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La vigliaccheria e la Libia. Intervista a Giulio Cavalli | Aspettando Book Pride

Domenica pomeriggio, a Book Pride, Giulio Cavalli presenterà A casa loro, il monologo teatrale scritto insieme a Nello Scavo e uscito da poco per People. Cavalli, che è autore anche di Carnaio, finalista al Campiello di quest’anno, è tra coloro che, in Italia, si stanno impegnando di più per discutere di migrazione, etica e umanità: i suoi libri, anche se con misure e tecniche differenti, parlano proprio di questo.

Inizi il tuo monologo con la parola chiave di questi anni, la stessa che usa Liliana Segre, “indifferenza”. Ecco, forse è qui che conviene fermarsi fin da subito. Nello specifico, in relazione alla questione migratoria, sul rapporto e sugli equilibri tra indifferenza e odio.

Il rapporto c’è ed è evidente. Ma ho molta più paura dell’odio e della ferocia impomatata travestita da diplomazia, quella che burocratizza la morte e ne fa un punto di dibattito politico, piuttosto che degli odiatori seriali. L’odiatore che non prova più nemmeno a mimetizzarsi: è un pervertito dell’umanità, la sua è una reazione infima ma con una logica animale. Chi invece contabilizza i morti, e all’occorrenza esulta o si indigna per qualche morto in più o perché il morto è un bambino e allora fa più effetto, ecco, quelli sono i veri protagonisti dello spostamento dell’etica. Si mimetizzano da brave persone ma contribuiscono molto di più degli sfacciati a spostare la moralità. L’indifferenza è una variante dell’odio, molto più vigliacca.

In A casa loro scrivi che “Quando davvero la storia riuscirà a mostrare le dimensioni della tragedia, sul barcone ripescato sarà il museo della vigliaccheria”. Ecco, è proprio sul nodo della vigliaccheria che bisognerebbe riflettere.

Vigliacchi sono i benpensanti, i moralisti da strapazzo. Sono quelli che ritengono di avere il diritto di non intervenire sulle tragedie degli altri: oltre a non volerle raccontare, addirittura pretendono che non gli vengano raccontate. Nella diffusione della vigliaccheria hanno un grande ruolo anche il giornalismo, le narrazioni, la cosiddetta cultura. È un momento storico in cui i cosiddetti intellettuali pensano di essere o di poter essere apolitici, una stortura storica che non si è mai vista. Ci insegnavano che anche l’ultimo degli operai dovesse avere un ruolo politico nelle sue scelte e nei suoi comportamenti, adesso quando ti permetti di rompere la bolla dei benpensanti vieni accusato di voler lucrare sul dolore.

Quand’è che abbiamo rinunciato a quella gamma di valori?

Abbiamo cominciato a cadere nel momento in cui abbiamo iniziato a differenziare le persone che si spostano: la colpa della sinistra è stata di dirci che ci sono persone che scappano dalla guerra, altre soltanto dalla fame, altre ancora che si spostano per cercare una vita migliore. E allora il valore delle urgenze di queste persone ha dosi diverse, è lì che dobbiamo collocare la morte dell’Occidente culturale: nel momento in cui quella parte di mondo che aveva deciso di differenziarsi sui diritti, la nostra, si ritrova sulle proprie coste qualcuno che arriva e non è niente, non ha niente e non sa fare niente: di fronte a quel qualcuno, oggi l’Occidente non sa cosa rispondere.

In Italia però moltissimi autori hanno messo la tragedia delle migrazioni al centro del proprio lavoro e della propria poetica. Sono voci che rimangono inascoltate? Si vendono pochi libri, la crisi dell’editoria è sistemica, quindi anche le idee veicolate si diffondono fino a un certo punto.

C’entra soprattutto una certa endogamia di fondo del mondo della letteratura. Alain Delon diceva che gli attori ascoltano davvero solo se qualcuno sta parlando di loro: l’affermazione vale anche per gli scrittori, e per gli editorialisti. Da una parte ci sono le poche copie vendute, dall’altra il disinteresse degli autori che la loro opera letteraria abbia una declinazione sulla quotidianità, come se questo impolverasse l’altezza della loro ispirazione. Riuscire a sfruttare la lingua letteraria per entrare in ambienti aristocratici – mi viene in mente l’esempio di Carnaio al Campiello – è utile perché costringe quell’ambiente ad affrontare il problema. Senza contare che solo in Italia chi decide di esporsi – Murgia, Saviano – viene considerato troppo commerciale e non all’altezza di certi ambienti, di certi dibattiti.

Prima del mare c’è la terra, la Libia. È lì che si gettano le premesse per morire.

