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Libri al rogo. Ancora

Se vi serve qualche nuova immagine per raccontare l’aria mefitica che si annusa in giro potete raccontare che l’indicibile continua a accadere senza che in troppi se ne accorgano, come se fosse una cosa da niente, tutto normale. Abbiamo passato decenni a fingere contrizione per i roghi di libri organizzati nel 1933 dai tedeschi che bruciarono tutto ciò che non era in linea con l’ideologia nazista, li abbiamo visti nei film, nei documentari, li abbiamo guardati con la certezza che una mostruosità del genere non potesse più accadere e invece il passato è già qui, ha la faccia del premier turco Erdogan e contiene la stessa spinta repressiva di chi non sapendo controbattere alle tesi dei suoi avversari decide di instaurare il silenzio e di chiamarlo libertà.

Scrive The Guardian che il governo turco avrebbe bruciato qualcosa come trecentomila libri negli ultimi tre anni perché ritenuti vicini alle tesi dell’oppositore politico di Erdogan, Fethullah Gülen – questo ha dichiarato il ministro dell’Istruzione Ziya Selçuk – e sono molte le associazioni umanitarie che raccontano della chiusura di almeno ventinove case editrici considerate nemiche del governo e del premier.

Ovviamente non ci è dato di sapere secondo quali criteri si sia deciso di mettere i libri al rogo (del resto in democrazie storpie come quella turca è il buonsenso del capo a dettare le regole) ma nel dicembre del 2016 un giornale turco scrisse che almeno un milione e 800mila libri di scuola erano stati ritirati perché contenevano la parola “Pennsylvania” che è lo stato americano dove Gülen vive da alcuni anni in esilio volontario.

Del resto parliamo della stessa Turchia che dopo il tentato golpe ha iniziato una serie di farneticanti ronde per arrestare presunti attentatori alla sicurezza nazionale tra politici, giornalisti, intellettuali e liberi cittadini. È la stessa Turchia che ha ormai cancellato la libertà di stampa lasciando spazio solo alle opinioni perfettamente allineate a Erdogan. È la stessa Turchia, sì proprio quella, che il nostro ministro dell’Interno ha indicato come buon alleato per l’Italia nello scacchiere europeo.

E chissà se abbiamo gli anticorpi per sapere leggere un fatto del genere.

Buon giovedì.

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Il senso di Salvini per la Polizia

L’ultimo è il giretto in moto d’acqua. Una scena degna di un cinepanettone dove il potente di turno è circondato da istituzioni che si fanno camerieri. I poliziotti trasformati in animatori del baby club nella spiaggia del Papeete Beach a disposizione del figlio del ministro dell’interno sono solo l’ultimo indizio della considerazione che il ministro ha delle forze dell’ordine, al di là delle sue altisonanti dichiarazioni, e chiarisce una volta per tutte la statura morale e istituzionale di un uomo che vive l’essere al governo come la gita di classe inaspettata.

È lo stesso Salvini che ha usato le forze dell’ordine per controllare e togliere gli striscioni contro di lui, come se fossero spazzini addetti al controllo del pensiero e del dissenso durante le sue scampagnate elettorali. Poliziotti che perquisiscono case di anziane pensionate perché si sono permesse di non essere d’accordo con le idee e le politiche del ministro sono una scena da dittatura sudamericana.

È lo stesso Salvini che usa la Polizia per scortare pericolosi bambini con i libri di scuola in braccio oppure per fare scendere temibilissime donne incinte dalle barche. La Polizia che usa gli idranti per sfollare le piazze e i disperati, come operatori di igiene pubblica che nulla hanno a che vedere con la sicurezza dei suoi cittadini.

È lo stesso Salvini che usa la Polizia come logo da esibire sulle sue magliette panciute, ridotti a travestimento delle sue incursioni su Facebook e usati come propaganda stampata sulle felpe.

È lo stesso Salvini che non ha risolto lo strutturale problema della carenza di uomini e di mezzi. Parla ma non fa.

È lo stesso Salvini che non aumenta gli stipendi di chi rischia la vita per pochi spicci al mese. Quello che apre le donazioni pubbliche per le famiglie di poliziotti o carabinieri uccisi dimenticandosi che se ne dovrebbe occupare lo Stato e che lo Stato in questo caso è lui.

