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diritti

Siria, ad Aleppo crollano gli ospedali

Violenti bombardamenti hanno colpito due ospedali nella giornata di sabato ad Aleppo, in Siria. Oltre cento i morti tra i civili, compresi 17 bambini.
Due ospedali della città di Aleppo, in Siria – uno dei quali specializzato in medicina pediatrica – sono stati bombardati nella giornata di sabato dalle forze filo-governative di Bashar al-Assad. Secondo l’Osservatorio siriano per i Diritti dell’uomo i raid hanno provocato la morte di almeno 107 civili, compresi 17 bambini. Le strutture colpite sono state distrutte: “Non ci sono più ospedali in piedi” nei quartieri controllati dai ribelli, ha dichiarato al settimanale francese l’Express Joël Weiler, dirigente della Ong Médicins du Monde. Un’informazione confermata anche dall’Organizzazione mondiale della sanità.

“A partire dal mese di gennaio – ha aggiunto l’attivista – abbiamo contato 126 attacchi contro strutture ospedaliere, nonostante la Convenzione di Ginevra protegga i combattenti feriti. Non abbiamo più personale, né materiali. Le ultime razioni alimentari sono state distribuite giovedì: la volontà è ormai di affamare la gente. Sono mesi che denunciamo questo scandalo, non so più quali parole utilizzare per definirlo”.

Dal punto di vista umanitario, infatti, Aleppo è ormai sull’orlo del baratro: “Entro Natale, in ragione dell’intensificazione delle operazioni militari, potremmo assistere alla fuga verso la Turchia di 200mila persone, il che rappresenterebbe una catastrofe”, ha dichiarato l’emissario Onu per la Siria, Staffan de Mistura.

Le stesse Nazioni Unite hanno inoltre ricordato di aver “condiviso con tutte le parti in conflitto e con tutti gli stati coinvolti un piano umanitario dettagliato per fornire aiuto agli abitanti di Aleppo-Est, necessario anche per evacuare i malati e i feriti. Occorre che questo piano sia adottato e che ci venga garantito un accesso immediato e sicuro all’area in questione”.

È stata anche avanzata l’ipotesi di instaurare un’amministrazione autonoma da parte degli insorti a Aleppo-Est. Idea che però è stata immediatamente rispedita al mittente dal ministro degli Affari esteri siriano, Walid Mouallem: “Quale governo al mondo – ha dichiarato – accetterebbe una soluzione del genere?”.

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(fonte)

Lilian Thuram: «A Parigi sono diventato nero»

(Sempre una gran testa Thuram. Smesse le scarpe da calcio non ha smesso di allenare la curiosità. Ho avuto modo di incrociarlo per lavoro e mi ha sorpreso e continua ad essere lucido. Ecco il pezzo di Silvia Morosi per il Corriere)

Esplora il significato del termine: «Razzisti non si nasce, si diventa. Così in Francia sono cresciuto come “un nero”». A raccontarsi a Le Monde nell’intervista a Sandrine Blanchard in un giorno non casuale — quello dello sgombero della «Giungla» di Calais — è Lilian Thuram, ex difensore di Parma e Juventus. Non un migrante, ma un francese della Guadalupa che le dinamiche subite dai migranti le conosce bene. Seguendo gli insegnamenti della madre, ha imparato a non avere paura: «Una donna che ha lasciato i Caraibi (e 5 figli) per trovare lavoro in Francia. Per un anno non l’ho vista, ma c’erano i soldi che inviava per lettera e mio fratello più grande che faceva la distribuzione», spiega. Fino al 1982, quando a 9 anni l’ha raggiunta. «Tutti gli edifici erano identici. Il primo giorno mi sono perso e solo vedendola al balcone ho ritrovato la strada di casa».