Raccontare il mare è più facile, è un topos che funziona alla grande. Per me, in questa vicenda, il mare è il canale di scolo di una merda che sta sulla terraferma, che ha come basi le prigioni libiche, le scrivanie pulite del Viminale, la sordissima sede dell’Unione Europea a Bruxelles. I luoghi del delitto sono questi: il candelabro è il mare, ma i luoghi veri sono questi. C’è poi un altro aspetto di fondo. Se raccontiamo gli annegati come semplici annegati morti in mare, ma non riusciamo a trasmettere che cosa spinga un individuo quasi certo di morire ad imbarcarsi lo stesso, aggrappato a quel minimo d’incertezza, se non raccontiamo le origini delle partenze, rischiamo di essere un po’ retorici.

Carnaio è un romanzo che porta alla luce certi temi e li tratta da una prospettiva artistica, mentre questo tuo monologo si muove verso un’altra direzione e da diverse prospettive, è più agile, militante, punta al coinvolgimento diretto del pubblico ma usa anche gli strumenti del saggio.

Questa varietà di scrittura mi dà il privilegio di stare sulla notizia con il pezzo giornalistico, di fare un teatro-giornale sul palcoscenico e quello di poter spezzare i limiti fisici e temporali nel romanzo. Mi viene molto naturale: mi sono ritrovato a fare tutti questi mestieri contemporaneamente perché ho delle esigenze che solo così riesco a soddisfare. Ognuna di queste mie scritture ha delle caratteristiche che vanno sfruttate: nel caso di A casa loro ho il privilegio di passare un’ora con delle persone che escono, cenano, cercano parcheggio, entrano in teatro e mi dedicano il loro tempo così, sulla fiducia. In quell’ora, con il teatro, cerco di distruggere tutto ciò che loro credono sia vero e sulle macerie ricostruire un nuovo angolo di osservazione della realtà, che è il ruolo degli arlecchini, come nella Commedia dell’Arte: la realtà raccontata da un angolo inaspettato. A casa loro è stata una grossa opportunità, perché quando io e Nello l’abbiamo scritto di Libia si parlava ancora pochissimo, e sempre come se fosse un luogo esotico. La Libia, invece, è il sacco dell’umido delle pessime abitudini dell’occidente, e a noi continua ad arrivare il percolato.

Il rischio però è quello di parlare a un pubblico che è già allineato, che ti ascolta perché sa che dirai ciò in cui credono e che vogliono sentirsi dire.

È una preoccupazione che mi ammorba spessissimo, parlare a chi già sa. Allora mi sono fatto una promessa: devo fare tutto il possibile perché chi è già accordato con me a livello di sensibilità e pensiero, nel momento in cui mi legge o mi viene a vedere se ne torna a casa con una cassetta degli attrezzi che gli serve per rendere ancora più appuntita la sua opinione.

(fonte)

Conte e gli equilibrismi

Giuseppe Conte ha partecipato a feste di partito sostanzialmente opposte: nel giro di pochi giorni è riuscito a fingere di accarezzare le Ong, ha ridato smalto ai sindacati e con quelli di Fratelli d’Italia ha lanciato qualche spigolatura sovranista. Niente di male, per carità: un presidente del Consiglio che riesce a sopravvivere a un’inversione di governo ha già dimostrato di sapere stare perfettamente in equilibrio.

C’è da vedere però se l’abilità consista nell’essere davvero quel mediatore che in molti ci rivendono (e allora potrebbe anche avere un senso in nome della real politik), oppure se non si tratti piuttosto di un’attitudine a essere bifronte e tenere i piedi in tutte le scarpe. Il gioco è sottile e molto molto pericoloso.

A Atreju, ad esempio, lo scorso 21 settembre Conte ha testualmente detto:

«Voglio ringraziare qui tutti i nostri apparati perché vi posso assicurare che la guardia costiera libica, supportata dal nostro intervento, ogni giorno contiene centinaia – ma proprio centinaia – di migranti».

Ci si illudeva, sbagliando, che ormai nessuno al mondo avesse dubbi sulla feroce illegalità della Libia e che (forse escluso Salvini e compagnia) nessuno potesse avere lo stomaco di parlare della strage quotidiana che avviene in Libia come di un contenimento. Ci sbagliavamo.

Il presidente del Consiglio è molto furbo (o forse che qui si sia tutti molto stupidi) nell’esporre gli stessi concetti che furono del Capitano leghista senza però usarne il bullismo, come se ci bastasse un’idiozia esposta elegantemente per sentirci tutti più rassicurati. No, non è così.