E per quanto riguarda il suo errore da papà è lo stesso Salvini che dovrebbe rileggersi ciò che scrisse il figlio Giorgio di suo padre Giovanni Amendola (nel libro del 1976 Una scelta di vita, Rizzoli editore):

“Mio padre era intanto diventato ministro delle Colonie nel governo Facta. La vita a casa, con questa nomina, fu resa più difficile per le nuove condizioni economiche imposte dalla riduzione di stipendio. Dalle 4.000 lire al mese ricevute dal Corriere della Sera si era passati alle 2.000 lire che costituivano lo stipendio di un ministro.
Mio padre era di una rigida severità. Avendo io un giorno atteso sul portone di casa che egli scendesse, per ottenere un passaggio sull’automobile ministeriale fino a piazza Colonna (il ministero delle Colonie occupava allora Palazzo Chigi), egli me lo rifiutò bruscamente, dicendo che le automobili dello Stato non dovevano servire alle famiglie dei ministri. Ed infatti mia madre, nei suoi brevi soggiorni a casa, tra un ricovero e l’altro, non poté mai disporre dell’automobile ministeriale. Quando mio padre fece un viaggio ufficiale in Tripolitania e in Cirenaica, si rifiutò di farsi accompagnare da me, malgrado le pressioni di Donnarumma, infierendo inoltre con una cartolina inviata da Malta nella quale indicava la mia ennesima bocciatura come motivo del mio mancato viaggio in Africa. Ma, prima degli scrutini, nella sua unica visita fatta durante tutto l’anno al professor Kambo, al Visconti, gli aveva raccomandato la massima severità: « Lo rimandi, lo rimandi pure a ottobre, gli farà bene studiare ». Il professore Kambo non si fece pregare”.

Buon giovedì.

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Libri a vapore recensisce Carnaio

(fonte)

La vita da pendolare comporta tanto sonno e poche gioie. Una di queste è la lettura: in treno, in autobus, alla fermata, in stazione. Ogni settimana Giulia, redattrice culturale di Atlas – il blog, racconta le letture che la accompagnano, dal lunedì al venerdì, su un treno qualunque della linea del Brennero, andata e ritorno. 

Quando ho intervistato Pippo Civati, a dicembre, gli ho chiesto quali, secondo lui, fossero i libri che meglio avevano raccontato gli italiani del 2018. Mi aveva consigliato Carnaio, e, con un mostruoso ritardo, ho deciso di verificare se Pippo avesse ragione e di procurarmi il romanzo di Giulio Cavalli, pubblicato da Fandango, e che, tra l’altro, è tra i cinque finalisti dell’edizione di quest’anno del Premio Campiello. Potrei dire di averlo affrontato un po’ “a scatola chiusa”, informandomi molto poco sulla trama e sottovalutando le implicazioni del titolo. Pensavo di accingermi ad affrontare un romanzo sui migranti, un racconto sulla disperazione galleggiante cui ogni giorno, da qualche anno a questa parte, rifiutiamo di riconoscere la dignità dell’umano esistere. Ma non è stato proprio così. Come la disperazione di cui sopra, i migranti galleggiano, aleggiano come una spada di Damocle su tutta la narrazione messa in scena da Cavalli. La tematica, tuttavia,  non entra mai prepotente e imperiosa nel racconto, ed è questo a renderlo ancora più efficace. Il luogo dei fatti è DF, paesino di pescatori che inizia a rinvenire dei cadaveri di giovani africani, tutti della stessa altezza e dello stesso peso. Inizialmente se ne trova uno, poi quattro, poi un centinaio e a un certo punto la marea di carne si abbatte su DF, come una Grande Onda di Kanagawa, ma composta di cadaveri. Continua così, ciclicamente. E allora gli abitanti di DF si ingegnano e riutilizzano tutto ciò che gli arriva come meglio possono, ma, nel farlo, diventano loro stessi putridume, e forse lo erano già prima. Oltre al metaforico marciume di DF, Cavalli ha astutamente e strategicamente inserito tutti i termini che, da 14 mesi a questa parte, rendono ancor più putrida la comunicazione politica italiana e la retorica sdoganata da chi dovrebbe occuparsi della nostra sicurezza. Sono cose che mi capita di sentire anche in treno, ogni mattina e ogni sera, quando vado e torno dal lavoro, e, nelle ultime settimane, ho faticato a distinguere la realtà dalla finzione letteraria. Mi sono sentita disarmata. E disarmante non è solo il contenuto, ma anche lo stile di Cavalli: la sua scrittura e il suo immaginario incontrano la prosa ininterrotta di Cecità di Josè Saramago (sempre sia lodato) e l’assurda iconografia de L’Angelo Sterminatore di Luis Buñuel. Ovviamente ho adorato Carnaio, e lo consiglio ai forti di stomaco, a chi vuole vedere fino a che punto può arrivare l’umanità incattivita e aizzata e a chi non si spaventa per ciò che non ha spiegazione. Perchè, nel nostro piccolo mondo antico abbruttito, ogni cosa nasce dal niente e nel niente muore, ma è nello spazio tra quei due nulla che accade il tutto.