«Quando a scuola mi chiamavano “La Noiraude”»
Gli altri bimbi del quartiere erano portoghesi, zairesi, algerini, ma «arrivato a scuola sono sorte le prime domande, quando hanno iniziato a chiamarmi “La Noiraude” (il nero, come la mucca nera di un cartone animato in voga all’epoca)», confessa. «Ho imparato a giocare a calcio a piedi nudi nei Caraibi, per non rovinare le scarpe con cui dovevo andare a scuola». Più grande, a La Fougeres, quartiere di Avon, alla periferia della capitale, grazie all’incontro con Franck Renard, «ho capito che si potevano non avere pregiudizi. Lui era di una classe sociale diversa, ma i suoi genitori sono stati meravigliosi con me, perché ero un suo amico. Suo padre mi portava in macchina a giocare a calcio, anche se non era di strada, per non farmi prendere il treno che dovevo pagare». Sempre a Le Monde, in una precedente intervista, il calciatore aveva sottolineato come la scuola come istituzione avesse perso «la capacità di insegnare la complessità dello sguardo. Insomma, il pensiero critico, e non solamente cose a memoria».

Il sogno infranto dei Mondiali di Francia?
«Black! Blanc! Beur!» («Nero! Bianco! Arabo!»). Questo é quello urlavano i francesi per le strade dopo la vittoria dei mondiali di calcio del 1998. Uno slogan che si riferiva all’incrocio di culture, lingue, etnie delle periferie delle grandi città francesi, che si riscontrava anche sul campo. Quella speranza multiculturale «è inscritta nell’inconscio collettivo. C’è meno razzismo oggi rispetto a prima. Prendiamo l’esempio della mia famiglia: mio nonno è nato nel 1908, sessanta anni dopo l’abolizione della schiavitù in Francia, mia madre nel 1947, ci fu la colonizzazione, me nel 1972, c’era la segregazione in Sudafrica», evidenzia. Il predominio dei bianchi «non è scritto nelle leggi. Viviamo in una società più egualitaria, ma ci sono ancora persone che rifiutano l’uguaglianza. Dobbiamo avere il coraggio di rispondere loro».

Rispetto i miei antenati che vissero la schiavitù
Cosa non dimenticare, quindi, della propria esperienza? «Sono figlio di una donna che ha attraversato l’Atlantico per dare maggiori opportunità ai figli. Io vengo da questa storia: i migranti sono esseri umani molto più coraggiosi della maggior parte di noi. Ho grande rispetto per i miei antenati che hanno vissuto il periodo della schiavitù». La disuguaglianza di genere «è la matrice della disuguaglianza». E ricorda la sua Fondazione per «l’educazione contro il razzismo. Uso la mia fama per costruire con altri l’uguaglianza. Dobbiamo immaginare come vogliamo la Francia da qui a 30 anni». Ambasciatore Unicef dal 2010, porta avanti una battaglia contro i pregiudizi culturali e storici che opprimono le popolazioni di pelle nera. Il fatto che si ragioni ancora per categorie – «bianchi e neri», «uomini e donne», »eterosessuali e omosessuali», – fa capire come «l’uguaglianza rappresenti una novità che deve essere ancora assimilata dalla società». Il razzismo è dappertutto, in Francia come in Italia: «Ha origini antiche, radicate generazione dopo generazione: per sconfiggerlo bisogna parlarne, non nasconderlo».«Razzisti non si nasce, si diventa. Così in Francia sono cresciuto come “un nero”». A raccontarsi a Le Monde nell’intervista a Sandrine Blanchard in un giorno non casuale — quello dello sgombero della «Giungla» di Calais — è Lilian Thuram, ex difensore di Parma e Juventus. Non un migrante, ma un francese della Guadalupa che le dinamiche subite dai migranti le conosce bene. Seguendo gli insegnamenti della madre, ha imparato a non avere paura: «Una donna che ha lasciato i Caraibi (e 5 figli) per trovare lavoro in Francia. Per un anno non l’ho vista, ma c’erano i soldi che inviava per lettera e mio fratello più grande che faceva la distribuzione», spiega. Fino al 1982, quando a 9 anni l’ha raggiunta. «Tutti gli edifici erano identici. Il primo giorno mi sono perso e solo vedendola al balcone ho ritrovato la strada di casa».

