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razzismo

«Ho perso un amico»

(Di Pierpaolo Capovilla. È uno dei pezzi più belli e veri. Leggetelo fino in fondo.)

Ho perso un amico.
Ma sto perdendo qualcosa di più importante.
Sto perdendo la fiducia nella gente che mi circonda.
La gente per la strada, negli uffici, nelle fabbriche, la gente tutta insomma.

Ciò che sto per dire è interamente vero, con l’unica eccezione del nome del mio amico, l’amico che fu, e che per pietà cambierò con uno di fantasia. Lo chiamerò Alvise, un nome adespota, senza il santo in calendario, ma fra i più diffusi nella mia città, Venezia, la cui storia è piena zeppa di patrizi e dogi che portarono questo nome. Cambierò anche il nome della sua ragazza, che comunque non ricordo.

Venerdì sera, a Venezia, appunto.
Sto preparando una cenetta che mi auguro deliziosa, per Elisa, la mia compagna, e per me, che adoro cucinare. Ceneremo molto tardi, come sempre. Vorrei servirla in terrazzino, al fresco della brezza serale, che già soffia decisa.
Vado al supermercato più vicino, quello in Salizada San Lio, giusto prima che chiuda, sono ormai le 21 e 30, a fare un’ultima spesa. Mi mancano il parmigiano, un po’ di mentuccia, e una bottiglia di Salice Salentino, il mio rosso preferito. Ritorno verso casa in tutta fretta, ma mi fermo un attimo in un pub irlandese, in Calle del Mondo Novo, giusto per un aperitivo, solitario y final, ma sopratutto per vedere chi sta vincendo fra Svizzera e Serbia.
La Serbia mi affascina, da sempre. Il prossimo viaggio che faremo, io ed Elisa, sarà a Belgrado. Se proprio devo fare il tifo, questa sera, tifo Serbia.
Nel pub incontro Alvise, un vecchio amico che non vedo da anni.

È strano, ma lo avevo pensato qualche giorno fa, il buon Alvise. Sarà la solita sincronicità.
Sotto lo sguardo un po’ torvo e un po’ stupito dei tanti svizzeri che gridano nel pub, Alvise, che è lì con Nadia, la sua ragazza, la stessa di sempre, si mette a gridare anche lui: Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via!.
Scoppio a ridere. Il vecchio compagno non è cambiato!
Mi vengono in mente le interminabili discussioni alla Letizia, l’osteria che frequentavamo, dalle parti di Rialto, sull’Unione Sovietica, l’internazionalismo, Berlinguer e l’eurocomunismo. Tutto perduto, nella notte dei tempi, come un mito lontano.
Lo inseguo immediatamente. Yu-go-sla-via! Yu-go-sla-via! Scenetta divertente.
A quel punto un bel signore, di una certa età, si avvicina e si aggiunge sorridente al nostro coretto provocatorio. È serbo, questo signore così magro, il volto affilato, gli occhi azzurrissimi. Un bel tipo. Come Alvise anche lui è ubriaco. Ci faccio due chiacchiere. È proprio di Belgrado, ed è qui a Venezia per lavoro.

Da quanto non ci vediamo?
Alvise ci pensa qualche secondo.
Saranno tre, quattro anni!
Ma sei stato via?
No, affatto. Sempre qui in città.
È strano. Malgrado Venezia sia così piccolina, a volte ci si perde di vista. Entrambi abbiamo cambiato casa e sestiere negli ultimi anni; qui a Venezia funziona così, ognuno si vive il suo pezzetto di città, si rintana nel proprio angolino, il più lontano possibile dai turisti, anche se ormai sono dappertutto, anche nei luoghi più nascosti, un tempo ignorati dai “foresti”. Google Maps e Airbnb hanno trasformato Venezia in un percorso guidato e in un immenso albergo; i croceristi scendono dalle navi, dalla porta del vicino sbucano fuori messicani, una mattina alle sei e mezza due corpulente americane ti chiedono se tu sia certo che la casa in cui vivi non sia quella che hanno prenotato. Ho dovuto mettere un avviso sulla porta di casa: “This is not a B&B”.

