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lombardia

Gli imprenditori codardi del nord. E la mafia ringrazia.

Ancora una volta tra le carte di un’operazione antimafia esce un quadro misero dell’imprenditoria lombarda. Ancora una volta la maggior parte dei giornalisti si sgola per raccontarci i riti mafiosi, i riti di iniziazione (e ha ragione Nando Dalla Chiesa a scrivere che ancora una volta la favoletta de “i colletti bianchi” viene smentita) e nessuna punta il dito contro una classe imprenditoriale che ritiene l’etica un ostacolo alla produttività.

Per fortuna Gabriella Colarusso ne scrive:

Fare affari con i clan: un gioco pericoloso.
Una falsa credenza, un idolum fori, per dirla col filosofo Francesco Bacone.
Questa è, secondo i magistrati dell’antimafia milanese – che con l’indagine Insubria hanno portato all’arresto di 44 presunti affiliati alla ‘ndrangheta tra Lombardia, Calabria e Sicilia -, la diffusa convinzione che, nel rapporto tra criminalità organizzata e imprenditoria, quest’ultima sia sempre e solo la parte lesa, l’anello debole della catena, la vittima.
Nella maggior parte dei casi, certo, lo squilibrio di forze tra picciotti con la pistola facile, adusi a minacce, estorsioni, intimidazioni, e imprenditori magari finiti nel giogo del racket per ingenuità o bisogno è enorme. E a favore dei primi.
QUELL’IMPRENDITORIA CHE FA AFFARI CON I CLAN. Ma accade e accade spesso che siano gli stessi commercianti, industriali o professionisti del terziario a cercare la Santa alleanza, convinti di poterne trarre benefici di mercato. Per poi scoprire magari di essersi resi schiavi di un meccanismo che non possono controllare e dal quale è difficile uscire.
Le inchieste condotte in questi anni in Lombardia, ossia «Infinito, Blue Cli, Valle-Lampada, Caposaldo», come annota il gip Simone Luerti negli atti dell’indagine Insubria, 
dimostrano «che l’imprenditoria non si limita a subire la ‘ndrangheta, ma fa affari con la stessa, spesso prendendo l’iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (momentaneamente) dei vantaggi».
Storie che si nascondono all’ombra delle periferie, dove l’occhio dei media spesso non arriva e fare affari per la ‘ndrangheta è più facile e sicuro.

Gli ‘ndranghetisti che riscuotevano crediti per conto degli imprenditori

Insubria illumina un pezzo di questa realtà. C’è la storia, per esempio, dell’imprenditore nato a Carate Brianza e residente in Svizzera, ora agli arresti, G.B.

Sarebbe stato lui stesso, secondo gli investigatori, a cercare le cosche e a incaricare il presunto ‘ndranghetista Michelangelo Chindamo di «riscuotere un preteso credito nei confronti» di un avvocato e di un commercialista svizzeri. E Chindamo, «avvalendosi di altre persone», non avrebbe esitato «a progettare e compiere numerosi atti di intimidazione» per raggiungere lo scopo, scrive il gip.
IL BARISTA CHE CHIAMA I CLAN PER DIFENDERSI DAGLI IMMIGRATI. Sempre a Chindamo si sarebbero rivolti poi un impresario 55enne di Como, operativo nel settore dei carburanti, per riscuotere un credito di 300 mila euro vantato nei confronti di un’altra azienda con sede a Lomazzo, dichiarata fallita nel 2012; l’amministratore delegato di una società di elettronica per recuperare un presunto credito di circa 1 milione di euro dai suoi clienti; il socio di un’azienda idraulica, anch’essa, presunta, creditrice. E persino il proprietario di un bar tabacchi, che avrebbe chiesto l’intervento degli ‘ndranghetisti «in quanto a suo dire minacciato da persone di origine extracomunitaria che si sono presentate presso il suo esercizio».

Anche al Nord si preferisce l’omertà: troppa sfiducia nelle istituzioni

Un «imponente numero di fatti intimidatori», scrivono gli inquirenti, quasi 500 dal 2008 a oggi, solo considerando i Comuni interessati dall’indagine, soltanto in minima parte vengono denunciati a causa «dell’omertà delle vittime (che sempre hanno dichiarato di non avere sospetti su nessuno e di non aver mai ricevuto pressioni o minacce di alcun tipo)».

L’altro aspetto del rapporto imprenditoria-criminalità messo in luce dall’inchiesta, infatti, è proprio questo: per ogni industriale, professionista o colletto bianco colluso, che trae vantaggio dalla relazione col potere mafioso, ci sono decine di altri imprenditori, commercianti o professionisti che si trovano poi costretti a subire violenza, ricatti e intimidazioni. E che per paura spesso non denunciano.
LA SFIDUCIA NELLO STATO. «Significativo il fatto che la totalità degli episodi intimidatori», scrive il gip nell’ordinanza, «(sia quelli dove si è risaliti a precise responsabilità, sia quelli dove gli autori sono rimasti ignoti) sono caratterizzati da una circostanza comune: le vittime, in sede di denuncia, riferiscono quasi sempre di non aver mai subito minacce».
Il che, spiega il gip, non può essere statisticamente sempre vero.
«Se le parti lese, a dispetto della gravità dei fatti subiti, non denunciano gli autori, ciò è dovuto a paura. I commercianti in questi casi preferiscono assicurarsi, sopportare i costi dell’illegalità subita, piuttosto che mettersi dalla parte dello Stato con una denuncia, che può essere foriera di guai peggiori».
Paura, sfiducia nelle istituzioni. E dall’altro lato convenienza quando non aperta mafiosità.

I terreni dell’Expo

Hanno ripetuto centinaia di volte che “l’aspetto fondamentale è avere una visione lunga e pensare al dopo EXPO”, in tutte le salse, in tutte le riunioni e invece:

Deserta la gara per i terreni del dopo Expo, le banche già alla finestra

Ore 12 di Sabato 15 novembre 2014. L’ultima data disponibile per il primo bando di gara per l’assegnazione dei terreni su cui si terrà l’Expo nel 2015 a Milano. Insomma, nessun investitore vuole raccogliere l’eredità di ciò che l’esposizione universale lascerà. Un band da 315,4 milioni di euro messa in vendita a metà agosto da Arexpo, ovvero la società che nel 2011 ha acquisito le aree per l’esposizione e che ha il compito nel post-evento di “accompagnare” la trasformazione dei terreni che hanno ospitato i padiglioni.

