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Il diritto di piangere

A me devo dire che mette sempre paura il contegno. Mi spaventa soprattutto il contegno quando diventa la barriera per inscenare forza e equilibrio e ogni tanto mi capita di guardarmi intorno e vederli tutti lì, tutti compiti, che penso sempre di essere sbagliato io, di avere probabilmente qualche pezzo che mi manca o che non mi funziona e poi quasi sempre mi rassereno pensando che alla fine se li osservi bene, quelli lì, hanno qualche buco da cui si intravede che stanno male anche loro.

Sono gli stessi che in questi giorni si svegliano con la sensazione di non essersi mica svegliati perché ieri in fondo è come oggi ed è come domani. Sono giorni che sono perline infilate in un filo di cui non si vede la fine e vorrebbero dirci e farci dire guarda com’è bella questa collanina e invece appena cedi un po’ diventa un cappio. Sono quelli si programmano la giornata imparando da quelli che di lavoro ci insegnano a come programmare le giornate e invece si incagliano nella prima piastrella come se la solitudine diventasse un mastice impossibile da levare.

Sono quelli che pranzano e cenano soli, che si sentono in colpa per non sollevarsi guardando le cose che invece dovrebbero sollevare (c’è scritto dappertutto, “sollevatevi!”, “fate così!”) e chissà forse pensano di essere sbagliati loro. Oppure sono quelli che non dormono, dormono male, si strascicano dal divano alla cucina.

L’ansia, la paura e la disperanza invece avrebbero il diritto di essere raccontate. E forse anche raccontarle in questi tempi di virus potrebbe fare bene, piuttosto che essere tacciati di spargimento di pessimismo. Perché accade, sì: accade che in questi giorni siamo presi da una morsa che si arrotola come edera dalla punta dei piedi fino alla punta del naso e ci rende tutti ferocemente fragili. Ed è un’impresa anche questa: restare potabili in una situazione che non ha nemmeno gli ingredienti base per impastare un po’ di speranza.

E allora rivendichiamo il diritto di piangere. Sarebbe da piangere sui balconi, per riconoscersi uguali. E io ci trovo tanto ottimismo, invece, e umanità, in una cosa così.

Buon lunedì.

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Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Dammi il coraggio di provare il dolore

Se dovessi scegliere un regalo, se domattina svegliando mi trovassi il destino o il suo collega genio della lampada seduto sul tavolo della cucina che mi chiedesse che qualità potessi desiderare per il futuro gli chiederei il coraggio di provare dolore.

Di provare dolore pubblicamente, oscenamente, senza ritegno, nelle cose che faccio e nelle cose che scrivo e pure nel mio lavoro, un dolore finalmente non travestito da sdegno degli sdegnati consumati e nemmeno travestito da pietismo. Dolore nudo, dolore crudo, dolore fitto, dolore appuntito.

Se mi chiedessero di esprimere un desiderio chiederei per favore di non farmi abituare, di non scivolare nell’abitudine di ritenere un danno collaterale un bambino annegato nella giungla di Lesbo e nemmeno un quindicenne morto, quali siano le mie posizioni politiche, qualsiasi siano le colpe dei cadaveri quando erano vivi.

Vorrei anche gridare che è un enorme arretramento di civiltà questo nuovo dovere che ci siamo inventati per cui bisogna essere addolorati ma con garbo, con la giusta distanza, con equilibrio e con tutti quelli altri aggettivi che sostanzialmente servono ad arrogarsi il diritto di fottercene.

Se sentissimo il dolore che c’è intorno come dolore nostro sarebbe un mondo migliore e noi saremmo persone migliori. E allora, pensateci, perché ci vergogniamo di rischiare di essere migliori?

Buon martedì.

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Equilibrio e fiducia

Siamo un Paese con una coscienza e una conoscenza collettiva che sono in un punto basso, molto basso. Ma non è questo il momento di dedicarsi all’autoanalisi. No. Sarebbe il momento dell’ecologia lessicale, dell’ecologia dell’equilibrio.