«Un bellissimo romanzo, drammatico, forte, scioccante, un pugno nello stomaco che tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina»: ‘Leggere e Rileggere’ recensisce Carnaio

(fonte)

(credits fotografici: Giorgia Negrini @leggere_e_rileggere)

Un bellissimo romanzo, drammatico, forte, scioccante, un pugno nello stomaco che tiene incollato il lettore dalla prima all’ultima pagina Carnaio di Giulio Cavalli edito da Fandango.

La copertina semplice, con una barca ed il mare, non fanno capire cosa racchiude questo libro: la tragedia del paese di DF e dei suoi cittadini, per la maggioranza pescatori che, improvvisamente al posto del pesce, si trovano a raccogliere corpi umani. Nessuno sa da dove vengano i cadaveri che, onda dopo onda, arrivano a sconvolgere la quotidianità di un paese.

“L’onda arrivò nel pomeriggio ma, per averne una visione chiara, servì attendere le prime immagini della televisione…. DF era ricoperta di cadaveri… un’onda di carne, senza corpi, a forma di massa…. Che sommerge la città … corpi come fango che sfondavano le siepi e le recinzioni dii ordinati giardini e le vetrine dei negozi e i gazebo dei bar sul lungomare.”

Sindaco, parroco e commissario cercano in un primo momento di risolvere il problema seguendo le procedure tradizionali e chiedono aiuto allo Stato ma successivamente di fronte alla mancanza di risposte ed aiuti decidono di risolvere le cose secondo le “regole” di DF. Quest’ultimo diventa un luogo chiuso, omertoso dove gli abitanti si arricchiscono sfruttando la carne e la pelle dei corpi ritrovati.

L’autore chiede lo sforzo del lettore per immaginare l’immaginabile….

Un romanzo che nel corso della lettura suscita sentimenti contrastanti: orrore, paura e impotenza.

“Carnaio” diventa una critica feroce, sarcastica e grottesca di una società in cui l’egoismo prende il sopravvento e i cittadini per mantenere la loro serenità sono disposti a tutto anche a perdere il senso dell’umanità.

Leggere e Rileggere è il blog in cui Giorgia Negrini legge, recensisce e parla di libri e librerie. Con i suoi profili Istagram e dalla pagina Facebook facendoci innamorare della lettura con splendide immagini e stories. Booklover, bookeater dice di lei “Leggere è da sempre la mia grande passione, laureata in Lingue e Letterature Straniere, mi piace condividere con altri questo mio amore per la lettura”. Seguila su

Instagram @leggere_e_rileggere  e Facebook e sulla Pagina facebook @leggereerileggere. Tra le sue recenti collaborazioni Corriere La Lettura e Radio Latte e Miele

Per LibroSì Lab cura la rubrica #leggereerileggerecongiò

«Una scrittura che evoca Saramago, Bolano, McCarthy, raccontando un uomo contemporaneo disumanizzato»: Corriere del Veneto su Carnaio

(di Francesca Visentin, dal Correre del Veneto, fonte)

