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Soffre troppo

Giulio Lampada, a sinistra
Giulio Lampada, a sinistra

Lo avevano definito il moderno rappresentante dell’alleanza tra mafia e zona grigia. Un boss in giacca, cravatta e smartphone capace di gestire a Milano i rapporti con politici, massoni e giudici (compresi i magistrati Vincenzo Giglio e Giancarlo Giusti) per conto del potente clan Condello della ‘ndrangheta.
Giulio Lampada, 43 anni, è stato arrestato tre anni fa a Milano e condannato in Appello a 14 anni e 5 mesi per associazione mafiosa. Pena che ora il boss sconterà ai domiciliari in una comunità terapeutica in provincia di Savona. Così ha deciso il Tribunale del riesame di Milano, al termine di una lunghissima battaglia legale sostenuta dai difensori Giuseppe Nardo e Giovanni Aricò. Il motivo? Il boss è terrorizzato dalla galera. Per i giudici, Lampada ha la fobia del carcere e degli ospedali. E visto che in questi anni di detenzione ha manifestato «istinti autolesivi, depressione, stati d’ansia e rifiuto di assumere psicofarmaci», la sola struttura adatta a curarlo è una comunità terapeutica. Struttura dove, come riportato nelle dieci pagine della sentenza, «non ci sono guardie e sbarre» né «corsie, camici bianchi, giro dei medici, odore di medicinali e disinfettanti». Un luogo ideale per «far venir meno gli aspetti persecutori del carcere».

Una decisione motivata da una serie di perizie (quelle della difesa affidate alla coppia Bruno-Meluzzi) che hanno certificato «un disturbo depressivo, di conversione somatica, di evitamento a contenuto multiplo» aggravato dal fatto di trovarsi chiuso in una cella. Quando lo scorso luglio Lampada era stato ricoverato all’ospedale di Voghera, sempre su decisione del Tribunale di Milano, si era presentato allo psichiatra su una sedia a rotelle «con espressione quasi allucinata». «Il pensare all’odore dei medicinali, l’essere in mezzo ai malati mi angoscia», aveva raccontato. Poi dopo un tentativo di sciopero della fame durato solo 5 giorni, aveva smesso di lavarsi: «Il suo stato lo spingeva a rimuginare ossessivamente sulla sua vicenda giudiziaria. Il carcere stimolava l’emergere di fantasmi persecutori».

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Dissanguato sotto la terra di Lombardia

L’appuntamento è sotto casa. Da qui il viaggio in auto verso il bosco dove lo attendono altri quattro uomini. Pochi secondi per capire e tutto crolla. Salta fuori una pistola. Poi il coltello. Partono i fendenti. Almeno trenta. Non sono mortali, ma portati per far soffrire. Il sangue inizia a uscire. La vista si appanna. La morte è a un passo. Steso a terra, il corpo viene ricoperto con le foglie. Il respiro rallenta. La “batteria” dei killer riparte. Si torna a casa. L’appuntamento è fissato per il giorno dopo in un cantiere dove sta sorgendo una villetta. C’è chi porta il vino, chi le braciole. Una bella grigliata è quello che ci vuole. E mentre qualcuno festeggia, altri scavano una buca profonda oltre due metri. Poi il sole cala. Si sale in auto e si torna a recuperare il corpo. Appena mezz’ora e la macchina rientra nel cantiere. La buca è pronta. Sul fondo è già stato gettato uno strato di calce. La vittima viene spogliata, i vestiti bruciati, il corpo gettato nella fossa, ricoperto di calce e poi di terra. E’ il 9 giugno scorso. Ecco come uccide la ‘ndrangheta. Non in Calabria, ma nella Lombardia che corre dritta verso l’Expo, nella zona della bassa comasca dove le cosche, appena sfiorate dal maxi-blitz Infinito del 2010, agiscono alla luce del sole, mostrando armi e muscoli, intimidendo e uccidendo.

Come successo a Ernesto Albanese, 33enne di Polistena, pregiudicato e trafficante di droga per conto dei clan locali. Albanese scompare dopo le 23 dell’8 giugno scorso. Fino a quell’ora è stato nella sua casa di Bulgorello di Cadorago. Seduto al computer, chattando su Facebook e inviando minacce ai “compari”. Albanese dice di voler fare tutti i nomi “da qui fino a Reggio Calabria”, sostiene che i mafiosi che vivono tra Cadorago, Fino Mornasco e Appiano Gentile sono semplici “quaquaraquà”. Qualcuno di questi risponde: “Uomo senza labbra ti aspetto a braccia aperte”. Per questo, ragionano gli investigatori della squadra Mobile di Como, Albanese viene sequestrato, scannato, lasciato morire dissanguato nei boschi dietro al comune di Guanzate e il corpo seppellito il giorno dopo nel cantiere di via Patrioti sempre a Guanzate (foto di Mattia Vacca).

Le scene dell’orrore mafioso sono state ricostruite dai magistrati della procura di Como. Sul registro degli indagati ci sono sei persone che attualmente si trovano in carcere per altri motivi. Alcune di loro sono state arrestate nel luglio scorso dal Ros di Milano che ha eseguito diverse ordinanze a carico di cinque gruppi di narcos legati al crimine organizzato. Negli ordini di cattura richiesti dal pm Marcello Musso c’era anche Ernesto Albanese. I militari, però, non lo hanno trovato. In quel momento l’uomo era già sotto terra.