I dati, ad esempio: stiamo parlando di un virus, il coronavirus, che non è dissimile da  un’influenza (lo dice Maria Rita Gismondo, direttore responsabile di Macrobiologia Clinica, Virologia e Diagnostica Bioemergenze, il laboratorio dell’Ospedale Sacco di Milano in cui vengono analizzati da giorni i campioni di possibili casi di coronavirus e lo dice la virologa Ilaria Capua. Lo contesta Burioni, sì, lo so) ma questo non significa che averne paura è roba da cretini. Però i numeri dicono che l’80% dei casi ha delle conseguenze molto lievi (lo dice l’Oms, l’Organizzazione mondiale per la sanità), meno del 15% di quelli che hanno contratto il virus sono in condizioni serie e il tasso di mortalità è del 2%. Questi sono i numeri.

Tra le cose importanti da sapere e da fare c’è il non presentarsi al pronto soccorso nel caso in cui si abbiano dei sintomi sospetti ma chiamare il 1500 o il 112, ci penseranno i medici a ciò che è meglio.

L’equilibrio si ottiene tenendo presente che i numeri e i fatti sono questi. L’equilibrio è quella cosa che ci fa evitare di prendere d’assalto gli scaffali dei supermercati. L’equilibrio è la consapevolezza che non c’è nessuna pandemia. Ma l’equilibrio si ottiene anche confidando in un’informazione che la smetta di sciacallare, che la finisca con l’uso di un linguaggio che sembra descrivere la terza guerra mondiale, con un’informazione che la smetta di puntare sul terrore. Poi non facciamo finta di non sapere che il terrore produce terrorizzati, terrorismi e terroristi, per favore. Sembra il Vietnam e invece è solo un virus.

Fiducia. Ci sono organi di comunicazione (quello del governo e quello dell’Oms) che ci aggiornano passo dopo passo. Ci sono anche tanti giornalisti che stanno con fatica facendo il proprio mestiere. È l’occasione giusta per accorgersi che delle buone fonti di informazioni contribuiscono a una buona qualità della vita.

Cercate con ansia le informazioni vere, piuttosto che leggere le catene che vi arrivano via messaggio mentre arraffate mille litri di latte. La serietà è una cosa seria e prima o poi nella vita diventa indispensabile, appunto.

Buon lunedì.

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Complici, altro che discontinui

L’Alto commissariato delle Nazioni Unite ieri ha annunciato che abbandonerà la struttura di raccolta e partenza (Gathering and departure facility – Gdf) a Tripoli, sotto il diretto controllo del governo perché, ha spiegato il capo della missione Jean-Paul Cavalieri, temono «che l’intera area possa diventare un obiettivo militare, mettendo ulteriormente in pericolo la vita dei rifugiati, dei richiedenti asilo e di altri civili» essendoci a pochi metri le esercitazioni dell’esercito.

In questi giorni qualche ministro continua a rassicurare in merito a un negoziato tra Italia e Libia che nei fatti non è mai iniziato. È quel ministro che si è tolto la cravatta qualche giorno fa rinunciando al ruolo di capo politico del Movimento 5 stelle e che vorrebbe essere discontinuo senza interferire con gli equilibri precedenti: un alambicco vuoto, insomma.

Il prossimo 2 febbraio il governo Conte bis perpetuerà il patto tra Italia e Libia che fu sottoscritto da Gentiloni (sì, da Gentiloni). Un patto vergognoso che gronda sangue e che ha aperto le porte di fatto al fetido cattivismo di questi ultimi anni. Un patto di cui si continua a non conoscere l’entità e economica e che in violazione alla nostra Costituzione (art. 80: «Le Camere autorizzano con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi») non è passato dal Parlamento. Un accordo economico che nessuno riesce a controllare.

Si sa che più della metà dei migranti scappati dalla Libia sono stati riportati nell’inferno libico. Eppure il diritto internazionale dice che la Libia non è sicura. Eppure in Libia a causa della guerra ci sono 350.000 sfollati e centinaia di morti e di feriti.

Questi pensano di battere le destre vincendo le elezioni regionali in Emilia Romagna e poi facendo la destra al governo. Da mesi il PD ci propina i suoi messaggi via social di solidarietà ai profughi e di contrarietà ai patti con la Libia (come ai decreti Sicurezza) e si è dimenticato che è al governo. Da mesi ci parlano di discontinuità e non si vergognano nemmeno.