Tutto da rivedere il piano che evidentemente non ha fatto abbastanza gola ai re del mattone. Stando al bando, si era prevista la vendita un lotto unico, la cui parte edificabile, sul totale di 105 ettari, non avrebbe dovuto superare i 479mila mq, mentre il 54% dei terreni doveva essere destinato al parco tematico. Forse troppo verde, forse un piano commerciale che non ha attirato, forse i tempi troppo stretti: fatto sta che ora si dovrà ricorrere a un piano B, nonostante il presidente di Arexpo Luciano Pilotti nelle scorse settimane ebbe a dire che «Siamo qui per il piano A, non per il piano B».

Nel frattempo sono arrivate però ad Arexpo richieste per appezzamenti minori tra i 20mila e i 50mila metri quadrati, ma, come riporta Il Sole 24 Ore “il rischio che il progetto venga “spezzettato” si scontra con il rischio che gli offerenti vogliano accaparrarsi solo le parti più prestigiose e con minori oneri sociali, lasciando fuori dal progetto parchi e opere di interesse collettivo. E al Comune di Milano non intende rinunciare all’obbligo, contenuto nel masterplan, di destinare il 56% dell’area a verde pubblico”.

Quindi? Quindi le vere protagoniste del piano B potrebbero diventare le banche. Già in agosto lo stesso presidente di Arexpo sottolineava come una volta andato deserto il primo bando si sarebbe potuta rivedere la «mission societaria di Arexpo», andando a fare nuove gare in lotti più piccoli e pianificando la riconversione dell’area in lotti più piccoli.

Non è infatti un caso che il quotidiano finanziario in rosa scriva «Un eventuale accordo con le banche potrebbe consentire ad Arexpo di trasformarsi in soggetto promotore e garantire l’operazione di sviluppo sull’area attraverso un’importante regia pubblica. La vera spada di Damocle, infatti, è il finanziamento delle banche che – salvo eventuali nuovi accordi da prendere nelle prossime settimane – potrebbero presto avanzare le loro pretese e diventare attori protagonisti del post-Expo».

E il pool degli istituti di credito bussano già alla porta: Arexpo ad aprile 2017 dovra alle banche (Intesa Sanpaolo, Banca Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Credito Bergamasco, Banca Popolare di Milano, Banca Imi) 160milioni con la garanzia di andare a gara entro fine 2014. Termine rispettato, ma se entro la primavera 2015 non ci saranno le condizioni per aggiudicare bando e lotti, sosteneva già in agosto Pilotti «bisognerà rinegoziare termini nuovi con le banche», e ancora «In caso di gara deserta – dice il presidente di Arexpo – bisognerà rivedere la macchina organizzativa con il supporto delle banche». Insomma gli istituti di credito sembrano già aver messo un piede nell’affaire post-expo, che con le imminenti elezioni a Palazzo Marino è un affare tutto tranne che chiuso.

Una nuova assemblea dei soci si terrà nelle prossime settimane, perché il vincolo sulla cessione unica dell’intero lotto al momento sembra non interessare gli acquirenti.

[di Luca Rinaldi su Linkiesta]

Operazione “Insubria”: i nomi degli arrestati

Gli arresti dell’operazione “Insubria“. Le persone arrestate oggi, quasi tutte residenti in Lombardia, per associazione di tipo mafioso, estorsione, detenzione e porto abusivo di armi sono:

CUSTODIA CAUTELARE IN CARCERE (35):

1. Puglisi Giuseppe, inteso “Melangiana”, 53 anni, nato a Messina e residente a Cermenate (CO), operaio, già coinvolto, sebbene poi assolto, nell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Puglisi Giuseppe è emerso quale “capo” del “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “Quartino”.

2. Mercuri Antonino, inteso “Pizzicaferro”, 64 anni, nato a Giffone (RC) residente a Airuno (LC). Nell’ambito della presente indagine, Mercuri Antonino è emerso quale “capo” del “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Padrino”.

3. Mandaglio Antonio, inteso “Occhiazzi”, 60 anni, nato a Giffone (RC), residente a Carenno (LC), pensionato, già coinvolto, sebbene poi assolto, nell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Mandaglio Antonio è emerso quale “capo società” del “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” pari o superiore a “trequartino”.

4. Chindamo Michelangelo, 61 anni, nato a Palmi (RC), residente a Cadorago (CO), già condannato per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti nell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia “Fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Chindamo Michelangelo è emerso quale “capo” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

5. Adducci Angiolino, 63 anni, nato a Grisolia (CS), residente a Lentate sul Seveso (MB), imprenditore, già condannato ad anni 3 di reclusione a seguito dell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine Adducci Angiolino è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “sgarro”.

6. Ambresi Pasquale, 55 anni, nato a Oppido Mamertina (RC), residente a Cadorago (CO), camionista. Nell’ambito della presente indagine Ambresi Pasquale è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della dote di “camorrista di sgarro”.

7. Monteleone Giuseppe, 25 anni, inteso “Baciulo”, nato a Cinquefrondi (RC), residente a Bregnano (CO), operaio. Nell’ambito della presente indagine Monteleone Giuseppe è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della dote di “camorra”.

8. Paviglianiti Marco, 30 anni, nato a Cantù (CO), residente a Lomazzo (CO). Nell’ambito della presente indagine Paviglianiti Marco è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso di una dote allo stato non determinata.

9. Puglisi Giovanni, 20 anni, nato a Cantù (CO), residente a Cermenate (CO), figlio dell’indagato Puglisi Giuseppe, “capo” del “locale di Cermenate”. Nell’ambito della presente indagine PUGLISI Giovanni è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “sgarro”.

10. Scali Giuseppe Salvatore, 78 anni, inteso “Tarzan”, nato a Grotteria (RC), residente a Cantù (CO), pensionato, già condannato ad anni 18 di reclusione per associazione mafiosa e traffico di stupefacenti, a seguito dell’indagine del 1994 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “I fiori della notte di San Vito”. Nell’ambito della presente indagine, Scali Giuseppe Salvatore è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

11. Sciacca Filippo, 51 anni, nato a Giffone (RC), residente a Cadorago (CO), operaio. Nell’ambito della presente indagine Sciacca Filippo è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso di una dote pari o superiore alla “Santa”.

12. Valente Ivano Bartolomeo, 25 anni, nato a Cinquefrondi (RC), residente a Guanzate (CO), operaio, nipote dell’indagato Puglisi Giuseppe, “capo” del “Locale di Cermenate”. Nell’ambito della presente indagine Valente Ivano Bartolomeo è emerso quale “affiliato” al “locale di Cermenate”, in possesso della dote della “Santa”.