Bisogna aspettare il 2 settembre scorso perché “una soffiata” conduca la polizia nel cantiere di Guanzate. Le operazioni per estrarre il corpo di Albanese durano due giorni. Oltre alla scientifica ci sono anche esperti di scavi archelogici. Si studiano gli strati del terreno e, grazie a particolari tecnologie, viene ricostruito il calco delle benna che ha fatto la buca. E’ la svolta del giallo. Sì perché quel calco corrisponde a una ruspa trovata nella villetta del pregiudicato calabrese Luciano Nocera. Quello, secondo la polizia, è il mezzo che ha scavato la fossa per Albanese.

La scoperta alza il velo sul contesto criminale. Nocera viene arrestato dal Ros di Milano nel luglio scorso. E’ accusato di coordinare una “batteria” di trafficanti legati al clan Muscatello di Mariano Comense e alla famiglia Iconis di Fino Mornasco, coinvolta, negli anni Novanta, nell’operazione La notte dei fiori di San Vito e ritenuta vicina alla potente famiglia Mazzaferro. Secondo l’indagine milanese Ernesto Albanese era un corriere. Dalle carte di quell’operazione emergono i suoi contatti con Nocera. Rapporti che col tempo s’incrinano. “Quello – dirà Nocera di Albanese – è un pezzo di merda e questa mattina l’ho preso a calci nel culo”. Di più: un’altra indagine della Dda di Milano, su cui pende richiesta di archiviazione, descrive Nocera come personaggio molto vicino alla ‘ndrangheta di Fino Mornasco, capace di intavolare rapporti con la politica locale, ma anche violento e senza scrupoli. “Il primo che piglierò a fucilate – dice al telefono – sarà il comandante dei carabinieri”.Insomma l’omicidio di Albanese è solo la punta dell’ice-berg di un contesto mafioso per nulla intaccato dalle inchieste.

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Buongiorno maestro: insegna il sindaco del comune sciolto per mafia

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Aldredo Celeste incontra una straordinaria personalità dell’intellighenzia politica lombarda.

Di Alfredo Celeste mi è capitato spesso di scriverne. Ne ha scritto benissimo (e continua a farlo) la brava Esther Castano che insieme ad Ersilio Mattioni (autore dell’articolo per L’Espresso che riporto qui sotto) l’ha marcato ad uomo ricevendone spesso insulti e reazioni scomposte (oltre a sconvenienti avvisi di vigili esageratamente ligi). Ora il buon Celeste continua tranquillamente ad insegnare presso il liceo europeo di Arconate e ovviamente qualcuno storce il naso. Più di qualcuno. Curia esclusa. E allora si ripropone il vecchio dovere dell’opportunità che in questo Paese (profondo nord incluso) sembra così difficile da esercitare. Leggere per credere:

Lo scontro è impari, una piccola scuola di provincia contro la Curia di Milano. Il motivo è assai serio: la nomina a insegnante di religione di Alfredo Celeste, l’ex sindaco del primo comune in Lombardia sciolto per mafia. Che oggi è imputato per corruzione in un processo sui rapporti tra la politica e la ‘ndrangheta ed è sottoposto alla richiesta di “sorveglianza speciale per tre anni con obbligo di soggiorno, in quanto soggetto socialmente pericoloso”, misura voluta dalla Direzione distrettuale antimafia. Tutto questo perché Celeste ha per anni frequentato persone accusate di appartenenza o vicinanza con i clan calabresi.

Una brutta tegola sulla testa di Ermanno Puricelli, preside del liceo europeo di Arconate, comune di 6 mila abitanti in provincia di Milano. Che reagisce: “La scuola è stata messa in una situazione inaccettabile. Qui c’è un problema di grande rilievo: non si tratta di una lite di condominio, ma del primo comune lombardo sciolto per infiltrazioni mafiose. La Curia torni sui suoi passi. C’è un confine culturale che merita di essere presidiato: Insegniamo la legalità, ai nostri studenti dobbiamo garantire docenti che siamo al di sopra di ogni sospetto. Nel caso del professor Celeste questa condizione non è data”.

Il primo round, però, è stato vinto dell’imputato. La Curia ha fatto orecchie da mercante e il professore è già tornato in classe, fra l’imbarazzo di studenti e genitori, “perché i fatti contestati – spiega il preside Puricelli – non sono accaduti su Marte, bensì nel nostro territorio, a Sedriano, a pochi passi da qui. Mandare Celeste in questa scuola è stato un errore evidente”. Alla diocesi di Milano, invece, sembrano cadere dalle nuvole e l’ufficio comunicazioni sociali rende un’unica stringata dichiarazione: “Stiamo raccogliendo informazioni a proposito di quanto ci segnale. Vi contatteremo presto. Cordiali saluti”. Eppure la presidenza del liceo aveva già messo tutto nero su bianco, inviando alla Curia una lettera dai toni netti e ipotizzando per il docente l’incompatibilità ambientale: “Abbiamo espresso il nostro disagio, ricordando la vicenda e la storia di questo insegnante. Dalle informazioni finora disponibili e dalle prove raccolte è chiaro che stiamo mandando in classe una persona non totalmente credibile. Abbiamo interpellato la Curia già due volte. Attendiamo risposte”.