Ha ragione Emergency quando dice «L’Italia dice di aver fatto la sua parte, ma non è così. Non ha mantenuto la promessa di modificare il memorandum rendendo il nostro Paese complice – se non il committente – delle innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrate in Libia».

Anche le Sardine si lamentano (a proposito: perché non convocare le piazze anche su questo?)

E intanto tutto scorre, sangue incluso. Complici, altro che discontinui.

Buon venerdì.

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Cenere e libri

Brucia una libreria. Mica una libreria qualunque. Brucia la stessa libreria di Centocelle che la mattina del 25 aprile, nel giorno che doveva avere il sapore di una Liberazione, era già bruciata. E ora brucia di nuovo. “La pecora elettrica” è una libreria che ha coraggio, come bisogna avere coraggio oggi a occuparsi di libri e di librerie, in un quartiere come quello dove ogni luce accesa è un fastidio per gli affari loschi dello spaccio e dei criminali che si ritengono proprietari del quartiere.

Dice in un’intervista un dipendente della libreria, visibilmente provato, che la cosa che più l’ha colpito è lo stesso odore di cenere che erano libri che aveva annusato il 25 aprile. E la sensazione delle periferie che diventano discariche di oppressioni e di disperazioni è proprio quella cenere di qualcosa che diventa difficile ricomporre, fare ritornare all’idea originaria.

C’è tutto lo sgomento per l’incendio dei libri: i libri bruciati, un’immagine che riaffiora dolorosa da tempi nerissimi. Ma lì di fronte c’è anche la pizzeria di un giovane ragazzo, anche quella gestita con il coraggio di chi decide di essere luce nel quartiere che i prepotenti vorrebbero buio, che qualche giorno fa ha subito lo stesso trattamento: fuoco, danni, fatica, e quelle disperazione che sta tutta nella fatica di svegliarsi ancora capaci di fabbricare speranza.

Sdegno di tutti i politici. Ci mancherebbe. Molto sulla libreria, molto meno sul coraggio di raccontare un quartiere che è sfuggito di mano come sfuggono di mano porzioni intere di un Paese che si sgretola, perdendo quartieri fisici e quartieri sentimentali, dove il buio diventa fin troppo facile da cavalcare in senso fisico e in senso trasfigurato. Notizie da parte dei campioni della sicurezza che passano tutto il giorno a leccare le forze dell’ordine non ne sono arrivate: in un attentato senza negri e per di più con i libri non sanno proprio cosa dire, gli sanguina il cervello.

Però c’è una buona notizia: questi vigliacchi sono talmente vigliacchi che si spaventano per un libro e per una pizza, si squagliano di fronte a una luce. Fare luce: se ci pensate sarebbe il comandamento della politica e della comunità. Non dovrebbe essere così difficile.

Buon giovedì.

L’articolo Cenere e libri proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/11/07/cenere-e-libri/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Chiara Valerio ospite del #buongiorno

Con Chiara Valerio abbiamo parlato del suo romanzo “Il cuore non si vede” uscito per Einaudi. Ogni tanto fa bene parlare anche dei libri degli altri. Soprattutto se sono bellissimi.

https://www.spreaker.com/user/giuliocavalli/podcastchiaravalerio?utm_medium=widget&utm_source=user%3A10912572&utm_term=episode_title

Incrinature recensisce Carnaio

(fonte)

Più o meno queste le parole dell’autore di Carnaio, Giulio Cavalli (Fandango, 2019), in occasione della presentazione del libro a Ricomincio dai Libri (ottobre 2019, Napoli):

“Questo non è un libro sull’immigrazione. È un libro che parla della difficoltà di accogliere il diverso.”

È proprio il caso di dire che è lo scrittore l’unico a poter dire come un suo libro debba essere o no debba essere inteso dai lettori, forse. Poi, che ognuno si faccia la propria idea di un libro è naturale ed appartiene alla sfera del “diritto” dei lettori. Fatto sta, oggi desidero parlarti di Carnaio, romanzo che è stato finalista al Premio Campiello e adesso è nella terna dei finalisti sezione narrativa del Premio Napoli 2019.