Come diceva Einstein “la vita è come andare in bicicletta. Per mantenere l’equilibrio devi muoverti” e non durerà a lungo questo viaggio di nozze in cui ci si accontenta di avere abbassato i toni. Le azioni si compiono, non si declamano. E la Libia non si bonifica con un po’ di mestiere e di finta buona educazione.

Buon martedì.

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Gli uomini grigi che odiano i colori

A Bassano del Grappa, dove evidentemente hanno un bel vivere se riescono ad avere il tempo di occuparsi di queste inezie, Fratelli d’Italia lancia un accorato allarme per un pericolosissimo volantino che è comparso negli asili. O mio dio, cosa è successo, direte voi, cosa può esserci scritto di così terribile da provocare un terremoto politico e un innalzamento del livello di guardia?

La frase incriminata, giuro, è questa: «Facciamone di tutti i colori! Narrazione & laboratorio per famiglie di tutti i tipi». I grigi (che sono quelli che vorrebbero spegnere i colori degli altri perché non si noti il loro spessore slavato e l’incapacità di colorare il mondo) hanno deciso che in quelle torbidissime parole si nascondesse il pericolo gender, che ormai equivale all’uomo nero delle favole, appunto.

La Lega di Bassano, ovviamente, è salita sul carro degli uomini grigi e ha urlacciato perché quelle “famiglie di tutti i tipi”, dicono, “può prestarsi a qualsiasi tipo di interpretazione”. Del resto è tipico degli occhi marci vedere marcio dappertutto.

Bene, qualche giorno fa c’è stato il primo incontro. Cosa è successo di così terribile? Lo scrive benissimo il giornale locale: «Quella andata in scena ieri pomeriggio nella piazzetta di vicolo da Ponte è stata semplicemente una lettura animata. Come tante che ogni giorno vengono svolte da professionisti su tutto il territorio. Ed è filata lascia con una ventina di bambini accompagnati dai genitori, che hanno ascoltato le storie raccontate da Stefano Torresan, che per l’occasione ha portato anche la sua cargo bici Marlene. Da qui ha estratto alcuni libri per l’infanzia e si è messo a narrare».

Paura, eh?

A proposito: l’ex assessore a Bassano (delle precedente giunta di centrosinistra) ha chiarito che quel “famiglie di tutti i tipi” si riferisce a bambini con genitori separati, magari risposati, oppure dati in affido, oppure orfani e accompagnati dai nonni. E che la manifestazione è organizzata con le associazioni del territorio, anche cattoliche.

Ma si sa che gli uomini grigi sono incapaci anche solo di immaginarli, i colori. Sembra una fiaba di Rodari. Ora vieteranno anche lui.

Buon lunedì.

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#Carnaio la mia intervista a Il Cittadino

L’INTERVISTA L’AUTORE LODIGIANO SI RACCONTA A MARGINE DELL’IMPORTANTE RISULTATO RAGGIUNTO CON IL SUO “CARNAIO”

Cavalli: dopo il podio nel Campiello più narrativa e meno palcoscenico

Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sono il meno possibile. E la letteratura me lo permette»

Rossella Mungiello

Per anni ha calcato il palcoscenico nei panni di un canta- storie. Usando la voce e la fisicità per dare vita a spettacoli amari e di denuncia, rinunciando anche alla sua libertà personale, vivendo sotto scorta per le minacce subite dalla criminalità. Oggi sceglie di stare più al riparo, di privile- giare la parola scritta, di prendersi il tempo per far nascere e crescere una storia.

Ci sarà sempre meno palcoscenico e sempre più narrativa nel prossimo futuro di Giulio Cavalli, scrittore lodigiano classe 1977 – già autore teatrale e attore (che ha lavorato con nomi con Dario Fo e Paolo Rossi ndr), giornalista ed editorialista, ma anche politico, eletto come consigliere regionale – che sabato sera si è imposto nel panorama nazionale della narrativa contemporanea con il secondo posto ottenuto al Premio Campiello con il suo “Carnaio”, edito da Fandango Libri. Un romanzo che racconta di un paesi- no DF, appollaiato sulla costa come tanti, in cui il pescatore Giovanni Ventimiglia, in un giorno di marzo, si imbatte in un cadavere rimasto a mollo per giorni. È il suo primo di una serie di ritrovamenti di cadaveri, tutti di giovani, tutti neri, che si susseguono al punto da costringere le autorità a escogitare una soluzione che diventa anche un modo per fare profitto.