«Quando a scuola mi chiamavano “La Noiraude”»
Gli altri bimbi del quartiere erano portoghesi, zairesi, algerini, ma «arrivato a scuola sono sorte le prime domande, quando hanno iniziato a chiamarmi “La Noiraude” (il nero, come la mucca nera di un cartone animato in voga all’epoca)», confessa. «Ho imparato a giocare a calcio a piedi nudi nei Caraibi, per non rovinare le scarpe con cui dovevo andare a scuola». Più grande, a La Fougeres, quartiere di Avon, alla periferia della capitale, grazie all’incontro con Franck Renard, «ho capito che si potevano non avere pregiudizi. Lui era di una classe sociale diversa, ma i suoi genitori sono stati meravigliosi con me, perché ero un suo amico. Suo padre mi portava in macchina a giocare a calcio, anche se non era di strada, per non farmi prendere il treno che dovevo pagare». Sempre a Le Monde, in una precedente intervista, il calciatore aveva sottolineato come la scuola come istituzione avesse perso «la capacità di insegnare la complessità dello sguardo. Insomma, il pensiero critico, e non solamente cose a memoria».

Il sogno infranto dei Mondiali di Francia?
«Black! Blanc! Beur!» («Nero! Bianco! Arabo!»). Questo é quello urlavano i francesi per le strade dopo la vittoria dei mondiali di calcio del 1998. Uno slogan che si riferiva all’incrocio di culture, lingue, etnie delle periferie delle grandi città francesi, che si riscontrava anche sul campo. Quella speranza multiculturale «è inscritta nell’inconscio collettivo. C’è meno razzismo oggi rispetto a prima. Prendiamo l’esempio della mia famiglia: mio nonno è nato nel 1908, sessanta anni dopo l’abolizione della schiavitù in Francia, mia madre nel 1947, ci fu la colonizzazione, me nel 1972, c’era la segregazione in Sudafrica», evidenzia. Il predominio dei bianchi «non è scritto nelle leggi. Viviamo in una società più egualitaria, ma ci sono ancora persone che rifiutano l’uguaglianza. Dobbiamo avere il coraggio di rispondere loro».

Rispetto i miei antenati che vissero la schiavitù
Cosa non dimenticare, quindi, della propria esperienza? «Sono figlio di una donna che ha attraversato l’Atlantico per dare maggiori opportunità ai figli. Io vengo da questa storia: i migranti sono esseri umani molto più coraggiosi della maggior parte di noi. Ho grande rispetto per i miei antenati che hanno vissuto il periodo della schiavitù». La disuguaglianza di genere «è la matrice della disuguaglianza». E ricorda la sua Fondazione per «l’educazione contro il razzismo. Uso la mia fama per costruire con altri l’uguaglianza. Dobbiamo immaginare come vogliamo la Francia da qui a 30 anni». Ambasciatore Unicef dal 2010, porta avanti una battaglia contro i pregiudizi culturali e storici che opprimono le popolazioni di pelle nera. Il fatto che si ragioni ancora per categorie – «bianchi e neri», «uomini e donne», »eterosessuali e omosessuali», – fa capire come «l’uguaglianza rappresenti una novità che deve essere ancora assimilata dalla società». Il razzismo è dappertutto, in Francia come in Italia: «Ha origini antiche, radicate generazione dopo generazione: per sconfiggerlo bisogna parlarne, non nasconderlo».