“Quando mi dicono che questo è un libro contro Matteo Salvini, mi incazzo! Questo libro è stato scritto quando in carica c’era il suo precedessore, Minniti.”
Anche questo è stato detto dall’autore, per chiarire un fatto: Carnaio non ha intenzione di contribuire al dibattito pro o contro Salvini e la sua politica. Tra l’altro, nel momento in cui scrivo, è Luciana Lamorgese Ministro dell’Interno.

Ad ogni modo, se proprio dovessi trovare una definizione per Carnaio, inquadrandolo in un genere letterario, forse dovrei dire che il romanzo è un distopico corale anomalo. Mi vedo costretta, comunque, ad ammettere che è una definizione davvero approssimativa: il più delle volte, trovo che i libri distopici siano deludenti, mentre, al contrario, ho apprezzato tantissimo Carnaio.

La città di DF – immaginaria, ma che credo si possa idealmente collocare in Sicilia o nelle sue isole – viene inaspettatamente “invasa” da cadaveri. I corpi morti – i corpi dei mai stati vivi, direi – arrivano sulle spiagge e nelle strade della città come onde putrescenti. Sembrano voler togliere ai cittadini ogni diritto: di respirare, camminare e via dicendo – certo, anche di aspettare in grazia di dio che al semaforo che scatti il verde. Di fronte all’inerzia di Roma, il Sindaco di DF e i suoi uomini fidati optano per soluzioni efficienti e funzionali, non tanto per arginare il fenomeno all’origine delle ondate di cadaveri, ma allo scopo di “sfruttarle” quanto possibile. In questo modo, DF diventa una città che si autodetermina e del tutto autosufficiente nel garantire a tutti i suoi cittadini ricchezza e prosperità. Mica roba da buonisti, eh!

L’epilogo di Carnaio mi è sembrato il più logico possibile. Immagino che debba essere inteso come fisiologia conclusione di un processo che ha attraversato fasi molto chiare e distinte: presa d’atto dell’esistenza di forme di diversità, inglobamento (leggi anche fagocitazione) in un sistema chiuso – sigillato e ripiegato su se stesso – dell’elemento alieno, in seguito mercificazione. E la fase di mercificazione – non voglio fare spoiler, sarebbe davvero un peccato – non è nemmeno la vera conclusione del processo.

Carnaio è un libro con un andamento ascendente sia nello stile quanto nell’intreccio. I luoghi e i pensieri comuni trovano il loro habitat ideale nel contesto immaginato, ragion per cui, il mio senso di disgusto è andato man mano crescendo, in contrasto con la pulsione ad andare avanti per arrivare fino in fondo alla lettura.

Potrei definire Carnaio un libro disturbante e attraente proprio per questa sua azione di disturbo. Il mio pensiero è andato a Ernst Jünger, il quale, in risposta a Martin Heidegger, raccontava di come il nazismo avesse utilizzato la tecnica in modo piuttosto efficiente per realizzare il progetto di sterminio degli Ebrei.

Per quel che riguarda Carnaio, a questo si assiste: il pensiero comune e condiviso arriva a giustificare azioni che rientrano, pienamente, in una logica dell’efficienza che usa i cadaveri e li fa diventare “risorse”. Nel frattempo, tutti i buonisti rosicherebbero, sentendosi molto più in agio nella condizione di primitivi.

Lettura stra, stra consigliata. A presto,

Bruna

SonoSoloLibri recensisce Carnaio

(fonte)

Erano quattro i cadaveri. […]
Altri due come gli altri, sbiaditi e stranieri. Lo spazzino disse che per fortuna non gli avevano mica fatto tanto effetto, solo un giramento di testa, nel vederli così diversi, così altri, mica come noi. 

— pag. 36

Un corpo riverso nel mare, quel mare dove tutto ciò che galleggia, che siano pesci, gabbiani o buste di plastica, è per forza morto. La pelle sbiadita dall’acqua, ma con lineamenti chiaramente diversi e di un colore “altro”, la pelle di qualcuno che viene da “un altro mare“.

