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Non dimenticarsi mai nemmeno gli anni da dimenticare

2016

Se dovessi farmi un augurio, pensare a che forma dovrebbe avere il prossimo anno che tra qualche ora viene, non potrei evitare di ricordarmi di mio nonno Cleto, alla sera, nei giorni che vengono appena prima di capodanno. Stava fermo per decine di minuti, in salotto, come potrebbe stare ore una statua di sabbia quando non c’è vento, e fissava un punto qualsiasi che, potevi scommetterci, non era mica intorno ma dentro. Sì, dentro: seduto in un angolo nel suo costato. Con quello sguardo lì.

Non aveva mai raccontato della guerra, della prigionia o di com’era bella quell’Italia povera ma fremente di speranza; riuscivamo a sapere qualcosa di lui se capitava uno di quei compiti a scuola per cui interroghi il nonno. Poca roba: dettagli minimi, le vicende generali e un racconto anestetizzato prima di essere detto. Eppure bastava un suo cenno e subito gli ritrovavi il capitolo scritto in qualche parte della faccia, in una ruga che diceva della paura o in un angolo della bocca che aveva scritto di tutto il freddo. Gente così, i nonni della mia generazione, con la voce come sottotitoli di tutto il resto che comunque scorre.

Quando si incastrava zitto, il nonno, nei giorni ultimi di dicembre, l’ho capito solo dopo, stava seduto nel suo costato per fare l’inventario di tutte le storie che conteneva. Dentro quel silenzio c’era l’operosità polverosa e compita di chi infila faldoni attaccandogli le etichette sui dorsi, c’era dentro tutto lo sforzo di un muscolo, quello della memoria, che al contrario di tutti gli altri si allunga invecchiando, agile con gli anni mentre tutto intorno si sclerotizza.

Ecco, se dovessi pensare ad un buon proposito per l’anno che viene vorrei che davvero si possa non dimenticare. Non dimenticare nemmeno le ingiustizie minime o i propositi più lontani. Tenere tutto. Ricordarsi bene di non dimenticare soprattutto gli anni da dimenticare. Come questo che passa. Come nonno.

(scritto per Left)

Stupire i sensi e chetare i nervi

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Stefano Bartezzaghi da leggere su ‘nuovo’ e ‘possibile’:

Quindi, quando diciamo «nuovo» non stiamo dicendo molto: in un certo senso è nuova persino la ripetizione ennesima di un jingle o di un luogo comune e le strategie di comunicazione spesso consistono proprio nel fare apparire come nuovo qualcosa che tanto nuovo non è. Il bello è che ciò che si vuol far apparire come nuovo deve essere ripetuto un numero sufficiente di volte da farlo diventare banale: si potrebbe dire che la comunicazione contemporanea consiste nello stupire i sensi e chetare i nervi.

Si potrebbe pensare che la sinistra sia per il nuovo di rivoluzione e di riconfigurazione e la destra sia per il nuovo di ripetizione e di variazione. Categorie come quelle di «conservatori», «moderati», «progressisti», «radicali» potrebbero infatti suggerirlo, nei loro nomi. Purtroppo queste categorie sono davvero vecchie, nel senso che si riferiscono a un mondo in cui la trasmissione del potere era appena passata dai modelli dinastici e aristocratici a quelli democratici.

Nella società di massa non è più così. Quello che è successo quando il nuovo ha fatto mitologia è che il nuovo, il progresso, le riforme, la riconfigurazione e addirittura la rivoluzione non sono stati più bandiere esclusive della sinistra e valori a questa intrinseci. Per dirla in termini gloriosamente vecchi, questa è stata una vera e propria perdita di egemonia.

Anche la creatività, altro termine orribilmente ambiguo, è passata da Bruno Munari e dal movimento del Settantasette ai consigli di amministrazione e ai ministri di economia e finanza. Anzi alla nostra epoca persino i conservatori, con il nome che si ritrovano, hanno dovuto procedere a un rebranding vero e proprio, inventando la buffa sigla «neocon», un ossimoro incarnato da due mozziconi di parola che assieme non dovrebbero poter stare. Ma i conservatori non hanno conservato sé stessi: si vede che hanno fatto qualche progresso.

Inutile dire che spesso il «nuovo» non si realizza neppure: è un’apparenza di nuovo e tutta la polemica da talk show è l’accusa reciproca di propugnare come nuovo qualcosa che nuovo non è, ma è anzi profondamente vecchio. Sempre senza mai mettere in dubbio l’equivalenza fra nuovo e buono, cioè la valorizzazione positiva del nuovo. Cioè la sua mitologia che è anche un’ideologia vera e propria, poiché è ideologica ogni assegnazione a priori di valori positivi e negativi.

Il risultato finale è che, divenuto mitologia, il nuovo non è più utile a orientare alcun discorso verso le differenze fra destra e sinistra che ora, non a caso, vengono date per cadute. Non ci sono linee: c’è una sfera unificata da quel principio di retorica da campagna elettorale per cui il nuovo è buono e bisogna sempre propugnarlo almeno a parole. Partiti e personalità che aspirano direttamente al potere devono collocarsi obbligatoriamente dentro a quella sfera.

Chi vuole ragionarci sopra, si accomodi fuori, dove non c’è obbligo di nuovismo (ma da dove, probabilmente, non si arriva a vincere elezioni). A meno che a cambiare non sia, innanzitutto, questa situazione.

Ma per cambiarla basta la critica e la smitizzazione del Nuovo? C’è di che dubitarne, per quanto il lavoro puntiglioso di analisi critica delle proposte e delle riforme sia necessario.

Il resto è qui.