Da dove è arrivato lo spunto narrativo?
«Il libro “Carnaio” nasce da un’immagine, frutto di una conversazione con un pescatore in Sicilia, dove mi trovavo per un reportage sull’immigrazione. Mi spiegava come spesso capiti ai pescatori di recuperare cadaveri in mare e di come, per evitare di avviare l’iter giudiziario, li ributtino in acqua, prometten- do in cambio tutto l’impegno possibile per salvare i vivi. Mi disse che i corpi sono come lessi dal tempo passato in mare: usò un termine culinario che, de- clinato alla vita umana, mi fece molto pensare a come il cannibalismo messo in atto nei confronti di altre morti inizi proprio nel riconoscerle come altro da noi. Non è un libro sull’immigrazione: è un libro sull’etica di una comunità che si sposta ogni giorno un metro più in là, in un scivolamento verso il basso che conduce all’orrore».
È quello che sta accadendo all’Italia di oggi?
«Credo che la letteratura non sia un editoriale politico lungo, ma che debba seminare dubbi. Se quel che accade oggi in Italia è questo, devono dirlo i let- tori. Il premio Campiello ha portato il libro in ambienti anche molto diversi, per sensibilità, sul tema dell’immigrazione e la soddisfazione più grande è sta- ta riuscire a uscire dall’agone politico e portare la discussione su un gradino più alto, con visioni diverse che si ritrovano però in valori comuni sui diritti».

Dopo il teatro civile, il giornalismo è stato quasi un approdo naturale, oggi lo è la letteratura?
«Tra il teatro, il giornalismo e la narrativa, quello che ho sentito più congenia- le negli ultimi anni è certamente la narrativa. E “Carnaio”, tra i miei romanzi, è quello che mi ha lasciato più libertà, nella scrittura e nella costruzione della storia ed è il mio primo libro da scrittore puro, dato che “Mio padre in una scatola da scarpe” (Rizzoli, 2015) è segnato dalla matrice a fuoco della criminalità organizzata e dell’antimafia, mentre “Santamamma” (Fandango Libri, 2017)è molto personale e autobiografico. Ed è ovvio che il Campiello, ma anche il premio Napoli e il Festival del Viaggiatore di Asolo, sono attestati di stima per il mio lavoro e mi danno molta soddisfazione. Il Campiello ha messo al centro l’attività di scrittore, come principale e prioritaria. Ho voglia di raccontare storie in cui io ci sia il meno possibile. E la letteratura me lo permette».

“L’atrocità dei nostri tempi, direttamente dal mare” Riforma.it recensisce #Carnaio

(fonte)

È della settimana scorsa la notizia dell’aggressione avvenuta a Cosenza da parte di un uomo italiano di 22 anni che ha colpito con un calcio all’addome un bambino di tre anni, nato in Italia da genitori di marocchini. La motivazione del gesto risulta futile quanto agghiacciante.
Il bambino, recatosi dal medico insieme alla madre e ai fratellini più grandi, nell’attesa della visita si era recato in gelateria coi fratelli e scorgendo in carrozzina un neonato, mosso dalla curiosità si è avvicinato per accarezzarlo. Il 22enne e padre del neonato non ha gradito l’interesse del bambino e, prima la moglie di 24 anni ha strattonato il bambino e i suoi fratelli maggiori, poi l’uomo ha aggredito facendolo accasciare a terra. Marito e moglie ora sono indagati per lesioni aggravate e il bambino si è ripreso fisicamente.

Leggere i quotidiani italiani o farsi un giro nelle pagine dei social popolati da conoscenti, amici o personaggi influenti è complesso e frustrante, soprattutto se da commentare, condividere e comprendere ci sono notizie come quella di un bambino che vuole accarezzare un neonato che viene preso a calci da un padre solo perché è ciò che è: un bambino, italiano, di origini straniere, curioso.
Si fa fatica a interrogarsi su come, dalla parte di chi agisce e da quella di chi subisce, certi fatti e i loro effetti possano essere vissuti, affrontati e in un certo senso poi, in seguito, assimilati. Sono state scritte molte parole a riguardo e altre ancora si stamperanno per poter comprendere, accettare. È da esseri umani comportarsi così? Quando l’altro diventa mio nemico? L’istinto di protezione va oltre qualsiasi cosa? L’uomo di serve salvaguardare a qualsiasi costo? Qual è il limite?
Domande giganti, questioni secolari che ristrette e inserite nella quotidianità italiana non hanno trovato una risposta ma da qualche mese hanno un libro completamente dedicato.

Si chiama Carnaio, l’ha scritto Giulio Cavalli (Milano, 1977) che è giornalista, autore, drammaturgo, attore ed è uscito a novembre 2018 per Fandangolibri.
Siamo a DF, un’isola senza un nome specifico che assomiglia spaventosamente a un’isola italiana famosa e tormentata, le case, gli uffici e i negozi sono popolati, vissuti e riempiti da esseri umani piccoli e provinciali, egoisti e dolcissimi perfettamente identici a quelli che si incrociano tutti i giorni nella vita a qualsiasi altitudine del nostro grande paese.