(fonte)

#CzarnyProtest perché ce ne dobbiamo interessare

Come scrive Martino qui:

«Oggi le donne polacche scioperano contro il loro governo e contro un disegno di legge, attualmente in fase di revisione da parte delle commissioni parlamentari, che quasi cancella il loro già limitato diritto all’aborto. avrebbe permesso solo l’aborto per salvare la vita di una madre, anche se la legge attuale è già tra le più restrittive in Europa. uso dei medici di una “clausola di coscienza” per scegliere di eseguire un aborto ha già messo fuori dalla portata di molte donne polacche. La proposta di legge eliminerebbe l’accesso all’interruzione di gravidanza anche per le vittime di stupro o incesto. E minaccia le donne che abortire con un’indagine, perché rende causando la morte di un “bambino concepito” punibile con una pena detentiva. Questa disposizione è anche probabile che spaventare i pochi medici ancora disposti a fornire aborti.

Ma la proposta di legge eliminerebbe l’accesso anche per le vittime di stupro o incesto. Peggio ancora, se possibile, è la minaccia alle donne che hanno un aborto spontaneo di venire indagate perché possibilmente sospette di aver causato la morte di un “bambino concepito”, reato punibile con il carcere. La legge farà in modo di ridurre ulteriormente il numero di medici non obiettori ancora disponibili per le donne che decidono di abortire. Il testo di legge è il frutto di una petizione firmata da 450mila persone promossa dall’organizzazione Ordo Iuris e sostenuta dalla chiesa cattolica locale. L’unica ragione tollerata dalla legge per consentire l’aborto è il grave pericolo per la vita della donna.»

E se è vero che accade in Polonia (che non è così lontana ed è Europa) e altresì vero che anche qui, anche nel nostro Parlamento, ultimamente sono molti i vagiti di restaurazione di un’epoca che sembra avere voglia di tornare indietro. Vale la pena interessarsene. Davvero.

Qui, in Italia, dove si taglia l’assistenza alle vittime di tratta

Annalisa Camilli ne scrive qui per Internazionale:

In cinque regioni italiane dal 1 settembre non saranno più disponibili i servizi contro la tratta di esseri umani: le ragazze che vorranno sottrarsi alla rete criminale che le obbliga a prostituirsi in alcune aree dell’Italia come la Sardegna, la Basilicata, il Piemonte, la Valle d’Aosta, la Liguria e in alcune zone della Sicilia, non potranno più rivolgersi ai servizi di assistenza, presenti da anni sul territorio.

Il 4 agosto, infatti, il dipartimento per le pari opportunità della presidenza del consiglio ha pubblicato la lista delle associazioni e delle regioni che beneficeranno dei quasi 13 milioni di euro destinati ai servizi contro la tratta a partire da settembre (e per i prossimi 15 mesi), e da questa graduatoria ha escluso delle aree chiave per il contrasto a questa attività, come alcune zone della Sicilia. Eppure nei porti siciliani arrivano ogni anno migliaia di ragazze nigeriane originarie di Benin City e dello stato di Edo, vittime di trafficanti che le costringono a prostituirsi per ripagare il debito contratto prima di partire, che in molti casi supera i trentamila euro.

Alla base della decisione del dipartimento per le pari opportunità di escludere alcune associazioni e regioni dai finanziamenti ci sono motivi diversi. Nel caso della Sicilia alcune associazioni sono state escluse perché i fondi sono stati assegnati fino al loro esaurimento in ordine di posizionamento nella graduatoria. Mentre nel caso del Piemonte c’è stato un errore tecnico nella compilazione del bando da parte della regione; in altri casi, come per la regione Liguria, si è trattato di un ritardo nella presentazione della domanda di finanziamento.

Una risposta nazionale

Le organizzazioni che si occupano dei diritti di migranti e rifugiati in Italia come l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) hanno espresso preoccupazione per l’esito del bando. “In alcune regioni non sarà possibile garantire la continuità di un servizio che in alcuni casi è in piedi da anni”, commenta Salvatore Fachile dell’Asgi.

