoli della Capitale. Da alcuni giorni donne e bambini rom vagavano lungo le strade di Tor Sapienza dopo il primo sgombero organizzato dalla Giunta Marino, che aveva messo per strada 35 famiglie in precedenza scappate da Castel Romano. Andammo da loro e per strada, sotto un telone di nylon, ascoltammo le loro storie di persone alle quali le ruspe comunali, oltre alla abitazioni, avevano abbattuto i diritti fondamentali. Virginia pianse.

Poi, sulla strada del ritorno, passammo a visitare una famiglia nella baraccopoli di Salone. Ad accoglierci fu Maria che ci parlò dei suoi quattro figli, del marito incensurato che non ce la faceva più a raccogliere ferro, della dermatite dovuta all’ansia che le aveva macchiato il volto e le braccia. Fu una visita breve ma intensa. Al ritorno in macchina le solite frasi di rito, dettate dalla rabbia e dalla frustrazione: «Questi campi non devono più esistere. Dobbiamo fare qualcosa!»

Oggi Virginia Raggi – che da quel giorno ho incontrato più volte nel tentativo di trovare insieme risposte al superamento delle baraccopoli – è diventata sindaco e quel «Dobbiamo fare qualcosa!» assume un valore diverso perché entra nella sfera della possibilità concreta. Ma per farlo occorre seguire un ordine di priorità chiaro e definito anche se, dopo gli arresti delle ultime ore, una cosa è urgente realizzare: chiudere l’Ufficio Rom del Comune di Roma, da vent’anni chiamato a gestire la vita all’interno dei cosiddetti “campi nomadi” della Capitale.

Non sarà una cosa facile! Si tratta di rimuovere dirigenti, funzionari delle forze dell’ordine, assistenti sociali, sedicenti “rappresentanti rom” direttamente o indirettamente collusi con un sistema dove scorrono mazzette, dove si parla il linguaggio del sopruso, dove la corruzione è sempre presente dietro l’angolo. Lo denunciamo senza mezzi termini da anni: c’è una massa cancerogena all’interno dell’amministrazione capitolina, che va estirpata alla radice perché con la sua presenza sarebbe garantito il fallimento di ogni intervento di discontinuità. La prima volta che lanciai questa raccomandazione fu nel corso di un convegno in Campidoglio, alla presenza dell’assessore di turno. Seguì un lungo brusio che tagliava un’aria pesante. Due mesi dopo la Guardia di finanza perquisì gli uffici dell’assessorato ed eseguì un arresto.

Quando scrivo di “massa cancerogena” mi riferisco a persone in carne ed ossa che da Veltroni ad oggi, passando per Alemanno, Marino e due commissari straordinari, sono sempre rimasti al loro posto, tra sgomberi, trasferimenti forzati, aperture e chiusure di nuove baraccopoli, incontri istituzionali, convegni,… Le stesse che in questi anni, la mattina operano sgomberi forzati a braccetto con i “capi rom” consenzienti, all’ora di pranzo li ritrovi dietro una scrivania degli uffici comunali, alla sera li incontri in un aperitivo a conversare con rappresentanti istituzionali o di organizzazioni che operano nel sociale. Tutto intorno a loro è cambiato ma loro sono sempre rimasti al loro posto, come pedine di una partita dove chi vince sono i furbi e i perdenti sono i cittadini rimasti indietro. Perché anche a questo servono i “campi rom” della Capitale: ad acquisire potere e ad accumulare fortune. E da questi Virginia Raggi dovrà ripartire da subito per dare un segnale di legalità e di rispetto dei diritti perché è davvero giunto il momento nel quale «Dobbiamo fare qualcosa!».

Quelli che a sinistra si attaccano alle braghe di De Magistris

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A urne chiuse, tra vincitori e vinti, rimbomba la caduta di una sinistra che ormai sembra sprofondare nell’endogamia politica e culturale. Mentre il PD perde voti, in un momento che sarebbe stato ghiottissimo per riproporre quegli stessi temi che Renzi ha definitivamente abbandonato (e che il PD sembra incapace di sostenere dopo la sua mutazione genetica), la sinistra riesce non solo a non guadagnarne ma, dati alla mano, nemmeno a mantenerli. Banalmente: la sinistra non vota più il PD ma non vota nemmeno questa sinistra. Pensa te.