Alvise, che fa il gondoliere, s’è comprato un bell’appartamento, spazioso e confortevole, in un palazzo antico, dalle parti di Campo Santo Stefano. Io invece sto in un modesto appartamentino, un bilocale al piano terra, esente acqua alta, come si dice da noi, vicino a San Lorenzo.
Chiacchieriamo un po’ del più e del meno, e io inevitabilmente gli chiedo se tifi ancora per il Livorno. L’ho conosciuto così, Alvise, parlando di calcio, e quella volta se ne uscì con questa passione ‘amaranto’. Mai mi sarei aspettato che un gondoliere veneziano potesse essere un tifoso, un tifoso accanito, del Livorno. Singolare.

Ti fai ancora le trasferte?
Alvise mi dice che… No, ormai il Livorno non gli interessa più. È retrocesso in C, mi spiega. S’è pure stufato del calcio in genere. Ora preferisce il rugby.

Io non sono un tifoso, ma il calcio mi piace. Lo sport più bello del mondo, altroché. Mi piace perché conservo in me il ricordo di quel grand’uomo di Bearzot e della sua nazionale, campionessa del mondo. Di Zoff, Scirea, di quell’opportunista di Paolo Rossi, e poi Conti, Cabrini, Tardelli. E poi Pertini. Quanto era bello, Pertini. Avevo quattordici anni, e a quel tempo il calcio mi piaceva eccome. Mi entusiasmava. I ragazzini amano il calcio.
Ad un certo punto Alvise mi chiede: ti piace il biliardo?
Resto sorpreso. Un’altra sincronicità.
Io adoro il biliardo. Non sono bravo, non sono mai stato bravo in alcuno sport né in alcun gioco che preveda specifiche abilità motorie, lo ammetto. Ma mi piace davvero, e proprio in questi giorni stavo pensando di andare a passare una serata in quella sala che c’è a Mogliano, proprio dirimpetto alla stanza prove dove suono con One Dimensional Man. Ci andrei anche da solo, giusto per allenarmi un po’, e per vedere se ancora riesco a mettere qualche biglia in buca.

Alvise mi dice di avere un tavolo a casa.
Hai un tavolo a casa?
Si! Vieni a fare un paio di partite!
Ci penso su.
Ci vengo eccome!

In un battibaleno decido di lasciar perdere la cenetta in terrazzino.
Chiamo Elisa per dirle che farò un po’ tardi, ma sta ancora lavorando, e non mi risponde.
In dieci minuti sono a casa di Alvise e Nadia.
Nadia prepara delle bruschette, Alvise una canna d’erba, di quella super buona. A me affidano il compito di scegliere ed aprire una bottiglia di vino bianco. Trovo un Malvasia del Carso, eccezionale.
Tutto è eccezionale questa sera!
E fra poco… Lo sarà ancor di più.
Ci fiondiamo al tavolo. È di tipo americano, con le buche molto più larghe di quelle a cui ero abituato, e penso: meglio così, la mia figuraccia sarà meno penosa.

Alvise mi confida d’averlo comprato non soltanto per la passione per il biliardo, ma per invitare gli amici a casa, che quando capiscono di poter giocare a gratis, non ci pensano su due volte. Esattamente quel che ho appena fatto io.
È soddisfatto, felice di compiacermi. E sono felice anch’io.

La prima partita, giochiamo a palla otto, la stravince Alvise. E ci credo. Però io non sono così male. Alvise osserva la mia postura, e mi dice: ma allora sai giocare!
Sono inorgoglito.
Nella seconda partita do il meglio di me, e con un po’ di fortuna passo in vantaggio. Complice una spaccata favorevole le biglie si distribuiscono propizie, scelgo le piene, e ne metto in buca tre di fila.
Poi Nadia ci chiama in cucina per le bruschette.
Nadia è una donna buona e gentile. Sembra un po’ svampita, come se vivesse in un mondo tutto suo, e mi sembra di riconoscere in lei quei classici aspetti di chi fa uso di psicofarmaci. Niente di strano, penso. Le benzodiazepine sono fra i farmaci più venduti al mondo. Quel che non mi piace di lei, è la sua arrendevolezza. Alvise la tratta in modo un po’ rude, un po’ padronale, patriarcale. Incomincia a non piacermi neanche lui.
A tavola beviamo e fumiamo ancora. Ormai sono alticcio pure io, mentre Alvise è decisamente su di giri. La cosa non mi preoccupa neanche un po’ perché è sempre stato così, il buon Alvise. Un vero alcolista, uno di quelli che ci danno dentro tutto il giorno.