Se un giorno dal mare invece che migranti iniziassero ad arrivare cadaveri. Solo cadaveri. A decine, a centinaia, a migliaia. Senza sosta. Sospinti dalle onde. Planando sulla costa fino a ricoprire un intero paese del sud. Visione catastrofica, distopica, che diventà realtà nel romanzo di Giulio Cavalli, Carnaio (Fandango, 218 pagine, 17 euro), scelto dalla giuria dei letterati come uno dei cinque libri finalisti al Premio Campiello, il concorso letterario organizzato da Confindustria Veneto. «Quelli», così sono definiti in Carnaio, «uomini di un altro mondo», tutti giovani, tutti neri, iniziano a piovere a ondate nel paese DF, ricoprono le strade, entrano dalle finestre aperte, risalgono i tubi, affiorando smembrati dai gabinetti. La causa è misteriosa. Ma l’emergenza va affrontata. I cittadini s’ingegnano, prima per difendersi, poi per trasformare il dramma in business. Costruiscono una barriera di plexiglas sulla spiaggia per bloccare i cadaveri. Quindi, arriva l’idea che porta profitto: dei corpi non si butta via niente. Vengono lavorati e trasformati in combustibile per una centrale elettrica, in cibo, giocattoli per bambini e pelle da concia, borse, divani, arredamento. Un progetto che fa inorridire il mondo, ma che arricchisce il paesino del sud e porta i cittadini a separarsi dall’Italia, a costituirsi come (ricchissimo) Stato indipendente, a chiudere le frontiere, a tenere lontani i giornalisti, a erigere una campana di vetro per segregarsi dal mondo.

Un crescendo inquietante di barbarie, vissuta dal paese e dal sindaco come innovazione straordinaria. La perdita totale di scrupoli e regole morali, va di pari passo con l’arricchirsi della comunità. Racconto incandescente, che inchioda per il ritmo veloce. Mette in scena pulsioni, imbarbarimento, lascia nel lettore la voglia, pagina dopo pagina, di scoprire fino a dove arriverà l’orrore. Ma contemporaneamente la scelta linguistica e narrativa di Cavalli, che punta sul grottesco e sull’ironia per portare in scena quell’incubo di carne e di soldi, rende il ritmo incalzante. «Non lo considero un romanzo politico – sottolinea Giulio Cavalli, scrittore, giornalista, autore teatrale – , credo sia una narrazione asettica, priva di giudizi. Che mette in evidenza dove può arrivare l’uomo quando abdica a ogni forma di etica e di morale e ogni giorno sposta un po’ più in là l’asticella del lecito. C’è chi l’ha definito una profezia, chi un libro di pura fantasia, la soddisfazione è che è stato apprezzato, anche da chi ha idee politiche diverse dalle mie. Il fatto che sia già alla quinta ristampa mi conferma che ai lettori piace».

Una scrittura che evoca Saramago, Bolano, McCarthy, raccontando un uomo contemporaneo disumanizzato, capace di qualsiasi azione pur di sopravvivere e arricchirsi. Il romanzo è corale, non c’è un protagonista, ma tante voci che parlano. E raccontano quello che accade a DF, ognuno dal suo punto di vista. Il sindaco, i creativi che escogitano sempre nuovi modi per trarre profitto dai cadaveri, lo chef che ne cucina le carni in ricette gourmet irresistibili, i pensatori, gli addetti alle varie mansioni. Anche chi dissente (e muore). Illuminante lo stralcio dell’intervista di uno dei pensatori e sponsor di DF. «Il fatto che noi in così breve tempo siamo diventati tra le città più ricche al mondo e di gran lunga la più ricca delle nazioni europee è la prova provata che le leggi, le vostre leggi, sono un ostacolo alla produttività – dice – . Si certo, l’accostamento della nostra centrale elettrica ai forni crematori è il cavallo di battaglia di chi ci vorrebbe screditare, senza riuscirci. La pornografia è negli occhi di chi guarda».

Un Campiello caldissimo (di Bruna Mozzi)

(fonte)

Incontro con i finalisti del Campiello 2019: si parte alle 19:00 con una cena leggera a metà self-service a metà servita. Vino buono e sorrisi ovunque. Siamo a Cornuda al Ristorante le Corderie: ambientino caldo (sic!) e accogliente. Si sta tra la sala interna – più fresca –  e il piccolo giardino con terrazza ( a 36° C). Dopo un antipasto bio, una fettina d’arrosto con patate e un dolcetto tradizionale, a cena conclusa prende la parola Matteo Zoppas, Presidente della Fondazione Il Campiello ‐ Confindustria e a seguire poi Piero Luxardo, Presidente del Comitato di gestione del Premio. Parole di encomio per il lavoro che sta facendo la Fondazione e sull’importanza della cultura anche per il mondo dell’imprenditoria.