Tramite gli occhi di un pescatore, che sull’isola di DF abita, lavora e soffre da sempre, la tragedia inizia lenta e innocua la sua ascesa: il corpo di un uomo, trascinato da maree e storie di sofferenza, viene ritrovato in acque italiane e svuotate di pesci. È nero e viene da lontano. Sarà il primo di una lunga serie che inizierà a coinvolgere prima con curiosità e cura gli abitanti del paese. Per poi iniziare a diventare, senza alcun tipo di controllo, un problema vero e proprio.
Perché a DF nel giro di pochissimo tempo, quello che sembrava essere un fenomeno arginabile e controllato di corpi di morti provenienti dal mare diventa una vera e propria tragedia migrante. Uomini, tutti uguali, tutti stranieri, tutti morti. E gli abitanti, dopo lo scoramento iniziale, l’intervento della politica nazionale e l’attenzione mediatica mondiale, decidono di agire e reagire come meglio possono. Così DF, il suo sindaco, la sua polizia, il suo principale ristoratore e anche il suo prete scelgono di affrontare la vera e propria tragedia umana che li ha colpiti con le capacità che hanno, stravolgendo letteralmente corpi, valori e leggi.

Il romanzo di Cavalli, candidato finalista per il Premio Campiello 2019, è uno sguardo spietato e inquietante su quello che l’uomo può scegliere di diventare quando ha paura, quando i valori non bastano più e quando l’egoismo e il mancato ascolto dell’altro annebbiano gli occhi e il cuore.
Una lettura inquietante, una distopia tutta italiana e autentica da leggere lentamente e con cura, senza perdersi nemmeno una parola e col rischio altissimo di ritrovarcisi in mezzo nella vita reale o dei social affollati. Un rischio altissimo che potremmo correre, una scarica elettrica di domande di senso e senza e la sensazione finale sulla bocca dello stomaco di aver letto qualcosa che si conosce ma a cui non si riesce a dare un nome preciso. 
La parola carnaio, però, ci va molto vicino.

Carnaio, Giulio Cavalli, Fandango libri, 218 p., 17 euro

‘Collezione di storie” recensisce Carnaio

(fonte)

Non leggo di proposito i titoli candidati ai premi letterari: non compilo liste con i finalisti e non mi propongo di leggerli prima della premiazione. È innegabile tuttavia che alcune trame risultino particolarmente attraenti, e che tali libri si rivelino poi ottime letture: è stato per me il caso di “Resto qui” di Balzano, finalista al Premio Strega 2018, e di “Dal tuo terrazzo si vede casa mia“, raccolta di racconti di Elvis Malaj entrata in dozzina lo stesso anno.

Ora finalista al premio Campiello 2019, sono stata attratta da “Carnaio” di Giulio Cavalli, e appena disponibile in biblioteca me lo sono portato a casa.

Titolo: Carnaio

Autore: Giulio Cavalli

Anno della prima edizione: 2018

Casa editrice: Fandango

Pagine: 218

LA STORIA

Nella cittadina sul mare di DF, che vive principalmente di pesca, dalle onde arriva una sorpresa poco piacevole: cadaveri cominciano a riempire spiagge e strade, dapprima pochi per volta, poi a ondate di migliaia. Sono corpi altritutti corpi di uomini, dalle pelli scure, tutti della stessa corporatura, pressocché indistinguibili.

Qualcuno ipotizzò che fossero schiavi, selezionati tutti di identica corporatura per essere venduti in blocco, e non si sa mai abbastanza del grado di inciviltà di certi paesi che stanno a sud del mare e forse il carico era andato perduto, buttato al largo per salvare lo scafo, l’equipaggio, i carcerieri. 

La comunità di DF è dapprima disgustata, sconvolta, poi opta per la chiusura a tutto il resto del mondo e per una soluzione che appare impensabile: trarre un guadagno da quelli, da quei corpi portati dal mare.

COSA NE PENSO

Ispirato da una conversazione con un pescatore di Lampedusa che gli ha raccontato di come nelle reti gettate restino impigliati i cadaveri di migranti morti in mare, Cavalli porta all’estremo queste storie vere creando un incuboche ha tutte le carte in regola per sembrare realistico, nonostante i suoi sviluppi.

Noi non ci occupiamo delle persone che forse sono stati, non mi interessa, non ci interessa, non abbiamo il tempo e le risorse per impegnarci: ci occupiamo di quell’ammasso di carne, pelle, tendini, ossa, nervi e liquidi che hanno anche la forma di persona. Noi guardiamo la luna mentre gli altri vorrebbero indicarci il dito. 