I deludenti risultati di Fassina a Roma, Giraudo a Torino e Basilio Rizzo a Milano hanno aperto una crisi interna (Sinistra Italiana è in pieno subbuglio ma anche gli altri non stanno meglio) che ripropone per l’ennesima volta il tema di una credibilità che si fatica a ricostruire. La sinistra (anzi sarebbe meglio dire le sinistre) ha perso la connessione con il suo popolo ma in questo momento sembra immobilizzata dalla miopia delle sue letture della realtà.
Come ripartire? La moda delle ultime ore porta al nome di Luigi De Magistris. Dovrebbe essere lui, secondo i calcoli dei dirigenti a sinistra, l’uomo nuovo su cui puntare e fa niente se fino a qualche settimana fa lo stesso De Magistris è stato trattato come disturbante “elemento esterno” della sinistra nazionale: nel disastro c’è sempre bisogno di una salvatore, evidentemente. Anche a sinistra.

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Mi chiamo Erdogan e sparo ai bambini. Pagato dall’Europa.

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L’Europa piange lacrime di polistirolo per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato che, visto il quadro generale, sembra uno scherzo mal riuscito. Invece no. Ieri tutti i burocrati hanno finto almeno per un minuto di essere tutti contriti per poi lasciarsi andare all’ammazzacaffè. La Giornata Mondiale del Rifugiato è un po’ come il progetto di un distributore automatico di diritti: buono per farci sopra narrazione da campagna elettorale ma poi alla fin fine semplicemente una perversione da calendario.

Intanto, ventiquattro ore prima, le guardie turche (i militari servetti di una nazione indegna di essere considerata democratica eppur profumatamente pagata dall’Europa per “risolvere” il problema dei rifugiati) hanno pensato di schiacciare il grilletto per disinfettare il confine: sarebbero otto morti di cui quattro bambini. Un presepe di cadaveri. Una cosa così.

Le fonti ufficiali turche (che valgono più o meno come le dicerie da bar) dicono e non dicono, confermano ma non troppo e infine cercano di raccontare la difficoltà di “vigilare i confini”.

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I #ciaone non finiscono: fanno giri immensi e poi ritornano

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Dice Rondolino che il Pd ha vinto. Dice il senatore Esposito da Torino che per il Pd non è andata così male come qualcuno vorrebbe far credere. Peccato che quel “qualcuno” siano gli elettori. Ma vabbè. Dicono in molti che non è un voto politico sul governo Renzi. Certo che no: è contro il governo Renzi. E il dispiacere (da italiano) più grosso è che in fondo i renzini e i renziani siano riusciti ad esibire così tanta arroganza che alla fine diventa difficile discernere il risentimento dalla politica. Comunque:

A Milano Beppe Sala vince male. Certo una vittoria è una vittoria ma quello che doveva essere un calcio di rigore si è trasformato in un successo strappato con fatica ai supplementari. E non so se davvero ci sia molto da festeggiare tenendo conto del fatto che Beppe Sala fosse appoggiato da Pisapia (piuttosto sbiadito), Renzi (ultimamente con un po’ di titubanza) mentre dall’altra parte Parisi dovesse sopportare di avere sullo sfondo le macerie del centrodestra e la faccia di Salvini (e la Gelmini e La Russa per citarne un paio).

A Napoli vince De Magistris contro tutti. Ancora. 
Mentre ci dicevano che non sarebbe mai stato in grado di governare in realtà si è fatto rieleggere dopo 5 anni da sindaco. A Napoli. E chissà se Renzi non si sia reso conto che anche qui le sue parole contro il sindaco sono state un ottimo volano.

A Roma vince la Raggi. Ma anche qui straperde il PD. Giachetti (con faccia sollevatissima) ha promesso opposizione dura in consiglio comunale.
 Lui, da vicepresidente della Camera. Fantastico. Ah, tra le altre cose non solo non c’è stata rimonta ma il risultato è peggio delle peggiori previsioni. Pagherei per avere la drammaturgia dei pensieri notturni di Ignazio Marino.

Torino, beh, Torino […]

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Ora è sentenza: la ‘ndrangheta esiste

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Ne scrive Attilio Bolzoni per Repubblica:

La mafia non ci sarà ad Ostia – come assicurano i giudici della Corte di Appello di Roma – però, in Calabria, sicuramente la ‘ndrangheta c’è. Detta così potrebbe sembrare anche una banalità, ma per la prima volta — ieri — la Cassazione ha messo il suo bollo sull’esistenza in vita di questa associazione criminale segreta. Una sentenza di ultimo grado attesta che la ‘ndrangheta non è un’invenzione letteraria o giornalistica, è una mafia con i suoi capi e le sue regole, è una mafia pericolosissima che per lungo tempo ha considerato la Calabria il cortile di casa propria.