13. Condò Marco, 43 anni, nato a Lecco (LC), residente a Sotto il Monte Giovanni XXIII (BG), operaio, fratello degli indagati Condò Ivan e Condò Antonio, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine, Condò Marco è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte” con funzioni di “Mastro di Giornata”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

14. Buttà Giovanni, 52 anni, nato a Caronia (ME), residente a Calolziocorte (LC), già condannato per omicidio in concorso, operaio. Nell’ambito della presente indagine, Buttà Giovanni è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” della “Santa”.

15. Condò Antonio, 44 anni, nato a Lecco (LC), residente a Torre de’ Busi (LC), camionista, fratello degli indagati Condò Ivan e Condò Marco, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine, CONDÒ Antonio è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” pari o superiore al “Vangelo”.

16. Condò Ivan, 39 anni, nato a Lecco (LC), residente a Calolziocorte (LC), camionista, fratello degli indagati Condò Antonio e Condò Marco, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine, Condò Ivan è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di una “dote” allo stato non determinata.

17. Gozzo Rosario, 50 anni, nato a Giffone (RC), residente a Carenno (LC), operaio. Nell’ambito della presente indagine, Gozzo Rosario è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

18. Lamanna Domenico, 64 anni, nato a Laureana di Borrello (RC), residente a Calolziocorte (LC), elettricista, già coinvolto, sebbene poi assolto, per i reati di associazione mafiosa e associazione finalizzata al traffico di stupefacenti nell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “I Fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine, Lamanna Domenico è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” pari o superiore alla “Santa”.

19. Mandaglio Bartolomeo, 56 anni, nato a Giffone (RC), residente a Vercurago (LC), imprenditore edile, cugino dell’indagato Valente Salvatore Pietro. Nell’ambito della presente indagine, Mandaglio Bartolomeo è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

20. Mandaglio Luca, 30 anni, nato a Lecco, residente a Olgiate Comasco (CO), cameriere, figlio dell’indagatoMandaglio Antonio, “capo società” del “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine MANDAGLIO Luca è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della dote della “Santa”.

21. Marinaro Giovanni, 54 anni, nato a Caronia (ME), residente a Calolziocorte (LC), imbianchino, già condannato per i reati di associazione mafiosa e traffico di stupefacenti nell’indagine sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “Wall Street”. Nell’ambito della presente indagine, Marinaro Giovanni è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

22. Montagnese Nicholas, 22 anni, nato a Lecco, residente a Torre de’ Busi (LC), rispettivamente nipote e pronipote degli indagati Valente Salvatore Pietro e Mandaglio Bartolomeo, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine Montagnese Nicholas è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della dote di “picciotto”.

23. Panuccio Albano, 33 anni, nato a Oggiono (LC), residente a Dolzago (LC), operaio, rispettivamente figlio, nipote e cugino degli indagati Panuccio Albano, Panuccio Antonino e Gozzo Rosario, tutti ”affiliati” al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine Panuccio Albano è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Sgarro”.

24. Panuccio Antonino, 57 anni, nato a Giffone (LC), residente a Dolzago (LC), operaio, rispettivamente fratello e zio degli indagati Panuccio Michelangelo e Panuccio Albano, entrambi ”affiliati” al “locale di Calolziocorte”. Nell’ambito della presente indagine Panuccio Antonino è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

25. Petrolo Francesco, 56 anni, nato a Giffone (RC), residente a Torre de’ Busi (LC). Nell’ambito della presente indagine, Petrolo Francesco è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

26. Valente Salvatore Pietro, 48 anni, nato a Taurianova (RC), residente a Torre de’ Busi (LC), operaio, cugino dell’indagato Puglisi Giuseppe “capo” del “locale di Cermenate”, e dell’indagato Mandaglio Bartolomeo ”affiliato” al “locale di Calolziocorte”; padre dell’indagato minorenne Valente Manuel Bartolo e zio dell’indagato Montagnese Nicholas, entrambi affiliati al “locale di Calolziocorte”; Nell’ambito della presente indagine Valente Salvatore Pietro è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

27. Varrone Vittorio, 41 anni, nato a Belcastro (CZ), residente a Lecco (LC), operaio. Nell’ambito della presente indagine, Varrone Vittorio è emerso quale “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso della “dote” della “Santa”.

28. Gallo Fortunato, 62 anni, nato a Giffone (RC), residente a Carimate (CO), pensionato, già condannato ad anni 4 di reclusione a seguito dell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia nota come “I fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine Gallo Fortunato è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” di “trequartino”.

29. Gentile Antonio, 38 anni, nato a Cittanova (RC), ivi residente, pizzaiolo, già condannato per reati in materia di stupefacenti, armi e rapina. Nell’ambito della presente indagine, Gentile Antonio è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di una “dote” allo stato non determinata.

30. Greco Giuseppe, 31 anni, nato a Como, residente a Bregnano (CO), commerciante, già condannato per reati contro la persona. Nell’ambito della presente indagine, Greco Giuseppe è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di una “dote” pari o superiore a “camorrista di sgarro”.

31. Iacopetta Salvatore, 39 anni, nato a Locri (RC), residente a Bulgarograsso (CO), camionista. Nell’ambito della presente indagine Iacopetta Salvatore è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di una dote allo stato non determinata.

32. Larosa Michelangelo, 43 anni, inteso “Bocconcino”, nato a Giffone (RC), di fatto domiciliato a Milano, cognato dell’indagato Larosa Giuseppe (Polistena, RC, 20/07/1965), “capo” del “locale di Giffone”. Nell’ambito della presente indagine Larosa Michelangelo è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso di dote pari o superiore al “Vangelo”.

33. Mercuri Bruno, 62 anni, nato a Giffone (RC), residente a Bulgarograsso (CO), già coinvolto, sebbene poi assolto, per i reati di associazione mafiosa e traffico di stupefacenti nell’indagine del 1996 sulla ‘ndrangheta in Lombardia “I Fiori della notte di San Vito 2”. Nell’ambito della presente indagine, Mercuri Bruno è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” della “Santa”.

34. Rullo Alfredo, 59 anni, nato a Giffone (RC), residente a Cadorago (CO). Nell’ambito della presente indagine Rullo Alfredo è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della dote della “Santa”.

35. Rullo Luciano, 47 anni, nato a Como, residente a Fino Mornasco (CO), cugino dell’indagato Larosa Salvatore, affiliato al “locale di Fino Mornasco”. Nell’ambito della presente indagine Rullo Luciano è emerso quale “affiliato” del “locale di Fino Mornasco”, in possesso della “dote” di “Vangelo”.