Dopo una prima parte narrata in terza persona, che descrive il fenomeno, nella seconda si avvicendano le testimonianze dei residenti che esprimono in prima persona la loro opinione su quanto accade a DF. Il linguaggio non è affatto lontano a quello della politica a cui siamo abituati, e ben pochi personaggi sembrano aver conservato un briciolo di umanità nonostante dall’esterno di DF provengano critiche a gran voce. 

Sia chiaro, parlo a titolo personale, scrivetelo bene che questa non è mica un’intervista ufficiale, io sono una cittadina che esprime le proprie opinioni, una di quelli che ha studiato all’università della vita e non ho la pretesa di sapere il giusto o lo sbagliato su tutto, però so bene cosa è giusto per me e cosa è sbagliato per me, rivendico il diritto di farmi la mia idea senza ascoltare tutti questi professoroni che di mestiere ci manipolano il cervello.  

La soluzione più semplice è l’isolamento dell’intera città, il mettere fine alla dipendenza da uno stato che deruba -e anche qui è impossibile non cogliere iriferimenti a certi partiti oggi sulla cresta dell’onda che l’autore dissemina tra le pagine.

È una resilienza negativa quella di Cavalli, come lui stesso ha dichiarato in un’intervista a Radio 3: la capacità di adattamento dell’essere umano che si abitua a qualunque orrore, smettendo di considerarlo tale. Non importa quanti corpi si infrangano contro la barriera in plexiglass, invece di disgustare può diventare uno spettacolo.

Quando arrivano le onde, dico quando le onde ci portano i morti, si alza la marea, i vecchi si portano la seggiola per gustarsi lo spettacolo che ci sbatte contro, i giovani accendono il falò e ballano al ritmo delle teste contro il plexiglas, i papà portano i figli per mano, tutti questi morti una volta ci entravano in giardino, dicono i padri ai figli: l’ho fatta io, penso. 

Per non scendere poi nei dettagli di quanto i corpi di quelli diventino a DF una fonte di reddito -alcuni brevi capitoli della seconda parte non sono adatti a lettori troppo impressionabili… 

“Carnaio” è un romanzo coraggioso: ci si aspetta un romanzo sulle migrazioni contemporanee leggendo la seconda di copertina, e ci si ritrova per le mani un libro che attinge alla realtà trasformandola con le parole e portandola alle estreme conseguenze. Cavalli sa dare voce alla meschinità dei singoli, ai rari casi di ribellione davanti alle atrocità (che in un regime dittatoriale come quello in cui si trasforma DF sono ovviamente repressi). Gli altri, quelli, i corpi portati dal mare, restano muti: non sappiamo nulla di chi fossero prima di invadere DF -perché sì, qui di invasione si tratta- e non ottengono rispetto o riconoscimento neanche nella morte, anzi ci si ciba di loro, li si sfrutta per creare abbigliamento, arredi, come oggetti li si considera e li si riutilizza.

“Carnaio” è una storia disturbante, un incubo ad occhi aperti e una discesa nell’abisso dell’indifferenza umana; “Carnaio” è una storia di fantasia, certo, ma è impossibile non cogliere i riferimenti alla quotidianità che ogni giorno incontriamo nelle notizie e scegliamo di ignorare.

Lo stile di Cavalli è scorrevole, trascinante come la piena delle onde che trasportano i corpi fino a DF; i periodi sono spesso lunghi, ricchi di virgole, riproducono il discorso diretto in una sorta di flusso di coscienza molto efficace.

“Carnaio” concorre per il Premio Campiello: pur non potendo fare confronti con gli altri concorrenti, trovo che si tratti di un romanzo originale e meritevole, se non di un riconoscimento, di certo di maggiore attenzione.

I conti dimezzati

Cerchiamo di capirci: un taglio alla spesa pubblica, soprattutto se intacca alcuni insopportabili privilegi del corpo parlamentare, sarebbe un segnale di morigeratezza al passo con questi tempi di difficoltà economiche e di crisi del lavoro. Su questo possiamo essere d’accordo. Ma la bava alla bocca anti-casta che in questi anni ha addirittura dipinto realtà inesistenti pur di accrescere l’antipolitica come leva per scardinare la democrazia e imporre l’autoritarismo (e il leaderismo) è uno degli errori più gravi che si potrebbero commettere in questo tempo dove si chiede di instaurare una credibilità, oltre che un governo.