E’ difficile pensare che la diocesi sia all’oscuro di tutto. Il 10 ottobre 2012, quando Celeste fu arresto nell’ambito dell’inchiesta sui rapporti politica-mafia, la Curia lo sospese dall’insegnamento. Ma se all’epoca il professore era un semplice indagato, ora è un imputato, gli sono piovuti addosso altri due procedimenti giudiziari e il ‘suo’ comune, il 16 ottobre 2013, è stato sciolto per mafia.

Come se non bastasse, settimana scorsa, il capo del settore finanziario di Sedriano, Albertina Grassi, ha reso in tribunale a Milano (nell’ambito del procedimento sulla richiesta di sorveglianza speciale) una testimonianza importante sulle pressioni ricevute dall’ex sindaco per favorire un imprenditore locale attivo nel campo dei vivai, la cui azienda navigava in cattive acque avendo contratto ingenti debiti sia con il comune sia con l’erario. Si tratta di Aldo De Lorenzis, imparentato con i Musitano, definiti dai magistrati di Milano “una famiglia mafiosa dominante nei comuni dell’hinterland”.

Celeste, tra il 2009 e il 2012, ha intrattenuto rapporti amichevoli con altre due persone sospettate di vicinanza alla ‘ndrangheta. Uno è Eugenio Costantino (la cui giovane figlia, Teresa, fu consigliere Pdl a Sedriano), in carcere con l’accusa di essere un ‘boss’ della mafia calabrese: avrebbe procurato 4 mila voti all’ex assessore regionale Domenico Zambetti al prezzo di 200 mila euro. Per Costantino – che fu ‘reclutato’ nel servizio d’ordine a tutela di Nicole Minetti, invitata dall’ex sindaco come “madrina della creatività femminile” – Celeste organizzò pure una festa di compleanno, affittando un salone dell’oratorio. L’altro è Marco Scalambra, chirurgo della Humanitas e marito dell’ex capogruppo Pdl a Sedriano, accusato di essere stato il collettore di voti per le cosche alle elezioni comunali di Rho nel 2011, arrestato e adesso imputato a piede libero. Famoso un suo sms, inviato a un candidato: “Fammi sapere entro domani se ti interessano i voti delle lobby calabresi”.

Celeste, nel frattempo, ostenta sicurezza: ha liquidato con un’alzata di spalle i timori del preside del liceo, ha fatto ricorso al Tar del Lazio contro lo scioglimento per mafia di Sedriano e si gode i tempi lunghi dei tribunali italiani. A causa di un errore tecnico in un capo d’imputazione il suo processo più delicato, quello per corruzione, non è ancora cominciato a due anni dall’arresto.

La sentenza di primo grado appare lontana, mentre la prescrizione (ridotta a sette anni e mezzo da una legge del governo Berlusconi nel 2005) è un’ipotesi plausibile. Non contento, Celeste annuncia la sua ricandidatura a sindaco. Dopo la spaccatura del Pdl ha scelto di stare con Silvio. Dice di provare “vergogna per la giustizia” e di confidare “solo nel buon Dio”.

Adesso aspetta il via libera di Forza Italia, anche se Mariastella Gelmini, coordinatrice dei berlusconiani in terra lombarda, ignora chi sia: “L’ex sindaco di Sedriano? E chi è?” Poi, fatta mente locale, chiosa: “Non è un problema nostro, Celeste è esponente del Nuovo Centrodestra, vicino al consigliere regionale Alessandro Colucci”. Peccato che il professore di religione prestato alla politica abbia aperto, qualche mese fa, un club ‘Forza Silvio’. I conti non tornano.

Expo e il canale di scolo

Il sogno delle vie d’acqua di Milano per attraversare in barca la città come ai tempi di Leonardo è quasi naufragato. A mettere la parola fine gli arresti domicilari di Antonio Acerbo, che nei giorni scorsi si era dimesso da sub-commissario e da responsabile del Padiglione Italia dell’Expo. Un provvedimento firmato dal giudice Fabio Antezza che ipotizza i reati di corruzione e turbativa d’asta nell’appalto per le Vie d’Acqua.

E sul contestato progetto è intervenuto anche Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità nazionale anti corruzione. Il commissariamento dell’appalto appare «assai probabile», dice Cantone, che ha acquisito l’ordinanza di custodia cautelare firmata dai pm milanesi. La certezza sull’appalto «si avrà solo dopo attenta lettura dell’ordinanza», spiega l’ex magistrato, che giovedì prossimo sarà nella sede Expo per la consueta riunione con i vertici della società.

L’APPALTO IN CAMBIO DI CONTRATTI

Da quanto emerge dal provvedimento, i pm Claudio Gittardi e Antonio D’Alessio ipotizzano che Acerbo abbia favorito l’Ati, associazione temporanea di imprese capeggiata dalla società vicentina Maltauro, nella gara relativa al progetto per collegare il centro di Milano al sito espositivo di Rho. In cambio, secondo la Procura avrebbe ottenuto due contratti per il figlio Livio Acerbo, socio di alcune società di consulenza nel campo informatico.

Sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti un contratto da 36 mila euro, pagato nell’aprile 2012 dall’imprenditore Enrico Maltauro, legato al piano di riqualificazione, voluto dalla giunta Moratti, dell’area ex Scuderie De Montel di proprietà del Comune in zona San Siro. Un secondo contratto, solo «promesso», non è mai andato in porto.

Si tratta dell’ennesimo capitolo nella saga “appalti&corruzione”, emersa a margine dei lavori per l’Esposizione universale, che coinvolge l’imprenditore Enrico Maltauro. La sua impresa si è aggiudicata la costruzione dei padiglioni di servizio e, soprattutto, il canale navigabile per 42 milioni di euro. Tutte opere finite al centro delle ricostruzioni della Procura di Milano.

IL TRAVAGLIATO PROGETTO

Le vie d’acqua, presentata per aggiudicarsi la kermesse internazionale è, fin da subito, una storia travagliata.
Un’idea ambiziosa lanciata in pompa magna come cardine del dossier che ha sbaragliato la concorrenza della sfidante turca, la città di Smirne.

Era novembre 2010 e la metropoli lombarda formato Amsterdam sembrava un sogno ad occhi aperti.
Per l’esposizione è necessario un canale navigabile neo leonardesco che porta acqua dai padiglioni di Rho al vecchio porto della Darsena, nel cuore di Milano.

Abbandonato ben presto il sogno di arrivare in barca fino in centro, ecco che il progetto si trasforma in poco più di un torrente: prendere l’acqua direttamente dal canale Villoresi, nella pianura a Nord della metropoli, passare dai nuovi padiglioni e arrivare fino al Naviglio Grande.

Lo scopo? Alimentare la coreografia dell’esposizione, a partire dal lago costruito su misura, e realizzare ex novo un canale di 20 chilometri per «ricucire il legame storico di Milano con l’acqua», spiegano gli organizzatori, e allo stesso tempo portare acqua pulita per alimentare le coltivazioni della campagna.

La portata è minima – 2 metri cubi al secondo – e la larghezza massima arriva a nove metri tra sponde in erba e cemento con tanto di percorso pedonale.

Passando dai quartieri della zona Nord Ovest il canale stravolge con i tagli di centinaia di alberi le aree verdi del Parco delle Cave, Trenno, Boscoincittà. Per questo gli operai della Maltauro quando arrivano nei parchi, lo scorso dicembre, vengono bloccati e il progetto si ferma per trovare una soluzione a ridotto impatto ambientale.

Dopo un braccio di ferro con il Comune e con i tempi ristretti si è passati al piano B: fino a giugno l’acqua che alimenta il lago e i fossati artificiali intorno ai padiglioni finirà direttamente nel fiume Olona. Poi ci sarà una deviazione interrata. Ora con il progetto su un binario morto le vie d’acqua si sono trasformate in un misero canale di scolo.

Anche in Lombardia i candidati mafiosi si fanno in casa

Spesso ci è capitato di discuterne nei nostri incontri: la mafia che, delusa dalla politica, passa alla produzione “in proprio” dei dirigenti e dei candidati è il segno di una crescita sostanziale nella radicazione sul territorio. E infatti ne scrive Cesare Giuzzi:

Il milanese ha sostituito il calabrese. Dialetto lombardo, boss e cumenda. Affiliati ai clan nati e cresciuti al Nord. Senza neppure una goccia di sangue d’Aspromonte. La ‘ndrangheta cambia, e anche a Milano – suo feudo imprenditoriale ed economico – le regole si adattano al limite del mutamento genetico. Per esempio aprendo le porte a nuovi «battezzati» che «non hanno origine calabrese» e vengono «affiliati all’interno dei vari locali della ‘ndrangheta lombarda con cariche e doti secondo gerarchie prestabilite, con cerimonie e rituali tipici». Ma non solo. Sotto la lente della squadra Mobile di Milano e della Dda guidata da Ilda Boccassini, sono finiti anche due medici. Chirurghi noti e stimati nell’ambiente sanitario lombardo oggi sospettati di «essersi messi a disposizione di affiliati e dei loro parenti» per ottenere «scarcerazioni e cure privilegiate».

Gli investigatori li hanno seguiti e fotografati durante incontri e cene con condannati per mafia o familiari di arrestati nelle ultime operazioni antimafia al Nord. Si tratta di due medici di origine calabrese che lavorano al Niguarda di Milano e al Policlinico di Monza. Con loro anche un infermiere di origini calabresi. Una conferma ulteriore dell’interesse mafioso per la sanità lombarda. Come già emerso a proposito dell’ex dirigente sanitario dell’Asl di Pavia, Carlo Chiriaco, condannato in secondo grado a 12 anni. Proprio da quelle indagini è nato il fascicolo che ha permesso, alcuni mesi fa, di scoprire la presunta «cupola» che voleva spartirsi gli affari di Expo.

La capacità di adattamento delle famiglie criminali calabresi e la loro struttura «flessibile» hanno permesso di riempire i vuoti dopo i 300 arresti dell’operazione Infinito-Crimine (luglio 2010) e quelli delle inchieste successive. Tanto che, secondo la polizia, i clan a Milano si sono «immediatamente riorganizzati e hanno di fatto ricostruito e preservato la scala gerarchica che consente alla ‘ndrangheta di rimanere solidamente legata al territorio».