36. Massimo Iacopetta, 36 anni, nato a Locri (RC) e residente a Vertemate con Minoprio, nella cui abitazione è stata rinvenuta e sequestrata una pistola . Iacopetta era indagato in stato di libertà e destinatario solo di una perquisizione, poichè dalle intercettazioni effettuate durante le indagini erano emersi indizi circa il possesso da parte sua di armi illegalmente detenute; Iacopetta è stato arrestato in flagranza, per il possesso illegale di una pistola,

 

IN CUSTODIA CAUTELARE AGLI ARRESTI DOMICILIARI (3):

37. Bersani Giuseppe, 49 anni, nato a Carate Brianza (MB), residente a Gudo (Svizzera), imprenditore metallurgico.

38. Mirandi Renato, 46 anni, nato a Como, residente a Olgiate Comasco (CO), imprenditore.

39. Panuccio Michelangelo, 61 anni, nato a Giffone (RC), residente a Dolzago (LC), “affiliato” al “locale di Calolziocorte”, in possesso di “dote” pari o superiore al “vangelo”.

‘Ndrangheta: il fango a comando

Tavolo dei testimoni. Siede Federico Corniglia, ex riciclatore della ‘ndrangheta, ascoltatissimo dalla Procura di Palermo che fino al 2006, anche grazie alle sue indicazioni, ha dato la caccia a Bernardo Provenzano. Ieri ha parlato in un processo a Milano che vede imputato un poliziotto per favoreggiamento e rivelazione di atti coperti da segreto. Si chiama Carmine Gallo ed è considerato l’investigatore italiano più esperto in fatto di lotta alla ‘ndrangheta. Sempre ieri Gallo ha rinunciato alla prescrizione prevista per il 2016. Corniglia è testimone dell’accusa. Racconta del suo interrogatorio in Svizzera, 8 gennaio 2010. “In una pausa il maresciallo del Ros di Verona Mario Arabia e l’ispettore della polizia elvetica Gianluca Calà mi chiesero di fare dichiarazioni accusatorie contro Carmine Gallo e Alberto Nobili”. Pausa. Alberto Nobili, attuale procuratore aggiunto, è stato uno dei magistrati di punta dell’antimafia milanese e con Carmine Gallo, nel 1993, ha gestito le dichiarazioni del superpentito Saverio Morabito. Verbali che hanno dato fuoco alle polveri del maxi-blitz nord-sud su vent’anni di affari delle cosche al nord. Corniglia prosegue: “Mi dissero” che su Gallo e Nobili “avevano indicazioni di rapporti” dei due “con uomini dei clan a Milano”. Rapporti che, però, non emergono dalle carte dell’inchiesta. “Da quel momento in poi – prosegue Corniglia durante il controesame dell’avvocato Antonella Augimeri – ho fatto dichiarazioni accusatorie contro Gallo. In cambio promisero di spostarmi dal carcere svizzero dove stavo in isolamento all’infermeria del carcere di Padova”. La sua deposizione è considerata uno dei cardini dell’accusa che imputa al poliziotto di aver “spifferato” a Corniglia il nome di un’indagine del Ros di Padova e della procura di Venezia che nel 2008 ha portato in carcere una batteria di spacciatori composta da ex estremisti di destra e da reduci della mala del Brenta. In quell’inchiesta, oltre a Corniglia, viene indagato Gallo per droga. Accusa caduta in Cassazione e posizione stralciata a Milano dove il procuratore aggiunto Ilda Boccassini per lui ottiene il giudizio immediato. Dopo le “ritrattazioni” di ieri, i pm Paolo Storari e Francesca Celle hanno ipotizzato l’accusa di calunnia per Federico Corniglia.

(link)

“Frantumare le rotule”. ‘Ndrangheta. Lombardia.

Che guaio può passare un benzinaio del Nord se, per caso, incontra e non esaudisce il desiderio di una cliente, particolare, una donna del Sud: la figlia di una famiglia di ’ndrangheta. Basta, è bastato, non aver dato la disponibilità a pagare col bancomat il rifornimento di carburante al di sotto dei 20 euro. Affronto insostenibile, da pagare col sangue del benzinaio, pur settantenne, e con un certo piacere nel riferirne i particolari. «Lo sgabello era di ferro! Tutte le costole cose… gli ha picchiato un pugno..Gli ha spaccato tutto il naso quel sangue ha sporcato pure noi, io avevo le scarpe piene di sangue».  Scarpe bianche appuntite, contro il costato, la milza, la testa del poveretto.

Le anime nere si muovono a Milano, nell’hinterland, in Lombardia come sulla punta dello stretto più a sud, Vibo Valentia. A colpi di piccone, sgabelli di ferro, calibro nove per «frantumare le rotule», proiettili in busta, auto incendiate. Una violenza che non sempre ha moventi solidi, ma che in quest’ultimo capitolo sulle ‘ndrine in Lombardia, scritto a opera del Ros e della Dda di Milano (tredici arresti tra rappresentanti della famiglia Mancuso, i Galati, e gli uomini della “Locale“ di Mariano Comense di Salvatore Muscatello coinvolti anche in subappalti in Expo) è brutale potere.

Così Luigi Malafonte il 21 settembre 2009 finisce sotto i tacchi di Antonio Galati e Michele Mazzeo (morto poi in un incidente d’auto) – «sembrava un cavallo quel giorno» dirà compiaciuto il suo compare di pestaggio – per aver rifiutato, alla Erg di Cantù, il bancomat per una spesa minima alla figlia, incinta, di Galati, la Rosina. Così un commerciante di autovetture di Cosenza, Isidoro De Ferraris, che azzardò forse a non dare il dovuto a Mazzeo della vendita, verrà inseguito fino a Milano, piazzale Loreto, e massacrato a colpi di manico di piccone dentro e fuori la pizzeria Dinky (11 luglio 2007)«Mannaggia l’ostia quante palate a quello! Dopo è scappato fuori, fuori cadde e picchiavamo tutti e tre lì a terra no? Era morto», dirà il solito Galati. E se non muore, il cosentino, è solo perché Mazzeo ha dato l’ordine di no, «non colpire in testa».

Ma questa ’ndrangheta milanese che non si è ripulita a Milano e le cui gesta tornano nelle intercettazioni alcuni anni dopo, non si ferma di fronte a inchieste, arresti, misure di prevenzione. E arriva fino alla direttrice del carcere di Monza, che nella sala colloqui verrà definita «la padrona di qua». Maria Pitaniello, secondo lo schema che la “colpa“ attribuita non è mai verificata prima di passare a decisioni sommarie, è sospettata dal Fortunato del clan Galati di avere ostacolato la domanda di trasferimento di questi il 6 marzo 2013 da Monza a Lauretana di Borrello, Palmi o Vibo Valentia. In realtà la direttrice ha fatto quel che deve, e il 13 aprile inoltrato l’istanza all’amministrazione penitenziaria. Particolare irrilevante per lo ’ndranghetista, che passerà all’intimidazione, facendo spedire alla funzionaria una busta con tre proiettili. E ancor peggio va al vigile urbano di Giussano, Luigi Galanti, che riconosce Fortunato Galati, in semilibertà con un lavoro fittizio in un posto “di famiglia“ come «La bottega del pane», a forzare un posto di blocco. Il vigile e la sua relazione ai carabinieri vengono collegati al ripristino della misura cautelare («Ti sembra che il vigile non gliel’ha detto ai carabinieri?!»). Sentenza emessa, in immediato, il 18 marzo 2013: e l’auto del ghisa finisce in fumo.