        Poi siamo tutti invitati ad entrare nella Tipoteca, il Museo della Stampa e del Design tipografico che vanta  50 anni di vita da quando i tre fratelli Antiga hanno dato vita alla azienda leader nel settore della tipografia e della grafica, della cartotecnica e dell’editoria. Meta raggiunta grazie anche ai 200 collaboratori che hanno sempre privilegiato l’aspetto umano, la collaborazione, la sostenibilità ambientale: grazie agli attenti investimenti è divenuta un’azienda certificata “green”.

      Varco la soglia della tipoteca: attraverso la porta girevole e mi ritrovo inondata dal forte odore di inchiostro che respiro a pieni polmoni e mi riporta nella lontana infanzia. Con mio padre giravo per le piccole aziende della Bassa Padovana. L’odore sembra quello dell’olio motore misto a qualcos’altro. L’altra sensazione piacevolissima è quella del fresco. Estraggo dalla borsa la mia pashmina passpartout e non me ne separo più per i seguenti 90 minuti. Tanto è il tempo dell’incontro con gli autori. La formula è quella della rotazione: nelle quattro sale si alternano quattro finalisti (uno, Pecoraro, è assente), ciascuno stimolato da un intervistatore under 25, scelti tra gli ex partecipanti a Campiello giovani o tra studenti benemeriti in Master dell’editoria o simili.

      Siamo nella sala al piano terra dove ho guadagno a fatica una seconda fila che mi permette di vedere bene gli autori. Comincia Giulio Cavalli che parla di distopia del Paese Italia. Colpisce col suo stile graffiante così come sorprende il suo libro “Carnaio”. Parla di caduta del valori e dell’etica, denuncia un’Italia innamorata degli spericolati, denuncia l’impossibilità di condannare chi ha paura. Nella dedica sulla mia copia mi scrive “resisti” che riassume tutto il senso del libro e del suo intervento.

      Segue poi Andrea Tarabbia, al suo quinto romanzo: presenta il suo “Madrigale senza suono” un volume raffinato e colto ambientato nel tardo Rinascimento e che ha come protagonista un contemporaneo e antagonista di Tasso, Gesualdo da Venosa e un omicidio.

       E’ la volta dell’unica donna finalista: Laura Pariani. La sua storia – Il gioco di Santa Oca – ha la cornice storica del Seicento milanese, dopo il periodo di ambientazione del romanzo manzoniano (lo nomina l’autrice). La Pariani parla di scrittura e afferma che ha scoperto da grande che il lavoro dello scrittore non va da dentro a fuori, non è mera esternazione di pensieri ed emozioni, ma va da fuori a dentro. Lo scrittore ascolta, guarda, osserva e poi trasmette.

        Per ultimo nella sala della “stamperia” Paolo Colagrande, autore de “La vita dispari”, una storia originale di un certo Buttarelli che vede male da un occhio, non vede la metà di sinistra delle cose, dei libri, della vita. Vede tutto sfasato. Un cannocchiale sfocato sul mondo quello di Buttarelli che rivela invece acute osservazioni dell’autore sulla vita e sull’uomo, che pare esser sulla terra quasi per errore.

Una dedica anche degli altri autori, una sigla, una data: Cornuda, 25 luglio 2019.

Ora ho voglia di cercare una Via di Fuga, no, non dagli autori…ma solo dal caldo che non dà tregua.