La fotografia scattata dalla relazione inviata alla Direzione nazionale antimafia dalla squadra Mobile di Milano è l’immagine di una mutazione in atto. Dopo aver investito sui politici – spesso con aspettative superiori rispetto ai risultati ottenuti – i clan oggi «si sono posti l’obiettivo di entrare direttamente nei gangli della vita imprenditoriale e politico-istituzionale». Come? Candidando affiliati di assoluta fiducia nelle amministrazioni locali: «Gli appartenenti alla ‘ndrangheta, dimorando al Nord ormai da più generazioni, hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza del territorio consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando specifici contatti con rappresentanti della politica e delle istituzioni locali che occupano ruoli chiave nelle amministrazioni». Il tutto, come annotano gli investigatori della squadra Mobile diretti da Alessandro Giuliano, grazie alle nuove generazioni che hanno permesso alla ‘ndrangheta al Nord di «diventare col tempo un’associazione dotata di un certo grado di indipendenza rispetto a quella autoctona calabrese con la quale continua comunque a mantenere rapporti molto stretti».

Il nuovo «governo» delle ‘ndrine «si realizza con un tasso di violenza marginale, privilegiando invece forme di accordo e collaborazione con settori della politica, dell’imprenditorie e della pubblica amministrazione». Ecco la zona grigia. Così, come era emerso nel recente passato, dal traffico di cocaina l’attenzione dei boss milanesi s’è spostata sull’edilizia, sugli appalti pubblici (Expo, ma non solo), usura, frodi immobiliari, giochi, scommesse e l’acquisto di locali in centro. I clan investono all’estero: Romania, Gran Bretagna, Cipro e Svizzera. «L’ingresso di nuovi elementi ha consentito alle più solide consorterie mafiose calabresi di confermare il proprio assetto territoriale e di riaffermare il proprio ruolo di referenti locali rispetto alla casa madre».

Per quanto riguarda i medici indagati, l’inchiesta avrebbe messo in luce rapporti con boss del calibro di Pasquale Barbaro detto ‘U Nigru , originario di Platì (Reggio Calabria) e arrestato nel 2011 nell’inchiesta Minotauro della Dda di Torino, di affiliati (Molluso e Trimboli) della potente cosca Barbaro-Papalia («La sua egemonia a Milano e hinterland è assoluta») e del clan Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo.

Oltre a EXPO, la ‘ndrangheta che diversifica

Ma quale Expo, quando mai, la ‘ndrangheta non ci pensa. Troppo “scrusciu” attorno, troppa attenzione. Ora poi che il governo ci ha piazzato sopra addirittura l’ex magistrato anti-casalesi Raffaele Cantone, i boss girano al largo. Il ragionamento, in fondo, è semplice semplice. “Io non è che miro là, io miro che i grossi vanno là e il resto qua resta scoperto”. Con buona pace degli allarmi lanciati dalla politica. E’ il 14 aprile 2011, quando la frase viene catturata dalle microspie della squadra Mobile di Milano. E così se il capo della procura di Milano Edmondo Bruti Liberati lancia l’idea dell’area omogenea per seguire meglio le inchieste sull’Esposizione universale, la mafia calabrese, con capi e comprimari, tira dritto ragionando giorno dopo giorno, lavorando sul territorio lombardo, sulle sue istituzioni locali, pilotando elezioni comunali, tenendo a busta paga funzionari degli uffici tecnici, consiglieri, assessori. E lo fa oggi, dopo arresti e condanne, dopo i maxi-blitz del 2010, dopo una stagione (dal 2008 al 2012) in cui l’antimafia milanese, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha svelato intrecci mafiosi e complicità politiche.

“Io non è che miro là”, dice Pietro Corapi, imprenditore del mattone calabro-lombardo, originario di Davoli in provincia di Catanzaro. Nel 2012 viene coinvolto nell’indagine Golden Snow. Si tratta di affari locali nel comune di Desio: roba di piccola corruzione per gli appalti della neve. Corapi finisce in carcere assieme a imprenditori dal cognome lombardissimo e ad alcuni funzionari pubblici. L’arresto, però, non ferma la polizia di Milano. Il nome di Corapi così rientra nelle carte dell’operazione Tibet che il 4 marzo 2014 porta in galera 40 persone. In carcere finisce Giuseppe Pensabene, uomo di ‘ndrangheta, che pur con un curriculum criminale di basso livello, si è infilato nel vuoto di potere creato dal blitz del 5 luglio 2010. Pensabene comanda in Brianza, tra Desio e Seveso, mettendo in piedi una banca clandestina per riciclare il denaro dell’usura e il nero degli imprenditori. Nulla di nuovo sotto il sole. Eppure quell’indagine nasce proprio attorno alla figura di Corapi che, indagato e intercettato, non finirà coinvolto negli ordini di cattura firmati dal gip di Milano Simone Luerti.