(fonte)

‘Ndrangheta in Lombardia: il politico PD

AddisiUn politico e due facce. Quella pubblica e quella della “malavita sbirraglia”. Un politico del Partito democratico. Ancora. Un affare: terreni industriali da comprare e riconvertire in residenziali. Paga la ‘ndrangheta, garantisce il consigliere comunale Calogero Addisi. Garantisce per sé e per i parenti che stanno in Calabria. Incassa voti nel comune di Rho e si fa comandare dal boss Pantaleone Mancuso che lo riceve (è il 2012) nella sua villa in contrada agro di Limbadi. Perché come spiega il collaboratore di giustizia Antonino Belnome “un locale è forte quando ha le sue radici in Calabria, il nord non conta niente senza la Calabria”.

Insomma, tradizione e affari. Da Vibo Valentia all’hinterland milanese. Spartito semplice: Addisi fiuta l’affare, media con la cosca e passa la palla all’imprenditore. Sul tavolo lui mette la promessa: “In Comune ci penso io”. Ma niente telefono perché “così mi arrestano”. Addisi conosce i rischi, eppure ci mette parola e contatti. Quelli di Antonio Galati, emissario lombardo dei Mancuso, “mafioso” dicono le intercettazioni, ricco anche, capace di buttare sul tavolo 300mila euro per il business. Il filo della storia è questo. C’è il politico a catena (della mafia): “Ma se gli ho detto, non ci sono problemi a Rho … ve li risolvo io”. Che disegna speculazioni edilizie. E c’è il politico (sempre lo stesso) che parla in pubblico davanti al consiglio comunale. E dice: “Con questo P.G.T. abbiamo cercato di ridisegnare la città, preservandola dalle brutture, dagli scempi maligni e dal consumo dissennato del territorio. Un risultato storico. Una medaglia per tutta l’amministrazione. Una nuova rivoluzione culturale insomma”. E poi c’è il giudice per le indagini preliminari che per Addisi dispone l’arresto. Sul punto scrive: “Addisi mente in quanto è ben consapevole non solo di avere interesse nel Pgt, ma anche del fatto che un’area, interessata dal Pgt, è stata acquistata con il denaro della ‘ndrangheta”. Benvenuti in Lombardia. Benvenuti nell’ultima storia di mafia, armi e politica. Perché questo racconta l’ordinanza di 800 pagine firmata dal giudice Alfonsa Maria Ferraro e che poche ore fa ha portato in carcere 13 persone accusate, a vario titolo, di associazione ‘ndranghetista, riciclaggio e abuso d’ufficio aggravato dal metodo mafioso. Accusa, l’ultima, che tocca all’ex consigliere comunale Calogero Addisi, parente dei Mancuso e già citato (ma non indagato) nell’indagine che nel 2012 ha portato in carcere l’allora assessore regionale alla Casa Mimmo Zambetti.

L’operazione “Quadrifoglio” coordinata dal pm Paolo Storari e dal Ros di Milano, comandato dal colonnello Giovanni Sozzo, fotografa il presente criminale nella regione più ricca d’Italia. Fotografa l’affare sul terreno di Lucernate di Rho. In sintesi: Galati, la ‘ndrangheta, secondo l’accusa, ci mette il denaro, ottenendo come contropartita il cambio di destinazione per rivalutare il terreno. Non solo. Accatastando intercettazioni e filmati, l’inchiesta mostra il controllo del territorio dei clan lombardi, la loro violenza palesa, la capacità, infine, di mettersi in tasca politici, funzionari pubblici, uomini d’affari, guardie penitenziarie, commercialisti. Professionisti, insomma. Tutti a disposizione. E’ il capitale sociale della ‘ndrangheta. Che ha permesso ai boss d’infiltrarsi nei subappalti di Expo 2015, attraverso una società riconducibile al fratello carcerato di Antonio Galati. Borghesia mafiosa mixata all’ala militare. Quella, ragionano magistrati e investigatori, che fa capo ad Antonio Galati.

Questa è la ‘ndrangheta che nella Lombardia dell’Expo si spartisce il territorio con regole e leggi proprie. Antistato che si fa Stato. Della partita è anche Salvatore Muscatello, boss ultraottantenne, eminenza grigia della ‘ndrangheta lombarda, protagonista dei maxi blitz degli anni Novanta (La Notte dei fiori di San Vito). Poi capo della locale di Mariano Comense nell’operazione Infinito del 2010, arrestato, condannato, messo ai domiciliari. E ora, tra il 2012 a questa mattina, capo dello stato mafioso lombardo, riverito e pagato. Nel suo bunker andavano tutti. Il nipote di Giuseppe Morabito, alias u tiradrittu, la moglie del boss di Vigevano, Fortunato Valle (“Quello – dice Muscatello- mi lavava i piedi”). Ci va Emilio Pizzinga, politico locale a caccia di voti, e padre di Francesco, finito in galera nel 2006 perché trafficava droga con la ‘ndrangheta di Africo. Pizzinga incontra Muscatello nel gennaio 2014. Il comune di Mariano Comense è appena stato commissariato dopo che 11 consiglieri hanno tolto la fiducia. A maggio ci saranno le elezioni. Pizzinga cerca voti e sa dove andare. Dice al boss: “Vedete se mi trovate preferenza! Se no, non si fa più niente dopo!”. E ancora: “A me hanno dato in mano il partito”. Il boss chiede: “Quale partito?”. Pizzinga risponde: “Forza Italia!”.

Par condicio rispettata, dunque. Pd e Pdl. La ‘ndrangheta non fa differenza. E se Pizzinga chiede voti, Addisi garantisce. Ma quando le cose vanno per le lunghe e la delibera non conferma la speculazione, il boss (Antonio Galati) rivuole i soldi e minaccia: “Ancora ci sono 300.000 euro in ballo, ora piano piano li prendo (…). Io ad Addisi glielo ho detto: stai attento a quello che facciamo qua, che io ti lego per il collo, ti metto alla macchina e ti porto in giro!”. Perché il legame (mafioso) non si scioglie e col tempo (breve) il cappio si stringe. Addisi lo capisce: “Tu e l’altro mi avete rovinato la vita (…), ho subito umiliazioni da tutte le parti, ero un grande uomo e mi avete rovinato la vita, e non sto parlando dei soldi miei, devo fare da garante dei soldi degli altri (…) io non so fino a quando riesco a tenere la cosa (…) perché so che succederà qualcosa di grave, lo sento, succederà qualcosa, mi ho rovinato la mia vita per non avere commesso mai un cazzo … “.