“Nel momento in cui è stato approvato un Piano nazionale antitratta è stata riconosciuta la necessità di affrontare la questione da un punto di vista nazionale e non locale”, argomenta Fachile che sostiene la necessità di superare il sistema dei bandi annuali, a favore di un piano nazionale di assegnazione dei fondi che ricalchi il modello dell’assistenza ai richiedenti asilo e rifugiati del Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar).

“Siamo preoccupati dal fatto che dopo tanti anni, quasi venti, non si sia trovato un modo di mettere a regime le azioni delle associazioni contro la tratta e che si dipenda ancora dai bandi”, conclude Fachile, che annuncia una lettera dell’Asgiindirizzata alla ministra delle pari opportunità Maria Elena Boschi per chiedere al governo di trovare una soluzione che minimizzi le conseguenze dei tagli ai fondi per i servizi antitratta in alcune regioni italiane.

“Il rischio di una ricaduta pesante sul contrasto al crimine e sulla protezione delle vittime, nonché su una loro adeguata assistenza, è dunque altissimo tenuto conto anche del fatto che uno dei maggiori limiti del sistema recentemente emerso è la scarsità dei posti disponibili nelle strutture di accoglienza”, è scritto nella letteraspedita alla ministra.

(continua qui)

Dino, 86 anni e 250 pasti al giorno con il cibo invenduto

(Articolo di Costanza Ignazzi, fonte)

Un pasto caldo per chi la sera non ha una casa in cui tornare e nessuno che prepari la cena. Ma anche un modo per evitare che tonnellate di cibo invenduto nei mercati e supermercati di tutta Roma vadano buttate quando invece possono essere determinanti per i meno fortunati. Da nove anni questa è la causa di Dino Impagliazzo, 86enne dirigente in pensione, che quattro sere a settimana, insieme ai suoi 300 volontari, sfama i meno fortunati della Capitale.

«Quando ho cominciato – spiega Impagliazzo, che fa parte del movimento cristiano dei Focolari – eravamo solo io, mia moglie e la nostra cucina. Adesso riusciamo a fornire un pasto caldo a 250 senzatetto ogni sera». Ogni giorno, i volontari della Onlus RomAmor fondata da Impagliazzo fanno il giro di mercati rionali, alimentari e supermercati di Roma a raccogliere la merce in scadenza che non può più essere venduta: ogni giorno si mettono all’opera per preparare pasta, zuppe, panini da distribuire vicino alle stazioni Tiburtina e Ostiense. In un anno i pasti distribuiti arrivano a quota 27mila. «Cerchiamo di dar loro una cena completa – racconta – primo, secondo, frutta e perfino dolci. Ci riforniamo da chi ci conosce e sa che portiamo il cibo gratuitamente a chi ne ha bisogno. C’è il piccolo commerciante che ci offre il sabato frutta e verdure per esempio. L’invenduto di frutta e di verdura del sabato non arriverebbe a lunedì, così noi preleviamo questi prodotti che se cotti o preparati in giornata o il giorno dopo possono sfamare tante persone. Ai supermercati fa comodo consegnarci la merce invece di spendere per lo smaltimento, per esempio Todis ci invia un carico ogni settimana». Ogni sera persone di ogni nazionalità e religione si radunano intorno ai volontari di RomAmor per un aiuto, un po’ di attenzione, un pasto caldo e una parola di conforto. «Molti sono africani – dice ancora Impagliazzo – alcuni sono musulmani (e per loro i panini sono senza maiale, nel rispetto del loro credo ndr), ma quasi la metà sono italiani. Persone che il giorno prima vivevano in una casa con una famiglia, ma che poi hanno divorziato e si sono trovati per strada. Qualcuno ha perso il lavoro e non può più permettersi affitto o beni di prima necessità».