Lo spunto risale al novembre del 2010 quando il tribunale di Catanzaro ordina il sequestro di beni a Francesco Corapi, padre di Pietro. Sigilli vengono messi a terreni e ville, anche in Lombardia e in particolare nella zona di Bollate, area di influenza della famiglia. Ecco allora quanto scrive la squadra Mobile di Milano: “Pietro Corapi, insieme” a familiari e prestanome “sembra abbia costituito in questo territorio una organizzazione criminale calabrese collegata alla cosca Gallace di Guardavalle (CZ), che pone in essere su questo territorio una serie di attività illecite”. S’indaga, s’intercetta e si scopre che Pietro Corapi, classe ’73, è uomo d’impresa e di conoscenze. Suo cognato, Nicola Grillo, è vicino alla famiglia Mandalari, i boss di Bollate che dopo decenni di affari neri, sono finiti in carcere solo nel 2010. Al contrario di Corapi, Grillo è uomo di cantiere ed è a lui che i tanti padroncini calabresi si rivolgono per poter lavorare.

Ci sono affari di terra e, ipotizza la polizia, di ‘ndrangheta. Ci sono, soprattutto, conoscenze da coltivare nei vari comuni che da Bollate vanno verso Lecco e Como. Ed ecco che le intercettazioni fissano il punto, mentre chiudono il cerchio foto e riprese. Di mezzo c’è sempre Pietro Corapi pizzicato più volte al telefono con Giovanni De Michele (non indagato), ex ingegnere del comune di Solaro in provincia di Milano. Annota la polizia: “Le conversazioni tra i due lasciano presupporre l’esistenza di irregolarità nell’assegnazione dei lavori comunali che vengono assegnati o con bandi di cui Corapi riesce a conoscere le altre offerte in modo tale da presentarne una più bassa, oppure con procedure d’urgenza per scavalcare quelle ordinarie”. Corapi lavora in diversi cantieri pubblici: da Desio a Merate, da Solaro a Nova Milanese potendo contare su contatti all’interno dell’amministrazione.

Non è Expo, naturalmente. Ma è la ‘ndrangheta, ragionano gli investigatori della squadra Mobile, che striscia lenta dentro alle istituzioni locali. E così pochi giorni prima della Pasqua 2011, Corapi è al telefono con il geometra dell’ufficio tecnico del comune di Merate. Dice il funzionario pubblico: “Adesso non ho in giro altra roba, c’è quella gara lì e ti faccio sapere”. Stesso discorso per il comune di Varedo dove Corapi contatto il solito architetto con il quale l’imprenditore si mette d’accordo per un lavoro che ufficialmente costa 20mila euro ma che sarà pagato 56mila.

Rapporti e contatti creano una rete che da Bollate si estende da nord a sud. Si parte dalla famiglia Corapi e si arriva a Santo Maviglia, nato ad Africo ma residente a Monza. Classe ’73, nel 2011 la Dia di Reggio Calabria lo denuncia per associazione mafiosa. I collegamenti con i Corapi, annota la polizia, sono legati ai lavori di movimento terra. Stesso campo di gioco che lega i porta bandiera delle cosche di Guardavalle ai potenti clan di Platì storicamente residenti nei comuni di Corsico e Buccinasco. In particolare i contatti sono con i fratelli Portolesi titolari della Helving srl. Una nota del nucleo provinciale dei Carabinieri comunica che “tale società è totalmente riconducibile a Pietro Paolo Portolesi, la cui coniuge, Maria Calabria, è amministratore unico. La cugina, Elisabetta Calabria, è coniugata con Rosario Musitano, anch’egli riconducibile alle famiglie operanti all’interno delle principali cosche platiote”. Di più: “Secondo un appunto del N.o.r.m di Pavia emerge che Portolesi è stato l’autista e uomo di fiducia di Pasquale Marando (latitante) elemento di prim’ordine e anello di congiunzione della ‘Ndrangheta Calabrese per la gestione degli stupefacenti tra la Colombia e l’talia”.

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Quanti amici di mafiosi in Lombardia, carabinieri e dottori

Le cosche della ‘ndrangheta in Lombardia avevano creato “proficui rapporti” con “uomini dello Stato“: politici, investigatori e manager della sanità. E potevano contare anche sulle informazioni passate da un “appartenente alla Direzione Investigativa Antimafia di Milano, purtroppo ad oggi rimasto non identificato”. E’ questa la tela di potere che le ‘ndrine avevano esteso nel cuore produttivo del Paese. Una fitta maglia descritta nei dettagli nelle 800 pagine di motivazioni con cui i giudici della Corte d’Appello del capoluogo lombardo hanno confermato le condanne nate dalla maxi inchiesta Infinito-Tenacia del 2010. Le pene inflitte a giugno, seppure con qualche lieve riduzione, non hanno subito modifiche. Gli imputati sono circa una quarantina, tra cui il presunto boss Giuseppe“Pino” Neri e l’ex dirigente dell’Asl di Pavia Carlo Chiriaco. Diciotto anni di carcere al primo 12 anni al secondo.