Il taglio dei parlamentari, ad esempio, comporterebbe un risparmio nelle casse dello Stato di 50 milioni di euro. Ebbene, 50 milioni di euro non sono poca roba, detti così, buttati come se fossero un amo, ma stiamo parlando dello 0,007% della spesa pubblica. Un’inezia. Una roba da niente.

Sento già le osservazioni: “Da qualche parte bisogna cominciare”, dicono. Ed è verissimo. Ma ridurre il numero di deputati significa inevitabilmente ridurre anche la rappresentanza dei cittadini (quelli che si invocano sempre quando si è alti nei sondaggi, per dire) e tagliare i parlamentari significherebbe sicuramente mettere mano alla Costituzione (ve lo ricordate il risultato dell’ultimo referendum?) e affidare al prossimo governo lo studio di una giusta legge elettorale (sì, ciao) che non penalizzi le regioni più piccole.

Allora mi chiedo se non si otterrebbe un risparmio significativo (seppur minimo) e simile al taglio dei parlamentari con il dimezzamento delle indennità, solo per fare un esempio. O se davvero non sia possibile trovare risparmi più consistenti con riforme ben più coraggiose (mafie, corruzione, centinaia di miliardi, vi dicono qualcosa?) che garantirebbero l’equilibrio della democrazia decidendo di toccare quei potentati che da sempre ci costano molto di più dei caffè alla buvette della Camera (riconversione ecologica, ad esempio, che farebbe bene ai nostri figli).

Insomma, provare ad essere seri, fare tornare di moda la serietà, alzare il livello. Volare alto: una volta si diceva così.

Buon lunedì.

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Nel “Carnaio” di Giulio Cavalli la paura nei confronti dell’altro diventa profitto

Lo scrittore racconta il dramma dell’emigrazione e di come viene percepita da una società incapace di fare fronte al fenomeno 

(Lilia Ambrosi 25 Agosto 2019, Il Piccolo, fonte)

l’intervista Il primo cadavere arriva nel porto di DF in marzo e si può ancora fare finta di niente, ma quando nel pomeriggio del 4 aprile arriva un’onda fatta di migliaia di corpi tutti uguali, pelle scura, differenze di pochi centimetri e qualche grammo, l’insicurezza cala sul paesino costiero come una cupa cappa sconosciuta. Giulio Cavalli, uomo di teatro e d’inchiesta, finalista al Campiello, ci racconta in “Carnaio” (Fandango,pagg. 218 pagine, Euro 17,00) cosa l’Onda fa esplodere tra gli abitanti di questo piccolo luogo. 

Con una scrittura molto bella, che confronta con l’ironia l’ipocrisia, dipinge le reazioni delle istituzioni e dei singoli e lo fa toccando argomenti di grande attualità. Diciamo solo che DF imparerà a nutrirsi della sua disgrazia affondando nel cinismo fino, a costruire un mare finto pur di chiudersi in una difesa alla paura dal sapore patetico e decisamente spaventoso. 

Questo libro è per lei un atto di ribellione? 

«Mah sì, diciamo che uno dei comandamenti che mi porto dietro in tutto quello che faccio è una frase di Mark Twain che dice che non bisogna avere paura di ciò che non si conosce, ma dobbiamo temere quello che crediamo vero e invece non lo è. “Carnaio” ha una parte iniziale che vuole sbriciolare certi pregiudizi o certe grette e strette visioni che abbiamo per provare ad offrire una visuale inaspettata. Che poi è fondamentalmente il lavoro del giullare sul palco. E che è il lavoro che può svolgere molto dignitosamente la letteratura». 

In questo libro la paura abbonda. 

«Stiamo vivendo una realtà percepita che non è poi legittimata dai fatti e dai numeri e abbiamo preso questa china per cui la nostra sensazione diventa un fatto e viene rivenduta come se fosse l’unica verità possibile. Il che ci espone ad un inquinamento intellettuale molto pericoloso. L’ancoraggio ai fatti che di solito veniva mantenuto dall’informazione o dagli intellettuali, quando questo paese aveva degli intellettuali, è venuto completamente a mancare. Oggi vale qualsiasi affermazione o considerazione non verificata, non verificabile, non poggiata su dati reali e allora improvvisamente tutto vale. È quindi normale che i più fanfaroni diventino dei profeti». 

In “Carnaio” si parla molto di informazione, del confezionare allarmi, mungere lacrime, profanare tutto con assoluta impudicizia. Vi compare però anche Patel, un giornalista inglese che esce dal coro e viene trattato quasi come un monatto, uno da evitare per non farsi intaccare. Lei prova questo isolamento? 