I timori di Addisi, che, secondo l’accusa, bene conosce le dinamiche mafiose, non spaventano Franco Monzini, imprenditore lombardo coinvolto nell’affare. Monzini conosce Galati grazie ad Addisi. Ben presto capisce chi è Galati: “Un mafioso”. Da ammirare addirittura. Intercettato Monzin confida: “La mafia se vede che una cosa funziona i soldi ce li mette, non diciamo cazzate, magari fa altre cose, per carità! Che conosco anche! Però se una cosa è una cosa seria la vede il mafioso come la vedo io, uguale, uguale anzi magari lui ha più mezzi e non deve andare in banca a piangere perché ci mette i suoi … “. Vero. Ma solo a metà. Spiega Addisi: “Conoscete una faccia di Antonio che non è quella vera (…) ti incapretta! tu credimi, ti incapretta e prima di farti fuori si diverte un po’, ma molto!”.

La violenza garantisce politica e affari. E’ così, scrive il giudice, che “si costituisce il collante del sodalizio atteso che la sua forza intimidatrice si è potuta estrinsecare anche in virtù di detti rapporti i quali hanno certamente cementificato i rapporti tra i sodali”. La storia cambia la maschera. Adesso è pura violenza mafiosa. Racconta Galati: “Lo sgabello era di ferro! Tutte le costole (…) gli ha spaccato tutto il naso, quel sangue ha sporcato pure noi, io avevo le scarpe piene di sangue (…) schizzava a tre punte, poi è caduto per terra (…) gli abbiamo rotto le bottiglie, sgabelli nei fianchi (…) io le scarpe le ho sporcate perché l’abbiamo picchiato in testa”. E ancora: “Mannaggia l’ostia quante palate a quello! Picchiavamo tutti e tre lì terra (…) Gliele abbiamo rotte, braccia (…) la prima botta che mi ricordo, che gli ho dato, alzò la mano per pararsi così (…) aveva un orologio al braccio di 30.000 euro e gli volò per aria”.

Succede in Lombardia. A Giussano, ad esempio, quando Fortunato Galati, sorvegliato speciale, non si ferma a un posto di blocco della polizia Municipale. Succede, come è normale, che il vigile Luigi Galanti segnali la cosa, che il fatto finisca sul tavolo del tribunale di Sorveglianza di Milano e che Galati, per questo, torni in carcere. Ma succede anche che ignoti diano fuoco all’auto del vigile con una molotov. Le intercettazioni chiudano il cerchio. Galati in carcere a colloquio con un amico. Dice il secondo: “L’altro giorno l’ha incontrato nel parcheggio. Dice che lo guardava al vigile e faceva finta di mettere la mano qua dentro”. Annotano i carabinieri: “Contestualmente con la mano destra mima di prendere qualcosa dall’interno della giacca all’altezza del petto, lato sinistro”. E che succede se Fortunato Galati, chiede e non ottiene il trasferimento dal carcere di Monza a un altro Calabria? Il pizzino al colloquio dice tutto. “Pitaniello Maria Casa Circondariale Monza”. E’ la direttrice del carcere. Per lei la ‘ndrangheta lombarda riserva una busta con tre proiettili 9X21. Benvenuti in Lombardia: 14 arresti. Oggi vince lo Stato. Perde la ‘ndrangheta.

Lombardia: chiedendo voti a casa del boss

ndrangheta-arresti-6751C’è chi chiede un aiuto per i familiari in carcere. Chi è in cerca di voti per farsi eleggere. E chi ha bisogno di una mano per mettere un freno a quelli che non conoscono più “le regole dei calabresi”. Salvatore Muscatello, invece, quelle regole le conosce bene. Da sempre. E per questo, l’ormai ottantenne capo locale di Mariano Comense (Como) non si sottrae mai alle richieste che gli vengono avanzate da parenti di boss dietro le sbarre, imprenditori in difficoltà e politici amici. Favori che servono a rimarcare il suo pieno potere sul territorio e a rafforzare il suo prestigio criminale. Perché Salvatore Muscatello non è solo un pezzo da novanta della ‘ndrangheta lombarda. Ma uno dei suoi “grandi vecchi”, come lo definiscono i giudici. Nonostante la sua famiglia sia stata colpita a luglio da un’importante indagine, lui rimane l’anello di congiunzione tra le ‘ndrine calabresi a quelle del nord. Un ruolo che l’età e le inchieste non hanno indebolito. Come emerge dall’operazione “Quadrifoglio”, condotta dai carabinieri del Ros di Milano e coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini contro la cosca Galati, che poche ore fa ha portato in carcere 14 persone. L’ultima istantanea scattata alla ‘ndrangheta nella Lombardia che corre verso Expo.

Un fermo immagine. Dove si distinguono nettamente i tratti di una criminalità che punta a nuovi affari, senza per questo rinunciare alle sue vecchie tradizioni. Come testimonia quel continuo via vai nel fortino  a due piani di via Al Pollirolo 5, dove Muscatello abita con la moglie e i figli. E dove da novembre 2012 è costretto agli arresti domiciliari, arrivati dopo la condanna a 17 anni nata dall’inchiesta “Infinito”. A fargli visita sono i rappresentanti delle famiglie di ‘ndrangheta più blasonate. Come Nadia Scognamiglio, moglie di Fortunato Valle, dei Valle Lampada. La cosca originaria di Reggio Calabria ma radicata a Vigevano, legata ai potenti De Stefano. La donna va a trovare Muscatello il 6 settembre 2013. Gli racconta del colloquio avuto in carcere con il cognato Antonio Domenico Spagnuolo. E’ preoccupata. Teme la confisca dei beni. E ha paura che suo marito venga trasferito dal carcere milanese di Opera a quello di Viterbo che comporterebbe più spese e più scomodità. La Scognamiglio torna a ottobre. E’ sempre più tesa. Perché adesso, a gravare, c’è anche una cartella esattoriale di Equitalia da 8mila euro. A fine chiacchierata, allora, Muscatello le dà dei soldi. La donna cerca di rifiutare: “Ma non voglio niente! Io voglio che state bene”. Inutile. Il boss ha deciso e taglia corto: “Ecco… ma lo voglio io”. Quando la Scognamiglio esce di casa, il patriarca spiega al nipote Stjven il motivo di quel generoso regalo: “E’ una persona che se la chiamo viene subito, ed io la ringrazio! Oh, il marito mi lavava pure i piedi”.