Gli chiedo cosa ne pensa del nuovo governo.
“Na manega de stronsi”, mi dice in perfetto veneziano, non veneto o mestrino, ma veneziano DOC. “No cambia mai na sboraa”. Questa è una di quelle locuzioni vergognose che si usano a Venezia, la parola “sboraa” significa “sborrata”, e molti qui la usano in continuazione, intercalandola in ogni dove.
“Però Salvini no xe mae!”…
Perché, ti piace quel fascista?
“No xe fascista! È un p-r-a-g-m-a-t-i-c-o”.
Incomincia una discussione che avrei preferito non dover fare mai.

(la discussione continua qui)

Il silenzio degli intellettuali (no, non tutti, ovvio) sulla melma qui intorno

Benvenuti nell’estate 2018, quando Claudio Marchisio e Francesco Totti diventano l’argine nazionalpopolare alla merda che ogni giorno viene sparsa dai vomitatori d’odio (esclusi i fine settimana, avete notato? perché il week end è sacro quasi come l’aperitivo) e intanto rimbomba l’assenza degli intellettuali prêt-à-porter, quelli che tutti i giorni sui loro account social o nelle ospitate televisive ci propinano le loro fondamentali idee sul cibo, sull’abbigliamento, sul caldo d’estate e sul freddo d’inverno, sulle molestie subite dagli altri, sulla simpatia di Renzi e dei genitori di Renzi e dei cugini di Renzi, sul bere molta acqua, sui programmi in prima serata, su quanto sia rivoluzionario il Papa, su quanto fosse forte Maradona, sui litigi di tronisti e grandifratelli, sulle loro ex mogli, sull’educazione dei figli, su Corona e don Mazzi, sulle troppe tasse, sulle parolacce che si possono dire ma le bestemmie invece no e non hanno nulla da dire, niente di niente, nemmeno una foto su Instagram, su questo tempo in cui si augura la morte ai profughi, si spera che affondino i barconi, ci si chiede perché Saviano non sia ancora morto, si discetta sugli stupri che devono capitare alla Boldrini e ci si ingegna nell’analisi lessicale delle cazzate di qualche ministro fingendo di non sapere che certa retorica serva solo come miccia per accendere la feccia.

Abbiamo i personaggi pubblici meno riservati degli ultimi cinquant’anni, ne conosciamo i gusti sessuali, le intolleranze alimentari e i soprammobili in salotto ma non riescono a dire una parola, prendere una posizione sulle piccole disumanità in scia di un partito che pur essendo azionista (di minoranza) del governo instilla una guerra continua, giorno dopo giorno, in campagna elettorale permanente intenta ad agitare le folle. Sia inteso: non è obbligatorio essere contro questo governo per dichiararsi estranei alla ferocia che si annusa nell’aria ma è obbligatorio ribellarsi (sì, è obbligatorio, e come dice giustamente Roberto Saviano “chi non prende parte ora sarà colpevole per sempre”) al razzismo becero di chi considera l’etnia e la provenienza geografica un valido motivo per morire e essere lasciati morire.

Personaggi televisivi che da anni ci impartiscono lezioni di benpensantesimo da tutte le reti televisive preferiscono parlare della penuria di ombrelloni piuttosto che lasciarsi scappare un giudizio sul presente, sacerdotesse della domenica pomeriggio (quelle maestre dei selfie a culo di gallina con gli ospiti politici e di giudizi censori sullo scibile umano) galleggiano tranquille nella melma di questi giorni, opinionisti apodittici (di politica, calcio, tennis, moda, reality anche tutto contemporaneamente) scrivono messaggi privati per esprimere una solidarietà che non renderebbero pubblica nemmeno sotto tortura, saggisti tuttologi che vendono sugli scaffali futuri apocalittici ma trovano potabile il presente.

(continua su Linkiesta qui)

Respingere la tentazione dell’indifferenza: il primo intervento al Senato di Liliana Segre

(Il sito Voisapete.it. soprattutto di questi tempi, è particolarmente prezioso. Oggi pubblica l’intervento di Liliana Segre, ed è un testo importante per leggere il presente, mica il passato)

Signor Presidente, signor Presidente del Consiglio, colleghi senatori, prendendo la parola per la prima volta in quest’Aula non possa fare a meno di rivolgere innanzitutto un ringraziamento al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il quale ha deciso di ricordare l’ottantesimo anniversario dell’emanazione delle leggi razziali, razziste, del 1938 facendo una scelta sorprendente: nominando quale senatrice a vita una vecchia signora, una persona tra le pochissime ancora viventi in Italia che porta sul braccio il numero di Auschwitz.