E’ così che inizia l’incubo di DF, fittizia -ma forse non troppo- cittadina del sud Italia. A quel cadavere senza nome e senza provenienza se ne aggiunge presto un altro, poi due, poi tre, finché non iniziano ad arrivare a intere ondate, migliaia e migliaia di corpi trascinati dal mare che si riversano senza sosta in città. Venuti da non si sa dove, quelli, e poco importa ai cittadini che non hanno tempo di farsi domande.

Carnaio è un romanzo agghiacciante, crudissimo, che richiede una certa dose di pelo sullo stomaco. Quella davanti a cui si trova DF è una catastrofe a cui lo Stato non sa come rispondere, tentenna, chiede tempo. Ma di tempo non ce n’è, le strade della città sono invase dalla morte che imputridisce e così, nella scelta obbligata tra noi e quelli, i cittadini di DF scelgono il noi.

Cavalli mette in scena uno scenario asfissiante, una drammatica e raccapricciante escalation in cui l’asticella della moralità viene spostata sempre un pochino più in basso, in cui l’orrore diventa necessità e di necessità -si sa- si fa virtù, in cui la disumanizzazione cavalca l’onda del malcontento in un incalzante ribaltamento dei valori.

Devo confessare che durante la lettura ho avuto dei dubbi sul come certe cose venissero proposte, quasi fossero giudicate a priori giuste o sbagliate in una situazione in cui però non venivano offerte alternative, in cui sarebbe umanamente difficile scegliere. Insomma ho avuto la fastidiosa sensazione che la mia scelta volesse essere pilotata verso l’una o l’altra fazione.

Ragionandoci a mente fredda però, mi sono resa conto che il punto del libro è proprio questo: il lettore viene messo davanti al continuo dubbio morale tra chi abbia ragione e chi torto, alla ricerca del confine tra giusto e sbagliato, tra cosa è umano e cosa è necessario, tra moralità e moralismo.

Ciò che è universalmente detestabile con il tempo diventa accettato e finisce per essere desiderato.

Tramite una narrazione corale e con una scrittura molto “Saramaghesca”, il romanzo di Cavalli mette in luce, con un’iperbole distopica ma molto centrata, l’Italia di oggi: i populismi, la paura del diverso, la chiusura mentale -e fisica- di una nazione, il lucrare sulla pelle d’altri, ma anche chi giudica senza offrire alternative nè aiuto, l’abisso che intercorre tra idea e azione.

Carnaio è un romanzo straziante e necessario, con molti livelli di lettura. Sta al lettore scegliere. E la risposta, credetemi, non è affatto scontata come sembra.

Nota ai possibili lettori: questo romanzo contiene scene piuttosto crude, macabre e disturbanti che potrebbero urtare la vostra sensibilità. 

Frasi dal libro

Pesci morti, alghe morte, gli oggetti nati morti come le buste che si arrotolano alle eliche e santiddio il nervoso che gli sale quando il motore comincia a biascicare, i pescatori dispersi e poi morti, i gabbiani precipitati, le zanzare annegate: se galleggi, sei morto o sei una cosa, nel mare. (pag. 8)

[…] un amico di quelli che vogliono difendere l’umanità col culo degli altri dicevano stizziti i cittadini di DF che lo osservavano da lontano come si sta a distanza dalle persone che non ci assomigliano e da cui non vogliamo farci intaccare, quasi che la prossimità rischiasse di mischiare i geni e le abitudini e le tradizioni […] (pag. 113)

La “Biblioteca di Babele” su #Carnaio

(fonte)

Quando se ne va l’umanità, anche il vero diventa un lusso:
non è per ignoranza, come potrebbe sembrare,
ma per un rimescolamento avvelenato delle priorità.