Per raccontare i rapporti su cui potevano contare i presunti mammasantissima, la Corte riporta l’esempio del Comune di Desio. Il collegio della prima sezione, presieduto da Marta Malacarne elenca alcuni di questi “uomini dello Stato” e spiega, ad esempio, che “gli affiliati del locale (ossia della cosca, ndr) di Desio” erano in rapporti con l’ex assessore regionale lombardo Massimo Ponzoni. Inoltre, il collegio scrive che nel procedimento “sono stati analizzati i rapporti degli imputati con altri pubblici funzionari”, tra cui “Corso Vincenzo, ufficiale giudiziario in servizio a Desio”, “Marando Pasquale, ispettore dell’Agenzia delle Entrate” e “Pilello Pietro“, all’epoca “presidente del Collegio dei revisori dei conti della Provincia di Milano”. E poi “rilevantissima”, secondo i giudici, “l’infiltrazione nella società a completa partecipazione pubblica Ianomi, che raggruppa circa quaranta comuni della Valle dell’Olona e del Seveso, ed ha come oggetto sociale la gestione delle reti idriche”. E poi ancora i “rapporti di Strangio Salvatore con il colonnello in pensione Giuseppe Romeo e con l’ispettore della Polizia stradale di Lecco Alberto Valsecchi“.

Nelle motivazioni si parla anche di un “sequestro illegale” di un’auto da parte di “agenti della polizia di Stato di Torino” ottenuto da uomini vicini al presunto boss Domenico Pio. Un pentito poi ha raccontato di “un appartenente alla Guardia di Finanza che aveva fornito loro notizie di arresti imminenti” e di “rapporti privilegiati con il comandante della Polizia locale di Erba” e con “Nardone Carlo Alberto, ex ufficiale dell’Arma dei carabinieri”. Altri “proficui rapporti”, spiegano i giudici, “sono rimasti nell’ombra” e se ne “desume l’esistenza” dai molti “episodi di fuga di notizie” nel corso dell’inchiesta.

Vengono poi descritti i legami che intercorrono tra le ‘ndrine lombarde e la Calabria, “una sorta di rapporto di franchising” – scrivono i giudici – sebbene le cosche lombarde agissero in autonomia, “la Calabria è proprietaria e depositaria del marchio ‘ndrangheta’, completo del suo bagaglio di arcaiche usanze e tradizioni, mescolate a fortissime spinte verso più moderni ed ambiziosi progetti di infiltrazione nella vita economica, amministrativa e politica“.

Per questo la stessa “infiltrazione mafiosa nelle aziende della famiglia Perego”, importante impresa lombarda nei settori edili e del movimento terra, era “seguita” – scrivono i giudici – “con attenzione dalla ‘madre patria’ anche in previsione delle prospettive attribuite a Expo 2015“. L’ex manager della Asl di Pavia Chiriaco, invece, svolgeva il ruolo di “stabile punto di riferimento per convogliare i voti controllati dall’associazione sui candidati in più tornate elettorali amministrative”. Nelle motivazioni, tra l’altro, c’è un lungo elenco di “pubblici funzionari“, ma anche di membri delle forze dell’ordine con cui le cosche avrebbero intrattenuto rapporti.

(fonte)

Bre.Be.Mi al di là dell’annuncite

Finalmente un articolo chiaro su Bre.Be.Mi al di là degli annunci:

[di Dario Ballotta | Legambiente Lombardia | su Il granello di sabbia]

Un’opera che doveva costare inizialmente 800 miloni per i 62 Km che corrono tra Brescia e Milano, allafine ha triplicato i suoi costi complessivi, passando a 2,4 miliardi comprensivi degli interessi. Il suo finanziamento, e quindi i rischi, sono stati ripartiti su un pool di banche, tra cui la capofila Banca Intesa con 390 milioni di euro, Unicredit e B.Mps con 290 milioni, Ubi Banca e Banca Popolare con 200 milioni ciascuna.

Ma la parte del leone è stata fatta dalla Cassa Depositi e Prestiti (l’istituto pubblico che raccoglie i risparmi postali) che ha partecipato con 765 milioni di euro. Con questo finanziamento è stata costituita una forte garanzia pubblica dell’opera. Il costo di un km di autostrada della Brebemi è passato da 12 milioni di euro, di qualche anno fa, a 36 milioni a km. Per avere una idea del prezzo “salato” di questa autostrada basti pensare che Benetton aveva comprato 9 anni fa la A4, l’autostrada parallela Milano-Venezia, a 2,2 milioni a Km, cioè a 33,8 milioni a km in meno dei costi attuali di Brebemi (se saranno mantenute le attuali previsioni).

Il Governatore della Banca d’Italia, nella sua ultima relazione, ha detto che tra gli altri, uno dei gap italiani consiste nel costo triplo rispetto ai paesi europei delle opere pubbliche (TAV, strade ed autostrade). Ha aggiunto che con questi costi non possiamo nè risanare la finanza pubblica né tantomeno, far crescere l’economia del Paese. Al netto degli aspetti ambientali relativi al consumo di suolo agricolo e di quelli trasportistici, serve davvero questa autostrada? Un dibattito andrebbe aperto sul tema dei costi, dei tempi di realizzazione e dei meccanismi di finanziamento. Il meccanismo nostrano di project financing adottato, ha fatto si che il closing finanziario avvenisse solo praticamente ad opera quasi conclusa. I dubbi e le perplessità sull’effettivo rientro dei capitali investiti attraverso il pedaggio nei tempi di durata della concessione, 20 anni, sono emersi sempre di più cammin facendo.