Porta sul braccio il numero di Auschwitz e ha il compito non solo di ricordare, ma anche di dare, in qualche modo, la parola a coloro che ottant’anni orsono non la ebbero; a quelle migliaia di italiani, 40.000 circa, appartenenti alla piccola minoranza ebraica, che subirono l’umiliazione di essere espulsi dalle scuole, dalle professioni, dalla società, quella persecuzione che preparò la shoah italiana del 1943-1945, che purtroppo fu un crimine anche italiano, del fascismo italiano.

Soprattutto, si dovrebbe dare idealmente la parola a quei tanti che, a differenza di me, non sono tornati dai campi di sterminio, che sono stati uccisi per la sola colpa di essere nati, che non hanno tomba, che sono cenere nel vento. Salvarli dall’oblio non significa soltanto onorare un debito storico verso quei nostri concittadini di allora, ma anche aiutare gli italiani di oggi a respingere la tentazione dell’indifferenza verso le ingiustizie e le sofferenze che ci circondano. A non anestetizzare le coscienze, a essere più vigili, più avvertiti della responsabilità che ciascuno ha verso gli altri.

In quei campi di sterminio altre minoranze, oltre agli ebrei, vennero annientate. Tra queste voglio ricordare oggi gli appartenenti alle popolazioni rom e sinti, che inizialmente suscitarono la nostra invidia di prigioniere perché nelle loro baracche le famiglie erano lasciate unite; ma presto all’invidia seguì l’orrore, perché una notte furono portati tutti al gas e il giorno dopo in quelle baracche vuote regnava un silenzio spettrale.

Per questo accolgo con grande convinzione l’appello che mi ha rivolto oggi su «la Repubblica» il professor Melloni. Mi rifiuto di pensare che oggi la nostra civiltà democratica possa essere sporcata da progetti di leggi speciali contro i popoli nomadi. Se dovesse accadere, mi opporrò con tutte le energie che mi restano.

(continua qui)

La lettera degli studenti di Macerata ai compagni stranieri che non vanno a scuola per paura

(una professoressa di italiano del CPIA di Macerata, insieme al resto della classe, ha scritto una lettera ai suoi studenti stranieri che per paura non vanno più a scuola)

Macerata, 7 febbraio 2018

Cari ragazzi,

a scuola stiamo imparando come scrivere una lettera così, per esercitarci, abbiamo deciso di scrivervi.

Vi scriviamo per divi che ci mancate. Ci mancano il vostro sorriso, il vostro buonumore, le vostre domande talvolta un po’ bizzarre, le vostre sagge osservazioni e le riflessioni sulla vita e sul futuro. Siamo giovani e il nostro è un futuro tutto da costruire, tutto da vivere.

Ci manca la nostra idea di classe, quell’idea del costruire insieme la conoscenza, di guardare il mondo con tanti occhi perché noi sappiamo che due occhi non bastano per vederlo davvero.

Ci mancano la seria compostezza di Rudolf, la gentile saggezza di Momodou, le battute di Youssouf, il viso stanco ma sempre sorridente di Haruna, l’ammirevole forza di volontà di Ilamza, l’infinita voglia di chiacchierare di Aymen e l’arricchente presenza di Cosmos.

Ci mancano le osservazioni intelligenti e consapevoli di Ibrahim, l’impegno instancabile di Aliou, le simpatiche smorfie di Abdou davanti ad ogni parola nuova che incontra, la sensibilità di Arnaud, la forza d’animo di Seydu, la solarità di Ibrahima, la simpatia di Karounga e il sorriso contagioso di Sindou.

Ci manca la vostra voglia di imparare e quel dare all’istruzione l’importanza che merita.

Ci mancate perché sappiamo bene cos’è per voi la scuola: una grande occasione e una grande ricchezza. È il momento in cui si può prendere consapevolezza di chi si è e di dove si vuole arrivare.

È la possibilità di aprire gli occhi, di uscire dal triste ricordo dei difficili momenti passati, dalla precarietà, dal buio dell’ignoranza.