Un’altra ambasciatrice di tutto rispetto che arriva in casa di Muscatello è Patrizia Morabito nipote di Giuseppe Morabito, detto u tiradrittu, re di Africo, latitante per 12 anni e catturato nel 2004. Le microspie e le telecamere dei carabinieri catturano la donna mentre varca la soglia di via Al Pollirolo per due volte. L’ultima il 26 ottobre 2013. Anche lei è preoccupata per la situazione dei parenti detenuti. E anche per lei la famiglia Muscatello si dà un gran daffare per alleviare le tante spese. Con piccoli gesti. Ad esempio facendole riparare gratuitamente l’auto da un uomo a disposizione della cosca. Che viene redarguito perché inizialmente ha fatto pagare il lavoro alla Morabito.

Perché quello dell’aiuto ai parenti dei carcerati è un caposaldo inviolabile. I Muscatello lo offrono anche alle famiglie non direttamente legate alla loro locale. E lo pretendono quando sono loro ad averne bisogno. I conti vanno regolati. I debitori hanno l’obbligo di pagare. Sempre. Anche se i boss sono momentaneamente in cella. Lo spiega bene al padre Salvatore, Domenico: “Poi è successo che ci hanno arrestati … hai capito? Uno ha impegni per fatti suoi, quell’altro si guarda i fatti suoi ed hanno … ognuno ha paura … dice ‘devo vedere altre situazioni’ e si lascia andare, si lascia andare, si lascia andare e quelli prendono gamba, quando prendono gamba dicono ‘tanto questi qua ora non fanno più niente’”. Ne sanno qualcosa due fratelli titolari di una ditta di giardinaggio. Colpevoli, secondo i mammasantissima, di non aver aiutato la famiglia durante la carcerazione di Domenico Muscatello, e in debito di 700mila euro. Un debito che secondo i due è stato causato da un loro parente. Che viene convocato in casa dai Muscatello e pestato, davanti a donna Rosina, moglie di Salvatore, che scoppia in lacrime.

Ma ci sono altri imprenditori che fanno visita al capo locale di Mariano Comense per chiedere di vendicare i torti subiti. Come Francesco Defina (non indagato), attivo nella vendita di autoveicoli e ricambi, che si presenta al boss Salvatore nel luglio 2013. Spiega di aver ricevuto delle intimidazioni a scopo estorsivo. Colpi di pistola contro uno dei suoi negozi. Precisa che non andrà mai dai carabinieri a denunciare. Si lamenta dei cambiamenti generazionali all’interno della ‘ndrangheta che lasciano spazio ai “pisciaturi”, gli inesperti, che non conoscono le “regole dei calabresi”. Salvatore Muscatello individua e manda i suoi emissari a parlare con chi aveva infastidito l’imprenditore. Il messaggio è chiaro. E viene recepito con tanto di scuse.

In casa del boss vengono a portare i propri onori anche i politici. Emilio Pizzinga, che non risulta indagato nell’operazione di oggi, è uno di questi. Suo figlio Francesco è in carcere dal 2006 per l’inchiesta sull’Ortomercato, che portò alla luce i traffici di droga imbastiti con la ‘ndrangheta di Africo. Il politico locale, membro della Commissione Urbanistica di Mariano Comense, incontra Muscatello nel gennaio 2014. Alla guida del Comune è appena arrivato un commissario prefettizio, dopo che 11 consiglieri hanno tolto la fiducia. Le elezioni di maggio sono dietro l’angolo. Pizzinga è a caccia di voti. Bussa alla porta del boss: “Vedete se mi trovate preferenza! Se no, non si fa più niente dopo!”. Sottolinea: “A me hanno dato in mano il partito”. “Quale partito?”, domanda il capo locale. Il politico risponde: “Forza Italia!”.

Eccola la corte del boss Salvatore Muscatello. Ecco i legami dell’uomo che per una vita è stato al vertice della ‘ndrangheta in Lombardia. Come emerge dall’operazione “La notte dei fiori di San Vito” del ’97 e  l’inchiesta “Infinito” del 2010. O come dimostra la sua presenza al matrimonio del 2009 tra Elisa Pelle, figlia di Giuseppe, detto “Gambazza”, e Giuseppe Barbaro, figlio del defunto Pasquale. Fu dato proprio a Muscatello il compito di distribuire gli inviti tra gli affiliati della locale La Lombardia. Perché in quel giorno non si celebravano soltanto le nozze dei rampolli di due tra le più importanti famiglie di mammasantissima. Ma si conferivano anche le nuove cariche del Crimine, l’organo di governo della ‘ndrangheta. Oggi nuovamente indebolita. Ma non ancora sconfitta.

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In Lombardia mafia con il certificato antimafia

C’è anche un appalto della Tangenziale esterna est Milano (Teem), grande opera connessa a Expo2015, nell’inchiesta sulla ‘ndrangheta in Lombardia che oggi ha portato all’arresto di 13 persone, compreso un ex consigliere comunale del Pd di Rho, la città alle porte di Milano sul cui territorio sorgono i cantieri dell’Esposizione universale. Una società riferibile a Giuseppe Galati, uno dei presunti boss ammanettati dal Ros dei carabinieri, avrebbe acquisito lavori nell’appalto. Si tratta della Skavedil, un’impresa che “ha avuto la certificazione antimafia” per lavorare in due subappalti del valore di “450mila euro”, ha spiegato il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, nel corso della conferenza stampa alla quale hanno partecipato i vertici dei carabinieri di Milano e il capo del Ros, il generale Mario Parente.

Boccassini ha spiegato che l’impresa è riuscita ad ottenere la certificazione “ordinando che le sue quote nella società passassero ai suoi cognati”. L’impresa ha così ottenuto da una azienda di Modena, appaltante per l’opera, due subappalti. Secondo Boccassini, è difficile pensare che “poteva non sapere a chi si davano quei subappalti”. Il procuratore capo, Edmondo Bruti Liberati, ha chiarito “ci sarà una segnalazione alla Prefettura che ha già svolto un lavoro imponente per l’Expo”.

Giuseppe Galati, già detenuto per traffico di stupefacenti, nipote dell’indagato Antonio Galati, avrebbe “continuato a gestire dal carcere, attraverso alcuni familiari, due società operanti nel settore edile, titolari tra l’altro di alcuni subappalti in alcuni cantieri della Teem”, si legge in una nota degli inquirenti. Nel procedimento, Giuseppe Galati è indagato per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa, importazione e detenzione abusiva di armi da fuoco.