La professoressa sospesa e le promesse

Ricordate Rosa Maria Dell’Aria? È la professoressa di Palermo che insegna all’istituto industriale Vittorio Emanuele III e che venne sospesa perché non avrebbe «vigilato» sul lavoro di alcuni suoi studenti di 14 anni che, durante la Giornata della memoria, avevano presentato un video nel quale accostavano la promulgazione delle leggi razziali del 1938 al “decreto sicurezza” del ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Ci fu un gran clamore in quei giorni. La sottosegretaria leghista ai Beni culturali Lucia Borgonzoni (quella che candidamente ammette di non leggere libri) era intervenuta su Facebook commentando: «Se è accaduto realmente andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere». Lei parlò della «più grande amarezza e la più grande ferita» della sua vita professionale. «Quel lavoro non aveva assolutamente alcuna finalità politica né tendeva a indottrinare gli studenti, che da sempre hanno lavorato in modo libero come essi stessi hanno dichiarato anche agli ispettori arrivati in istituto a fine gennaio». Dell’Aria ha spiegato di non aver visionato in anticipo la parte della presentazione con le immagini contestate e ha aggiunto: «Il video è il risultato dell’elaborazione dei ragazzi, si era parlato di diritti umani e nella loro elaborazione hanno fatto l’associazione tra il decreto sicurezza e la lesione dei diritti umani». Ha spiegato che il suo lavoro di insegnante consiste nel «modificare il libero convincimento laddove possa essere offensivo, denigratorio o osceno», ma non quello di reprimere le opinioni: «Il mio modus operandi è cercare che i ragazzi si formino un pensiero libero, critico, che siano attenti ai fatti della realtà e che imparino a ragionare e a pensare. Che si formino delle opinioni».

Di Maio le telefonò addirittura. “Farò di tutto – disse il vicepremier nel corso del colloquio con la docente – perché lei venga reintegrata il prima possibile. Prima che lo Stato perda è bene che si ravveda”. Salvini annunciò la revoca della sospensione e disse che avrebbe inaugurato il prossimo anno scolastico nella sua scuola.

Bene. La sanzione non è mai stata annullata, invece. È lei stessa a raccontarlo. Come se le promesse valessero da sole senza farle seguire dalle azioni. A posto così. “Ci tengo alla dichiarazione di illegittimità – ha detto – perché si percepisce già tra i colleghi, tra gli studenti la preoccupazione di non poter più dire in futuro: io la penso così. Forse ci vogliono allineati. E invece noi dobbiamo continuare”.

Buon giovedì.

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«La Macondo dell’orrore»: Damiano Sinfonico recensisce Carnaio

(fonte)

Non è facile immaginare un romanzo costruito sul dramma principe dei nostri anni, ovvero l’ostilità verso gli uomini e le donne che raggiungono il nostro continente. Ci ha provato Giulio Cavalli (1977), autore anche di testi teatrali e di inchiesta, nonché attivo nella militanza politica e nella lotta alla criminalità organizzata: il suo Carnaio, edito da Fandango Libri nell’autunno del 2018 e ora nella cinquina del premio Campiello, affronta il tema con tinte surreali e grottesche, elaborando l’intenzione politica con uno stile efficace.

In un punto imprecisato del sud Italia (a due ore da Malta, si dice), un paesino viene sconvolto prima dalla comparsa di alcuni cadaveri, poi da delle ondate (letteralmente) di centinaia e poi migliaia di corpi morti, che ricoprono le strade, entrano dalle finestre aperte, risalgono i tubi affiorando smembrati dai gabinetti. Senza che nessuno ricerchi l’origine e la causa di questo fenomeno, i cittadini si danno da fare per erigere una barriera di plexiglas sulla spiaggia e trasformare il dramma in un’opportunità economica, usando i corpi come materiale combustibile per una centrale elettrica, cibo e pelle da concia. Intanto l’isolamento porta i cittadini a separarsi dall’Italia e a costituirsi come Stato indipendente, arrivando a chiudere le frontiere, espellere i giornalisti e infine costruire una campana di vetro per segregarsi dal mondo.

Iniziamo dalla chiave politica del romanzo, anticipando però che questo non si riduce a quella. Più che l’evidente presa di posizione dell’autore, interessante è la rappresentazione del lento degrado e scivolamento verso una barbarie assoluta. La forza del romanzo sta nel dare forma, anche linguistica, a questo declino. La trama avanza in una atmosfera trasognata, e il paesino, questa Macondo dell’orrore, sembra appartenere contemporaneamente tanto ai nostri litorali quanto alle carte letterarie. Le pulsioni che vi prendono corpo sono estreme, eppure serpeggiano anche nei comizi di questi mesi. In tutto il libro c’è quest’aria continuamente sospesa, tra immaginazione e realtà, eppure alcuni suoi personaggi sembrano avere un piede nell’una e un piede nell’altra.