Con la nuova legge contro gli sprechi alimentari approvata lo scorso 2 agosto dal Senato, la rete di solidarietà potrebbe espandersi grazie soprattutto agli incentivi e sgravi ai fornitori di cibo. E se Impagliazzo e i suoi volontari hanno dovuto bussare a tante porte per raccogliere di che sfamare chi è in difficoltà, l’utilizzo delle rimanenze per esigenze umanitarie potrebbe presto diventare lo standard. Secondo un calcolo di Pasto buono, potrebbero essere sette milioni i pasti distribuiti quotidianamente in tutta Itaila.

Ma per Impagliazzo e i suoi volontari, la rete di aiuto e solidarietà non si ferma qui. «Abbiamo messo su una casa di accoglienza ai Castelli Romani: al momento sono ospitate 20 persone, tutti nigeriani scappati dalla violenza di Boko Haram – spiega – Tra l’altro è appena nato un bambino, lo hanno chiamato Vittorio». L’obiettivo è creare altre strutture come questa: «Siamo alla ricerca di altri spazi per l’ospitalità, speriamo che qualcuno che ne abbia la possibilità possa metterli a disposizione della nostra causa».

Il patetico Erdogan

Non c’è nulla di più patetico del potere che ha bisogno di farsi prepotente per riuscire a governare perché non ci riesce semplicemente seguendo le regole. Recep Tayyip Erdogan è in questo momento il paradigma del potere in tutte le sue peggiori storture, fatto di bile e vendetta (grottescamente legittimate da un propizio fallito colpo di Stato) aggrappato a una proiezione di se stesso che rasenta l’iperbole. Il fatto è che qui non c’è niente da ridere: nonostante la posa da bullo Erdogan con la sua Turchia oggi tiene sotto scacco l’Europa grazie all’errore politico di chi ha deciso di usarlo come sacchetto dell’umido dell’immigrazione europea.

Erdogan intervistato da RaiNews 24 (a proposito: che bellezza vedere giornalisti non accomodanti sulle reti del nostro servizio pubblico) riesce in poche frasi a condensare l’impensabile tracotanza di chi crede di essere legge, sostituendosi alle leggi: “la vicenda dell’indagine su mio figlio a Bologna potrebbe mettere in difficoltà le nostre relazioni con l’Italia, che dovrebbe occuparsi piuttosto della mafia” ha dichiarato il leader turco, riferendosi anche ad una presunta timidezza da parte dell’Europa che non avrebbe sostenuto abbastanza il “ripristino della legalità” dopo il golpe fallito in Turchia.

Peccato che l’idea di ripristino di Erdogan passi attraverso la violenta censura degli organi di informazioni non allineati con una repressione che non ha nessuna parvenza di legalità né di democrazia. Il ripristino delle regole passa attraverso l’eliminazione degli avversari? Se Erdogan non è in grado di capire che la personalizzazione delle regole è incompatibile con l’idea di moderna gestione di un Paese non può essere considerato un interlocutore affidabile. La muscolarità è una deriva dei tronfi falliti.

(il mio editoriale per Fanpage continua qui)