Se lo ricorderanno i boss di Reggio, e quelli della Piana di Gioia Tauro e gli altri dell’Aspromonte, il 17 giugno del 2016 — un venerdì 17, sarà un caso? — data indimenticabile per la giustizia italiana e anche per loro, i capi di una consorteria di assassini che per decenni è rimasta al riparo, lontana dai riflettori, nascosta, impenetrabile.

La ‘ndrangheta c’è, è una e una sola («Ha una struttura unitaria»), ha un governo («È un vertice collegiale chiamato “la Provincia”») composto da rappresentanti delle «locali» («Le organizzazioni che comandano sul territorio ») di Reggio Calabria, della costa tirrenica e di quella jonica e che ha potere in tutti i luoghi — il mondo intero — dove si è diffusa e radicata. Questa sentenza della Suprema Corte ha un valore che non è eccessivo definire storico. Come quello della Cassazione del 30 gennaio del 1992 sul maxi processo istruito da Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, fino ad allora c’era una mafia dominante ma per la legge sempre presunta. Così oggi, come un quarto di secolo fa per Cosa Nostra, nel marmo della giurisprudenza viene scolpito il nome ‘ndrangheta.

È il gran finale di una battaglia portata avanti dallo Stato dopo anni di colpevole «dimenticanza» dell’aristocrazia criminale calabrese, un’associazione ritenuta a torto «minore» e che in virtù della scarsa considerazione che godeva negli apparati investigativi-giudiziari — ma anche perché aveva strategicamente scelto di non fare la guerra alle Istituzioni come la Cosa Nostra di Totò Riina in Sicilia — nel cono d’ombra è riuscita a conquistarsi spazio e ricchezza. E, stagione dopo stagione, fama di mafia più ricca e potente d’Europa con ambasciatori e alleati dall’Australia al Venezuela, dal Messico al Portogallo. Naturalmente con una capacità enorme di infiltrazione anche in Italia, soprattutto a Roma, a Milano, in Emilia, in Piemonte.

Una scalata silenziosa fino all’assassinio a Locri nell’ottobre del 2005 del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno e fino alla strage di Duisburg dell’agosto del 2007, sei ragazzi di San Luca uccisi fuori da un ristorante sulle rive del Reno. Da quel momento anche la ‘ndrangheta è diventata un’«emergenza nazionale». Sono cominciate le indagini vere dopo gli anni del «dialogo» e della non belligeranza con le cosche, del quieto vivere. A Reggio è arrivata una squadra di primissima scelta di investigatori dell’Arma dei carabinieri, della polizia e della finanza con il nuovo procuratore Giuseppe Pignatone e il suo vice Michele Prestipino (a loro si sono affiancati nei vari gradi di giudizio i pubblici ministeri Giovanni Musarò e Antonio De Bernardo) che hanno portato in Calabria un «metodo» — collaudato nelle «campagne» di Palermo — che ha rivoluzionato le indagini. Così è nata nel 2008 l’inchiesta «Crimine» fra le procure distrettuali di Reggio Calabria e di Milano e così si è messa la parola fine, con la sentenza della Cassazione di ieri pomeriggio, alle incertezze più o meno interessate sull’esistenza di una ‘ndrangheta come mafia dotata di una sua classe dirigente e con un’ossatura capillare non solo nelle terre di origine ma con presenze significative anche in tutti e cinque i Continenti.

È appena sei anni fa — il 30 marzo del 2010 — che il legislatore ha aggiunto a «Cosa Nostra» e a «Camorra», la parola «’Ndrangheta» fra le pieghe dell’articolo 416 bis, l’associazione di tipo mafioso. È nel 2008 che sono partite le prime indagini che hanno scoperto la realtà di una mafia calabrese, non un insieme di bande slegate una dall’altra ma un’organizzazione unica. È nel luglio del 2010 che sono stati firmati 121 provvedimenti di custodia cautelare contro altrettanti personaggi. I capi di Rosarno e di Gioia Tauro, di Palmi, di Locri, di Platì, di Africo. In primo grado, l’8 marzo del 2012, ne sono stati condannati una novantina e, soprattutto, ha retto l’impianto accusatorio sull’«unitarietà » dell’organizzazione. In secondo grado, il 27 febbraio del 2014, condanne quasi

tutte confermate e tesi dei pm che hanno tenuto al vaglio dei giudici d’Appello. Adesso la Cassazione ha scritto l’ultimo capitolo su una mafia considerata in passato di serie B. E che invece, dopo le stragi siciliane del 1992, ha salvato con le sue trame il sistema criminale italiano.