Carnaio è un romanzo di Giulio Cavalli che è uscito per Fandango a novembre dell’anno scorso e che io ho acquistato all’ultima edizione di Una Marina di libri per due motivi principali: mi incuriosiva tanto, dato che tutti ne parlavano benissimo, e poi ha una copertina che secondo me è stupenda (anche l’occhio vuole la sua parte, lo sappiamo). Ma mai potevo immaginare di trovarmi fra le mani un libro così potente e con uno stile che man mano che si va avanti cambia insieme allo stato d’animo dei protagonisti e, di conseguenza, del lettore.
Si tratta di una storia che parte lentamente, come qualcosa di normale, e che poi sfocia nell’impensabile e addirittura nel grottesco, nell’orrido. Confesso che anch’io, che di norma sono per la roba forte, mi sono dovuta fermare a un certo punto per riordinare le idee, ma ora vi spiego meglio, nel dettaglio, di cosa stiamo parlando.

Ci troviamo a DF, un paesino del Sud che dà sul mare. Giovanni Ventimiglia è pescatore da tutta la vita, ha sempre sbarcato il lunario vendendo il suo pesce al mercato, anche se negli ultimi anni non ne trova più come prima ed è ormai rimasto solo sulla sua imbarcazione. Un giorno, però, trova in mare il cadavere di un uomo di colore, non uno degli abitanti di DF, ma uno che sicuramente veniva da lontano, dell’Est o del Sud. Dalle sue condizioni, sembra che sia stato in acqua per giorni prima di essere ritrovato, e tutti credono sia qualche immigrato che è caduto da qualche barcone e non ce l’ha fatta. Ma ecco che nei giorni successivi ne viene ritrovato un altro uguale, e poi un altro, e un altro ancora. Poi iniziano ad arrivare a decine, a centinaia, a migliaia, i cadaveri, tutti di uguale etnia, colore, altezza, con le stesse caratteristiche fisiche. DF chiede aiuto a Roma per gestire queste ondate di cadaveri che chissà da dove arrivano, ma il governo non fa niente, dunque il paese deve fare da sé. Ci vuole un sistema per affrontare questa emergenza, smaltire i corpi o – magari – trarne profitto.

DF è il centro del mondo che scivola verso l’orrore.

Se ci avete visto un riferimento a situazioni reali che ci riguardano molto da vicino, ci avete visto giusto. Cavalli, però, quella situazione la porta all’estremo, quasi a creare una realtà distopica in cui si raggiunge l’apice della follia. Gli ingredienti principali sono la presa di distanza dal problema (i cadaveri non sono “del nostro mondo”, sono “quelli”), la paura, la rabbia e l’ignoranza, e tutte queste cose portano DF a voler fare da sé: non hanno più bisogno di Roma e dell’aiuto di un governo che non si decide a far qualcosa, meglio chiudersi e autogestirsi. Nessuno può entrare, ma nessuno può neanche uscire. I cadaveri arrivano interi ma anche smembrati attraverso le tubature, ora anche dall’alto, tanto che bisogna costruire una cupola di vetro che mi ha ricordato The Domedi King. DF diventa come una di quelle palle di Natale con la neve dentro.

Carnaio è un romanzo corale, ogni capitolo viene raccontato da (o riguarda) un personaggio diverso che dà il suo punto di vista sulla situazione: c’è il sindaco, il sacerdote, il giornalista dell’emittente televisiva che finalmente ha qualcosa da raccontare (a DF non succedeva mai niente), l’allegra signorina più volte vedova, il poliziotto che ormai non ha più niente da fare, il pescatore. E se in un primo momento tutti fanno squadra, poi inizieranno a sorgere i problemi e a spuntare delle crepe.
Il libro è diviso in tre parti – i morti, i vivi, la fine – e man mano che si va avanti la lingua, sempre molto fluida e adattata ai personaggi, cambia. Ma cambia nel ritmo: tutto si fa più veloce, la punteggiatura diminuisce notevolmente, un paragrafo può continuare per pagine e pagine senza che si vada mai a capo. E così Cavalli rende in maniera perfetta l’approssimarsi della fine, l’arrivo del disumano che annienta l’umano e lo cancella.

Questo romanzo è stato nella cinquina del Premio Campiello 2019 ed è un libro che, personalmente, inserisco tra i più belli letti quest’anno.
Buona lettura!

Titolo: Carnaio
Autore: Giulio Cavalli
Genere: Romanzo
Anno di pubblicazione: 8 novembre 2018
Pagine: 218
Prezzo: 17 €
Editore: Fandango