Anche le donne guidano il taxi

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A proposito di caste e diritti, ne scrive Illarietti qui:
Zahida ha 19anni, e fino all’anno scorso non aveva mai indossato dei pantaloni. È una dalit, o “intoccabile”: il suo posto nel sistema indiano delle caste è (doveva essere) quello dei suoi genitori, che per guadagnarsi da vivere puliscono latrine pubbliche nella baraccopoli di Baljit Nagar, periferia di New-Delhi. Invece Zahida indossa un’uniforme, studia, e frequenta una scuola guida dove è stata intervistata dal Guardian. 
La sua storia è la stessa di 450 ragazze indiane, selezionate nei mesi scorsi da un’agenzia governativa per un programma speciale. Lo scopo: formare delle taxi-driver al femminile. Zahida e le sue compagne – tutte provenienti da tre slums della capitale indiana – al termine del corso riceveranno un diploma e un posto di lavoro.
Ad assumerle UberPop e Ola, un servizio taxi molto diffuso in India. Le due aziende hanno siglato a maggio un accordo con il governo di New-Delhi per facilitare l’inclusione sociale delle giovani “fuori casta”. Durante il corso di sette mesi, le aspiranti tassiste ricevono lezioni di guida ma anche di lingua inglese e auto-difesa, oltre a un rimborso spese di 1500 rupie (circa 20 euro) al mese.
«Non è stato facile convincere la mia famiglia» ha spiegato Zahida al quotidiano britannico. «Per mio padre la sola idea di una tassista donna era inconcepibile. Ma mi sono impuntata. Ho minacciato di andarmene di casa. Alla fine – conclude la 19enne – anche loro hanno capito che sarebbe stato un supporto importante per la famiglia».
«Non è la prima volta che in India delle donne ricevono la licenza da tassiste. Ma si tratta di un enorme passo in avanti dal punto di vista numerico e dell’inclusione sociale» spiega Ranjana Kumari del Centre for sociale research (Csr) di New-Delhi. Il progetto, infatti, è indirizzato
«a giovani provenienti da un contesto sociale in cui le barriere di genere e di casta sono ancora molto forti».

Mi chiamo Erdogan e sparo ai bambini. Pagato dall’Europa.

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L’Europa piange lacrime di polistirolo per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato che, visto il quadro generale, sembra uno scherzo mal riuscito. Invece no. Ieri tutti i burocrati hanno finto almeno per un minuto di essere tutti contriti per poi lasciarsi andare all’ammazzacaffè. La Giornata Mondiale del Rifugiato è un po’ come il progetto di un distributore automatico di diritti: buono per farci sopra narrazione da campagna elettorale ma poi alla fin fine semplicemente una perversione da calendario.

Intanto, ventiquattro ore prima, le guardie turche (i militari servetti di una nazione indegna di essere considerata democratica eppur profumatamente pagata dall’Europa per “risolvere” il problema dei rifugiati) hanno pensato di schiacciare il grilletto per disinfettare il confine: sarebbero otto morti di cui quattro bambini. Un presepe di cadaveri. Una cosa così.

Le fonti ufficiali turche (che valgono più o meno come le dicerie da bar) dicono e non dicono, confermano ma non troppo e infine cercano di raccontare la difficoltà di “vigilare i confini”.

(il mio buongiorno per Left continua qui)

Quel padre seduto sul marciapiede

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Torino, zona Crocetta, un uomo sta seduto con un materassino sul marciapiede. Niente di sporco o vizioso: è in posizione yoga ed è vestito elegante, solo un piumino per quando si fa freddo. Si chiama Stefano, ha 37 anni ed è sprofondato nel solito burrone di una brutta depressione. Poi si è ripreso, ha cambiato lavoro e si è separato. Non mendica, Stefano, sul marciapiede. Non chiede solidarietà, anche se la solidarietà arriva con chi ormai ci passa regolarmente, lì dal padre seduto sul marciapiede, per bersi un caffè e farsi una chiacchierata. Dentro quel palazzo piantato sul marciapiede Stefano ha la figlia e la sua ex moglie. Una separazione come tante in cui i telefoni smettono di squillare e ci si parla solo per avvocati e le liti poi ricadono sui figli. E la figlia di Stefano, che un giudice ha detto che deve stare con il padre ogni due settimane, si ritrova nella morsa dei litigi e alla fine quei giorni “stabiliti per legge” non sono stati rispettati.

Lui, Stefano, non fa la guerra. Ha vissuto il buio e figurati se è disposto ancora ad entrare nel cunicolo della rabbia. E allora rimane lì. «Per fare sentire a mia figlia che comunque io sono vicino», dice. E l’ha scritto con gesso bianco, ripassato, sul marciapiede. Un padre sul marciapiede. Senza urla, senza strepiti, senza vendette. Roba da letteratura, di sabato mattina.