«Si, ma non è tanto una solitudine sociale: ho la fortuna di avere molti lettori, molti spettatori quando sono sul palco, quindi non mi sento non capito o non ascoltato. Ma ho la sensazione netta che in questo paese per entrare nelle stanze dei bottoni, che siano quelle del giornalismo, della cultura o della politica, non contino la qualità e lo spessore delle proprie azioni e dei propri pensieri, ma conti la ricattabilità come garanzia per poter essere accettato in un circolo ristretto.» 

A proposito di qualità e di spessore direi che nel libro l’ignoranza è centrale: un suo personaggio dice “Noi i libri li usiamo per tenere ferme le porte”. 

«Perché la cultura è vissuta come una burocrazia intellettuale, e non è una cosa recente. Il sapere viene trattato come il fardello che appesantisce l’azione delle persone e non quindi come valore, oppure viene trattato con irrisione. È in qualche modo un’inversione antropologica per il paese: un tempo le famiglie di contadini vedevano come massima realizzazione avere figli più “studiati”. Oggi non è più così. Inoltre la semplificazione non è più vista come capacità e talento nel declinare in modo popolare argomenti complessi, ma come banalizzazione consapevole e addirittura premiata. Negli ultimi anni mi sono dedicato molto più alla letteratura che al teatro perché il libro è qualcosa che “sta” e che si può rileggere. In un periodo in cui la volatilità invece è la garanzia di poter dire qualcosa e di poter il giorno dopo dire il contrario, il libro “c’è”». 

Lei crede dunque ancora che la parola funzioni? 

«Assolutamente sì. Credo che nessun mezzo tecnologico, nessun agitatore di popolo, nessun pensiero dominante possa mai sgretolare il potere della parola». 

Cronache semiserie

Non si sa più nemmeno dove iniziare preparando un editoriale del giorno che è stato. Ogni giorno a pensare che non possa andare peggio di così e invece si comincia a scavare, andando a fondo, nel senso di affondando, in un Paese che riesce ad attorcigliarsi su se stesso fingendo di essere credibile. Un paio di cose che sono successe ieri e che vale la pena analizzare.

Il Movimento 5 Stelle, per iniziare, è riuscito addirittura a regalare anche l’apertura della crisi a Salvini. Geni. Dopo essere stati presi a calci per tutta la legislatura (facendo gli zerbini del Capitano) ora gli hanno dato l’occasione di apparire come dei signornò che lo mettono in difficoltà. L’attaccamento alla poltrona li ha portati a essere aperti come una scatoletta di tonno, come dicevano qualche era geologica fa, e ormai ci manca solo che Di Maio gli canti la canzoncina della buonanotte, poi l’asservimento totale è compiuto. Chissà se qualcuno si rende conto che un partito (ormai fa specie anche chiamarlo movimento) con una classe dirigente grottesca alla fine ne paga sempre le conseguenze. Hanno votato il Decreto sicurezza bis per attaccarsi alla poltrona e se la sono fatta sfilare.

Poi. Ieri si parlava della Turchia che brucia i libri, qui nel Buongiorno, e oggi arriva la notizia che qui da noi in Italia, precisamente a Lucca, un intero consiglio comunale si ritrovi a discutere di uno spettacolo teatrale. Giuro. Si tratta di uno spettacolo tratto dal graphic novel Cinzia di Leo Ortolani (grandissimo autore a cui Lucca dovrebbe dedicare una statua piuttosto che scene di questo tipo) che è stato considerato “troppo vicino all’ideologia gender”. Da incorniciare la frase del consigliere grillino Massimiliano Bindocci: «Su questi temi c’è un’estrema discrezionalità. Forse noi non siamo preparati per giudicare sulla bontà o meno delle scelte che vengono prese ma un luogo deputato a questo sarebbe necessario». Sì, si chiama ministero della censura, in effetti, quel luogo. Non vi metto nemmeno le frasi di Lega e destraccia varia per non insozzarvi la giornata ma le potete immaginare da voi.

Poi. Salvini a Sabaudia ha detto che quando finirà di fare politica tornerà al suo lavoro. E quando l’ha detto si è aperto un buco nero. Innanzitutto perché Salvini, da sempre, lavora di politica (e infatti il giornalista del Fatto Quotidiano Davide Vecchi ha vinto la causa che gli era stata intentata su questo) e poi perché nella sua breve esperienza da giornalista alla Padania, lo dice il suo ex direttore Moncalvo, firmava il foglio presenza senza andare al lavoro. Insomma: non riesce a dire una cosa che sia una senza buttarci dentro una bugia.

Che anno bellissimo.

Buon venerdì.

L’articolo Cronache semiserie proviene da Left.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2019/08/09/cronache-semiserie/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.