Dopo l’operazione Infinito del 2010, la più grande di sempre ‘ndrangheta in Lombardia, “nulla cambia, è una riflessione da fare”, ha commentato Boccassini. Riguardo all’operazione di questa mattina, coordinata dai pm Paolo Storari e Francesca Cellesi, si tratta di “un segmento di notevole importanza perché conferma quanto sancito dalla Cassazione con Infinito” e cioè dell’”esistenza in Lombardia delle locali (le articolazion i territoriali della mafia calabrese, ndr)” le quali hanno “autonomia nella nostra regione con un controllo capillare e pesante del territorio”. E quando l’organizzazione è in pericolo, “reagisce con una violenza inaudita”, ha spiegato il magistrato antimafia. Per uscire dall’associazione mafiosa ci sono due modi, “o con la morte o diventi collaboratore e ti dai allo Stato”.

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‘Ndrangheta in Lombardia: ecco i (nuovi) nomi

Sono due i provvedimenti restrittivi eseguiti in Calabria nell’ambito dell’inchiesta che ha portato a 13 arresti su richiesta della Procura distrettuale antimafia di Milano nei confronti di altrettanti indagati per associazione di tipo mafioso. Antonio Denami, 34 anni, è stato arrestato a San Costantino, nel vibonese. L’uomo è ritenuto essere in contatto con la famiglia Galati, originaria del vibonese ma da tempo stanziata a Como, considerata espressione in Lombardia della cosca dei Mancuso, operante nella provincia di Vibo. E’ accusato di associazione per delinquere semplice, porto abusivo di armi, minacce e danneggiamenti.
Il secondo provvedimento è stato notificato ad un altro vibonese, attualmente detenuto nel carcere di Reggio Calabria per esigenze processuali e già arrestato nell’ambito dell’operazione Infinito coordinata dalla Dda di Milano.

Nell’indagine “Quadrifoglio” sono coinvolti anche altri calabresi, residenti in Lombardia.

Al centro dell’indagine, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ci sarebbero due sodalizi della ‘ndrangheta radicati nel comasco “con diffuse infiltrazioni nel tessuto economico lombardo. Accertati, tra l’altro, gli interessi delle cosche in speculazioni immobiliari e in subappalti di grandi opere connesse ad Expo 2015”. Un gruppo facente capo alla famiglia Galati, radicato nel comune di Cabiate (Como), ritenuto dagli inquirenti espressione in Lombardia della cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia); e la locale di ‘ndrangheta di Mariano Comense (Como), guidata da Salvatore Muscatello, nonostante egli si trovasse agli arresti domiciliari, per la condanna recentemente riportata nel processo “Infinito”.

Tra i tredici indagati arrestati oggi nell’ambito dell’inchiesta “Quadrifoglio” figura un ex consigliere comunale di Rho. Si tratta di Luigi Calogero Addisi, 55 anni, originario di San Calogero (VV), residente a Rho (MI), eletto con il PD alle amministrative nel 2011 e anche parente della famiglia Mancuso che si era dimesso nei mesi scorsi, dopo che il suo nome era già emerso nell’inchiesta della primavera scorsa sulla presenza della ‘ndrangheta a Lecco e nella zona del lago di Como.
Gli altri arrestati sono: Fortunato Bartone, 41 anni, originario di Mileto (VV), residente a Giussano (MB); Antonio Denami, 25 anni, originario di Vibo Valentia, già agli arresti domiciliari per estorsione, Antonio Galati, 62 anni, originario di Mileto (VV), residente a Cabiate (CO), ritenuto alla guida dell’associazione mafiosa e proiezione in Lombardia della cosca Mancuso di Limbadi; Fortunato Galati, 36 anni, originario di Vibo Valentia, già detenuto per omicidio; Giuseppe Galati, 43 anni, originario di Castellana Sicula (PA), già detenuto per traffico di stupefacenti; Giuseppe Galati, 35enne figlio del presunto boss Antonio Galati, originario di Vibo Valentia, residente a Cabiate (CO), imprenditore nel settore dei compro-oro; Franco Monzini, 65 anni, originario di San Benedetto Po (MN), residente a Milano, imprenditore edile, protagonista di un investimento immobiliare in società occulta con Antonio Galati, insieme agli indagati Addisi e Vellone; Salvatore Muscatello, 80 anni, originario di Amato (Cz), già agli arresti domiciliari perché condannato per associazione mafiosa a seguito del processo “Infinito” quale capo della locale di ‘ndrangheta di Mariano Comense (CO); Alberto Pititto, 39 anni, originario di Vibo Valentia, commerciante di automobili a Mariano Comense e Cantù, ritenuto un referente della famiglia Muscatello; Matteo Rombolà, 27 anni, originario di Seregno (MB), titolare di un panificio a Mariano Comense, cognato del detenuto Fortunato Galati; Saverio Sorrentino, 53 anni, originario di Francica (VV), e ritenuto “braccio destro” di Antonio Galati; Luigi Vellone, 54 anni, originario di Serra San Bruno (VV), residente a Gessate (MI), imprenditore in diversi settori, protagonista di un investimento immobiliare in società occulta con Antonio Galati, insieme agli indagati Addisi e Monzini.

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Buongiorno (solita) Lombardia

Tredici arresti in Lombardia e Calabria con l’accusa di associazione mafiosa in una inchiesta della Procura distrettuale antimafia di Milano diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini.Gli arresti sono stati eseguiti nelle province di Milano, Como, Monza-Brianza, Vibo Valentia e Reggio Calabria.

I 13 arrestati sono accusati di associazione di tipo mafioso, detenzione e porto abusivo di armi, intestazione fittizia di beni, reimpiego di denaro di provenienza illecita, abuso d’ufficio, favoreggiamento, minacce e danneggiamento mediante incendio.

Al centro delle indagini del Ros dei carabinieri due gruppi della ‘ndrangheta radicati nel Comasco, con infiltrazioni nel tessuto economico lombardo. Accertati, secondo le indagini, gli interessi delle cosche in speculazioni immobiliari e in subappalti di grandi opere connesse ad Expo 2015.

Gli arrestati nell’operazione portata a termine dai carabinieri, secondo quanto si è saputo, avevano contatti con esponenti del mondo politico, istituzionale, imprenditoriale e bancario da cui ottenevano vantaggi, notizie riservate e finanziamenti.

In particolare avevano rapporti con un agente di polizia penitenziaria, un funzionario dell’Agenzia delle Entrate, un imprenditore immobiliare, attivo anche nel mondo bancario e con dei consiglieri comunali di comuni nel Milanese.

(Ansa)