Sono marginalmente azionisti e sostenitori del progetto gli Enti locali delle 4 provincie interessate dal tracciato Milano, Bergamo, Cremona e Brescia, e le rispettive Camere di Commercio, ma maggiormente Banca Intesa, e altri gestori autostradali come la Centropadane, la Serenissima, la Serravalle e Gavio. L’assetto societario si è nel tempo modificato ed ora il controllo è di fatto passato in mano a Banca Intesa e Gavio (gestore autostradale e costruttore). Tra la crisi di liquidità di questi anni, lo spead e le indagini della magistratura, che ha bloccato tre cantieri per alcuni mesi dopo aver ritrovato rifiuti tossici seppelliti sotto l’asfalto, l’opera sta per essere conclusa. Nel frattempo le banche, “costrette” dalla politica ad affermare che l’investimento si sarebbe rivelato redditizio e ad intervenire, si sono fatte carico dei prestiti, garantendosi dal rischio prendendo inpegno tutte le azioni di Brebemi. Strada facendo, Brebemi ha rilevato anche la Tem (Tangenziale Est Milanese). Operazione avvenuta dopo il ritiro della Serravalle (pubblica) dall’azionariato di controllo di Tem, ma successiva al finanziamento a fondo perduto di 360 milioni da parte dello Stato che è andato “direttamente “ in soccorso alla TEM. A questo punto ne hanno beneficiato i soci privati di Tem (ancora Intesa e Gavio), controllati da Brebemi. La TEM è strategica perchè dovrebbe assicurare l’accesso della Brebemi alla tangenziale di Milano, attraverso la riqualificazione della Cassanese e della Rivoltana.

Va ricordato che a metterci una pezza per lo start-up di Brebemi, ci sono volute le FS (soldi pubblici) che hanno anticipato il versamento di 175 milioni visto che il progetto Tav, Treviglio-Brescia corre per un tratto parallelo alla Brebemi. Sul successso dell’opera nessuno scommette a partire dal mercato. Nessun petroliere si è presentato alla gara per l’assegnazione delle stazioni di rifornimento di carburante nelle due aree di servizio di Chiari e di Caravaggio. I dubbi sul successo dei volumi di traffico veicolare della Brebemi partono da qui.

La merda nel lago

Un monitoraggio scientifico di Legambiente fornisce notizie non eccellenti per i laghi lombardi che non fanno una “limpida” figura. Le acque di 12 laghi italiani infatti non superano la prova inquinamento, secondo l’associaizone  scientifica i laghi Iseo, Lario, Varese, Ceresio Maggiore e Garda in Lombardia, la sponda del Maggiore in Piemonte e quella del Garda in Veneto, Bolsena, Bracciano, Albano e Vico nel Lazio e Trasimeno e Piediluco in Umbria hanno mostrato una concentrazione di batteri fecali superiori alla norma in misura tale da risultare fortemente inquinati.

Su 101 punti campionati complessivamente, ben 62 hanno mostrato una concentrazione di batteri fecali superiori alla norma, 39 in misura tale da risultare fortemente inquinati. Tra i più critici, i bacini della Lombardia, con 38 punti su 58 oltre i limiti di legge. Imputati principali delle situazioni di inquinamento si confermano le foci dei corsi d’acqua che raccolgono reflui nell’entroterra, oltre agli scarichi diretti a lago, in un quadro generale afflitto troppo spesso dall’inadeguatezza dei sistemi fognari e depurativi, senza contare la cementificazione delle coste, tra le minacce piu’ rilevanti per la qualita’ delle acque e dei territori.

Per far fronte alla situazione “urgono investimenti in infrastrutture fognarie e depurative”, osserva Legambiente. E ancora bisogna limitare l’impatto delle attivita’ agricole, come sul lago di Como, e quello delle attivita’ industriali per i quali e’ necessario un monitoraggio costante, come deve accadere per il lago Pertusillo in Basilicata. Ad aggravare la situazione, il diffuso disinteresse degli enti preposti, osserva Legambiente. Nel caso della Sicilia la mancata applicazione in oltre tredici anni delle norme a tutela delle acque interne e’ valsa alla Regione la consegna della Bandiera Nera.

(Fonte)

Indagato Maroni per appalti EXPO. Appunto.

INAIL:SEMINARIO SU RESPONSABILITA' SOCIALEIl presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, risulta indagato dalla Procura di Busto Arsizio per presunte irregolarità su due contratti Expo. L’avviso di garanzia é stato notificato questa mattina dai Carabinieri del Noe, che si sono recati negli uffici del governatore lombardo a Palazzo Lombardia. Il reato ipotizzato nei confronti di Maroni é quello di «induzione indebita a dare o promettere utilità». Nel mirino degli inquirenti sono finite presunte irregolarità in due contratti di collaborazione a termine su progetti legati a Expo 2015, stipulati non dalla Regione ma dalle società Expo ed Eupolis. 
La conferma arriva dallo stesso staff del governatore che in una nota precisa: «Il presidente Maroni é stato nel suo ufficio e ha preso visione dei documenti relativi alla contestazione. Si é reso immediatamente disponibile agli uffici del Procuratore per chiarire la regolarità e correttezza della questione». Per la stessa ipotesi di reato risulta indagato anche il capo della segreteria di Maroni, Giacomo Ciriello.

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