Giulio Cavalli ci dice che chi arriva dal mare «non è un cadavere del nostro mondo», che quegli uomini sono «diversi, così altri, mica come noi» e per tutto il romanzo saranno designati come «quelli». Ci mostra anche come nel paesino sorga l’intolleranza, da un primo sentimento di insicurezza all’arroganza contro i “professoroni” e i politici di Roma, dal bisogno di gestire rapidamente l’emergenza alla volontà di rimuovere tutti quei vincoli che garantiscono una convivenza democratica. Il risultato è racchiuso in due frasi mirabili: «la città si affievoliva in una convivenza che si era fatta aceto» e la «città come assembramento di persone sole allevate in una serra».

Viene da chiedersi se un’opera così congegnata riuscirà a scalfire il dibattito politico o a convincere qualche lettore con idee diverse. Anche se la risposta sarà probabilmente negativa, credo che il libro abbia il merito di saper comporre nell’immaginazione una figura precisa dell’orrore verso cui si potrebbe scivolare. Carnaio aiuta a fare chiarezza dell’oscurità in cui ci muoviamo, mostrando tutta l’irrazionalità delle paure, delle pulsioni e dell’imbarbarimento politico del nostro tempo.

Il romanzo fa leva non solo sulla densità dei temi, ma anche sulla forza della lingua. Nelle mani di Cavalli essa appare ravvivata, fluisce con naturalezza all’interno di architetture complesse. Estraggo per esempio un periodo (il dialogo tra la donna che ha trovato il secondo cadavere e il commissario):

Sì, certo, è vero, disse Lilly, ma prova a metterti nei miei panni, noi non abbiamo mica sempre la pistola in tasca, noi non sappiamo chi ci possiamo trovare di fronte, chi ci capita di incrociare, tocca a te spiegarci che va tutto bene, e non fare l’errore di sottovalutare il sentire comune, di irridere gli spaventati, pretendiamo rispetto da chi ci deve proteggere, e lui insistette ancora, calma, serve calma, ci sono inezie che si ingrossano e diventano torrenti, potrebbero essere due pescatori, due mozzi di qualche nave straniera, due contrabbandieri che hanno sbagliato rotta, anzi, sospirò il commissario e lo disse come si confessa un segreto di Stato, è più che un’ipotesi che fossero insieme, dico da vivi che navigassero insieme, imbarcati sulla stessa barca che magari ritroveremo arenata tra una settimana, quindi sarebbe il caso di valutare i due morti come se fossero uno, due rami dello stesso troncone di indagine, una sola sventura, un accadimento disarmante che banalmente si ripete perché si trascina la coda, ma che è già avvenuto anche se si ripresenterà di nuovo, qualcosa che tocchiamo ma non c’è già più, i resti di una storia che possiamo considerare passata, il resto, non so se mi segue, se le è chiara la metafora, e proprio per questo ciò che adesso davvero conta è non scaldare gli animi, trattenere il gusto di confezionare allarmi. 

Inoltre la pagina è impreziosita da espressioni ingegnose (la più bella: «un viandante viandato nella corrente») e parole rare (tra cui «smandrappato», «szoccolare», «sciancicato»). È evidente che l’autore non si è limitato a sostenere una idea di civiltà, ma l’ha saputa attizzare con una esuberante dote di scrittore.

Il romanzo prescinde dai confezionamenti livellanti. Lo si vede per esempio nell’assenza di un eroe, nella cui battaglia il lettore si sarebbe agevolmente identificato, o anche solo di un protagonista, che avrebbe dato alla narrazione un’impostazione classica; lo si vede anche in quello che forse è l’unico difetto del libro, ovvero una certa rigidità nella seconda parte, quando la disumanizzazione è compiuta e ogni capitolo aggiunge un’azione depravata. Tuttavia una scelta simile si può tollerare in un’opera originale, che certamente sarà apprezzata anche quando ci saremo allontanati dall’incredibile cronaca di questi anni.