Referendum: la Rai dedica 7 ore al Sì e 1 minuto al No. Non è uno scherzo.

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Ne ha scritto Marco Palombi:

Sette ore contro un minuto e 19 secondi contando tutti i programmi gestiti dai telegiornali Rai (Tg1, Tg2, Tg3 e Rainews) nei 47 giorni che corrono dal 20 aprile al 6 giugno scorso. Le sette ore sono quelle in cui Matteo Renziha parlato del referendum costituzionale di ottobre o è stata riportata la sua posizione sul tema, mentre il minuto e 19 secondi è il tempo che la tv pubblica ha dedicato per lo stesso motivo ad Alessandro Pace, uno dei più importanti costituzionalisti italiani e presidente del Comitato per il No.

Questi due dati sono contenuti nelle tabelle (grezze) su cui l’Autorità per le comunicazioni (Agcom) effettua poi le sue rilevazioni e danno l’idea dell’aria che tira nella tv di Stato rispetto alla “madre di tutte le sfide”, come la chiama il premier, ovvero il voto che tra qualche mese gli italianisaranno chiamati a dare sulla riforma Boschi. I dati, come detto, sono grezzi: riguardano solo il minutaggio riferito al referendum costituzionale. In gergo viene rilevato il “tempo di parola” (quello in cui il soggetto parla) e il “tempo di notizia” (quello in cui si parla di ciò che ha detto o fatto il soggetto): la somma dei due è il cosiddetto “tempo di antenna”, quello che Renzi ha avuto per 7 ore e Pace per 79 secondi.

Martedì le opposizioni avevano chiesto un’audizione del direttore generale Rai, Alessandro Campo Dall’Orto, per chiedergli conto dell’occupazione di governo e sostenitori del Sì delle reti Rai (con annesso bavaglio al No); ieri le tabelle dell’Agcom – che Il Fatto ha potuto visionare – hanno dimostrato che non si trattava di un vaneggiamento. Ovviamente, i dati sono grezzi: il tempo di notizia, in particolare, andrebbe analizzato secondo criteri oggettivi, ma la “preferenza” accordata al Sì è patente. Restando al tempo di antenna, oltre alle 7 ore di Renzi, va segnalata l’ora e 25 minuti appannaggio di Maria Elena Boschi e i 36 minuti di Giorgio Napolitano.

Il costituzionalista Pace, come detto, ha avuto un minuto e 19 secondi, mentre il capofila del fronte del No (finché non cambia idea) è Silvio Berlusconi con 55 minuti di presenza in Rai, più del doppio dei venti minuti di Luigi Di Maio del direttorio 5 Stelle, a sua volta imparagonabilmente più seguito dell’ex vicepresidente della Consulta Valerio Onida.

Più affidabili, quanto a significato politico ed editoriale, sono i dati del “tempo di parola”, cioè quanto effettivamente i vari protagonisti hanno parlato del referendum. La classifica per il periodo 20 aprile-6 giugno è questa: primo Renzi con 1 ora e 40 minuti; segue Boschi con 33 minuti; poi Berlusconi con 27 minuti, Napolitano con 19 e Gianni Cuperlo(minoranza Pd, schierato per il Sì) con 16 minuti, Di Maio con 13, Brunetta con 10. Il primo “tecnico”, per così dire, è Onida (7 minuti e 50 secondi). Carlo Smuraglia, partigiano e presidente dell’Anpi, più volte insolentito dalla ministra Boschi, ha avuto tre minuti e mezzo per replicare.

Il conteggio supera di parecchio i cento nomi e sigle, fino alle minuzie tipo i 18 secondi a testa strappati dai renziani Alessia Rotta e Ernesto Carbone o i 13 della grillina Carla Ruocco. Le tabelle dell’Agcom, però, forniscono pure l’interessante dato percentuale del “tempo di parola” nei programmi giornalistici della Rai. Qui il dominio del governo e dei sostenitori del Sì si fa più evidente del puro minutaggio: il solo presidente del Consiglio, infatti, ha accumulato il 26,3% di tutte le dichiarazioni in merito al referendum costituzionale nei 47 giorni presi in considerazione.