Le piantiamo e poi guardiamo non crescere le mele

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«Nonno!»
Sorride identica ad Angela, sua madre. Ha anche le mani e la forza di Michele e il sorriso del Nonno: è una bambina con tutta la famiglia dentro. Michele l’aveva im- maginata così, sua nipote, quando provava a rassicurare suo nonno su una famiglia che non si sarebbe fermata con la sua partenza.
«Michela, adesso andiamo con nonno ai campi, vuoi?» «Sì!»
«Com’è andata a scuola?»
«Bene.»
«Cosa hai mangiato?»
«Al ristorante…»
«Ah, già al ristorante.»
Per Michela la mensa scolastica è il ristorante, i campi
una meravigliosa vacanza e qualsiasi amico gentile il suo nuovo fidanzato.
«E cosa hai mangiato al ristorante?»
«La pasta. Col bis.»
Mondragone verso gli orti diventa quasi irlandese: verde, umida più forte dello scirocco.
«Mettiamo le mele, nonno?»
«Non crescono le mele, Michela. Stanno in montagna.
Dove c’è il freddo, la neve.»
«Qui a Mondragone non nevica, no.»
«No, quindi niente mele.»
«E proviamo a mettere le mele?»
«Non crescono.»
«E noi le mettiamo e poi le guardiamo insieme che non
crescono, allora.» «Va bene.»

(Mio padre in una scatola da scarpe, p 154)

Il prurito per i giornalisti

È una buona notizia che il potere continui a non essere in cordiali rapporti con i giornalisti. La vedo così, semplicemente, come la normale dinamica funzionale tra il controllore e il controllato dove il giornalismo, quando è capace di rendersene conto, è un buon cane da guardia.

Giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto.

(Horacio Verbitsky)

Cuffaro e il figlio di Vespa

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Di Federico Vespa, negli atti dell’inchiesta, si legge: “In merito alla possibilità per Cuffaro Salvatore di dialogare con l’esterno si segnalano alcuni volontari che hanno operato all’interno della casa circondariale di Rebibbia (in primis Federico Vespa) i quali si sono più volte adoperati per mettere in comunicazione Cuffaro con i suoi familiari e con persone di sua fiducia. È stato in questo modo consentito al Cuffaro di continuare ad occuparsi di proprie attività, questioni ed interessi nonostante le preclusioni connesse al suo status di detenuto”.

Ma davvero bisogna votare Sala perché vince lui?

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L’ultimo in ordine di tempo è Umberto Ambrosoli qui, persona che stimo e di cui sono amico. Però sono in molti quelli che dicono “votare Sala per battere il centrodestra”. Che poi sono gli stessi che dicevano che avremmo dovuto votare Boeri alle primarie di cinque anni fa perché “Pisapia non vincerebbe mai contro la Moratti”. Andatevi a rileggere le dichiarazioni delle scorse elezioni a Milano e vi accorgerete quanto siamo un Paese con una memoria labile o, forse, semplicemente quanta impunità ci sia da parte di chi giustifica tutte le volte le stesse scelte (che per carità possono essere condivisibili o no) con gli stessi modi.

Ma davvero a Milano, in questa Milano, dopo questi cinque anni, ancora qualcuno dice che bisogna votare qualcuno perché vince? Ma davvero dopo Renzi, dopo che ci avevano detto che forse “non era tanto di sinistra” ma serviva “per vincere”, dopo tutto quello che è successo in Italia ancora ci si ostina a raccontare questa storiella?

Ma soprattutto: ma davvero esiste gente che valuta le possibilità di vittoria come elemento fondante per esprimere un’opinione politica?

Perché davvero allora non l’avrebbe fatta nessuno la Resistenza. Altro che fratelli Cervi.

Firenze capitale

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L’ultima fiorentina è Gaia Checcucci, che ha trovato un comodo posto al Ministero all’Ambiente. Renzissima e fiorentina. Ovviamente. In precedenza AN, Alleanza Nazionale. Avanti così. Bravissimi tutti.

(Ah, la foto è del New York Times, per dire)

Fiorella Mannoia e il meschino nascondino

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Non c’è niente di peggio per un artista che incrociarsi con i politici vigliacchi. In realtà credo che valga per tutti i cittadini e per qualsiasi professione ma per il lavoro che mi sono ritrovato a fare devo ammettere che non c’è niente di più frustrante del dover parlare di progetti artistici con politici ignoranti, presuntuosi, inetti. Anzi, forse c’è qualcosa di peggio, sì: i tiepidi. Sono questa nuova forma di piccoli fanfani che pascolano felici sul dorso del renzismo mentre fingono (male) di essere di centrocentrocentrocentrocentrosinistra. A me, nella mia breve carriera, è capitato di incontrare il tiepido Lorenzo Guerini sindaco di Lodi che, ogni volta che lo spettacolo ambisse ad un divertimento e un pensiero appena superiore alla trippa con la raspadura mandava eroicamente in avanscoperta i suoi assessori per tenere “le carte a posto”. Ecco, quando penso a Renzi, non riesco a non collegarlo al fanfanino Guerini diventato portavoce del fanfanone fiorentino.

Per questo sono sicuro che alla fine l’annullamento del concerto di capodanno a Roma di Fiorella Mannoia sia l’ennesimo caso del vigliacco perseguire quiete che non disturbi. E anche se ci diranno che è una scelta fatta per soldi o per ordine pubblico non ci credo. Non credeteci. Funziona sempre così: si trova sempre qualcuno prono a disposizione perché non accada qualsiasi cosa possa indispettire il padrone. E figurarsi se non prendono al balzo la palla di un Prefetto messo come reggiseno imbottito nella capitale. Per farcele apparire più grosse.