Tradotto: per oltre un minuto ogni quattro, se qualcuno stava parlando di referendum in Rai, si chiamava era Matteo Renzi. Buona seconda Maria Elena Boschi, che ha collezionato il 9% del tempo di parola nella tv di Stato. La trimurti delle riforme si completa con Giorgio Napolitano, quarto classificato, col 5% del microfono di viale Mazzini: i tre assieme fanno oltre il 40% del “tempo di parola” in Rai sulle riforme. Se si tiene conto di tutti i personaggi apertamente schierati per il Sì si arriva ail 54% del totale, a cui va aggiunto un 10% circa dedicato alle cariche istituzionali (Boldrini e Grasso) e alla sinistra Pd (schierata per il Sì, ma tiepidamente).

Il conto del No – in cui domina Forza Italia (Berlusconi ha il 7,3% del tempo di parola, Brunetta il 2,8%) – arriva al 33% contando però tutta una serie di mini-dichiarazioni di pochi secondi. I “professori” del No, cioè quelli che stanno raccogliendo le firme per chiedere il referendum, in questo calderone sono praticamente annullati: tutti insieme non arrivano al quarto d’ora. Se non è un bavaglio, gli somiglia.

(fonte)

Brucia la Sicilia

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Carmelo Di Gesaro scrive un appello senza mezze misure:

«Il fuoco e le fiamme di queste ore sono un chiaro attacco allo Stato. Non ci sono i mezzi e gli uomini per gestire situazioni di pericolo così ampie e vaste, “organizzate”, “accaduti”, con uno stile terroristico, più o meno come gli attentati di Parigi e con danni al patrimonio, come accadeva ai tempi dei “Corleonesi” (Roma e Firenze), praticamente un evento terroristico-mafioso atto a destabilizzare la nostra Regione e non solo.

Accertare le responsabilità è chiaramente il primo atto da compiere. Aiutare i territori compiuti il primo ad ex aequo.

Appare fin troppo evidente il “piano organizzato” per colpire le istituzioni, terrorizzare i siciliani,  immobilizzare l’economia e la vita di centinaia di famiglie oltre che le risorse di ognuna di loro.

Ci hanno attaccato, ferito e abbiamo il dovere di reagire, di solidarizzare e di sostenere. Roma metta immediatamente dei fondi per aiutare famiglie e le aziende che da subito devono rimettersi in piedi. La Regione Siciliana si premuri a trovare strumenti per potenziare le risorse a disposizione per la tutela del territorio. La Protezione Civile attivi dei protocolli di emergenza per ricostruire quanto è andato perso. Si militarizzino i nostri boschi e le nostre riserve. Non possiamo dormire sapendo di  aver già perso mezzo polmone di Sicilia e rischiando che ci colpiscano ancora.»

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Jo Cox. Quando muoiono i buoni.

C’è qualcosa che fa paura nell’omicidio della giovane deputata laburista Joe Cox, ammazzata per strada per la Gran Bretagna in questi caldi giorni di discussione sul referendum in cui gli inglesi si esprimeranno su una loro eventuale uscita dall’Unione Europea ed è un particolare che merita attenzione perché sembra essere il campanello d’allarme di un’esasperazione che esce dai confini inglesi e suona in tutta l’Europa: qui si uccidono i buoni. In quanto buoni.

Jo Cox non è un nome abbastanza altisonante per poter ipotizzare l’azione di un mitomane in cerca di fama; non è però nemmeno appartenente alla schiera dei fragili seminascosti che troppe volte subiscono violenza perché hanno troppa poca voce per chiedere aiuto, essendo la Cox una parlamentare; non ricopriva comunque una carica fondamentale nei gangli amministrativi né aveva il potere di poter condizionare pesantemente il referendum; uccidere Joe Cox non ha un particolare interesse (deviato) per la strategia militare essendo stata uccisa mentre passeggiava sola, sul marciapiede, nel suo quartiere. Jo Cox è stata uccisa perché buona.

Che poi nella parola “buona” di questi tempi c’è uno spettro di significati che ne ha svuotato completamente il senso: della Cox sappiamo che (come molti altri) riteneva la politica lo strumento per costruire un cambiamento. C’è un filo rosso nella sua esperienza professionale che da Oxfam a Save The Children arrivando fino al parlamento è stata dedicata ai diritti. Nel delirio di un nazionalismo esasperato dalla paura e dalla crisi la Cox, del resto, aveva voluto porre l’attenzione anche sulla netta chiusura della Gran Bretagna rispetto all’accoglienza dei rifugiati siriani e continuava a spendersi.

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