È lo strumento indipendente per poter dire in un italiano invidiabile (lo sappiamo che è a questo che volete arrivare!) chi siete, cosa pensate, che cosa sapete fare, quali sono le vostre speranze e i vostri sogni.

Ci mancano quelle persone meravigliose che credono nell’integrazione e si impegnano a fondo per raggiungerla, lavorando e studiando in modo ammirevole, senza fermarsi a pensare che potrebbero non farcela, perché hanno fiducia in se stessi e negli altri.

Noi abbiamo fiducia in voi e vi aspettiamo: andremo avanti e lo faremo insieme. Come è giusto che sia e come tutti gli uomini e le donne del mondo dovrebbero fare.

A presto!

Con infinito affetto.

I vostri compagni di classe e la vostra prof

Manifestarsi. Soprattutto in campagna elettorale.

Su Macerata in queste ore si sta facendo molta confusione. Ne ho scritto nel mio buongiorno stamattina qui:

Finisce che  Anpi CgilArci e Libera dichiarano sospesa una manifestazione che in realtà è stata indetta da altri: come racconta Csa Sisma “una manifestazione che in pochissimi giorni ha ricevuto appelli, adesioni ed inviti alla partecipazione da tante realtà sociali e singoli cittadini, a livello locale, come a livello nazionale”. E l’appello di ANPI (e gli altri) viene smentito nelle decine di messaggi (e sezioni locali) che decidono comunque di non accettare la sospensione. E così, da fuori, si assiste allo spiacevole balbettio di chi crede che “la politica” si propaghi provando a galleggiare. Ed è un peccato. Alla fine (ovviamente) la Prefettura prende la palla al balzo per vietare “tutte le manifestazioni”. Non si manifesta l’antifascismo, in Italia, nel 2018: la normalizzazione del fascismo come “opinione” contraria è riuscita.

L’antifascismo non è un orpello da sventolare quando il mare è piatto e non tira vento. Mi spiace. No.

(A proposito: mercoledì a Macerata Casapound ha tenuto una conferenza stampa e oggi, giovedì 8 febbraio, Forza Nuova ha annunciato un presidio. Loro.)

Non bisogna abbassare i toni ma bisogna cambiarli (ne ho scritto per Fanpage qui):

varrebbe la pena avere il coraggio di abbandonare la strategia dei tifosi opposti (che tanto premia in termini elettorali e nei clic) e tornare al senso delle parole, lì dove un omicidio è un omicidio, lì dove una disperazione porta con sé il dovere di essere trattata con cura, lì dove un’ideologia incostituzionale non diventa un malessere da sventolare per demolire gli avversari, lì dove un prurito nascosto tra le pieghe di un dramma non viene esaltato per un po’ di pietismo, lì dove le vittime sono le vittime e non i carnefici, lì dove la richiesta di giusta pena non diventa la fame di vendetta, lì dove le strumentalizzazioni vengono prese per quel poco che valgono e non diventano suggeritrici degli editoriali.

E quindi siccome bisogna manifestarsi, soprattutto in campagna elettorale, abbiamo deciso di andarci. Ecco l’agenzia di stampa:

Come scrive giustamente Civati manifestare contro i fascismi non è mai un errore.

 

«Boia chi molla!» (la Prestipino)

L’ha scovato David Allegranti:

«Boia chi molla prof!». «Grandi i miei ragazzi!!!», dice Patrizia Prestipino, candidata del Pd alla Camera a Roma e già nota per la sortita sul sostegno alle mamme per continuare la «nostra razza». Però «vota la cultura». L’ha messa su Instagram venerdì e poi l’ha cancellata.

“Vedeva il mondo rosa e ora lo vede nero”: le parole del padre della ragazza aggredita a Torino perché nera

“A 15 anni si vede il mondo o completamente rosa, o completamente nero. Fino all’altro ieri per mia figlia era rosa, ieri le è sembrato del nero più nero possibile”. Così il papà di Giulia, nome di fantasia, la studentessa insultata e presa a calci mentre andava a scuola in autobus perché di colore. “Vorremmo che tornasse al più presto alla sua spensierata gioventù, e quindi abbiamo declinato le richieste di tutti quelli che hanno cercato di cavalcare la notizia”, aggiunge l’uomo, di origini africane, in un messaggio a La Giornata Tipo, blog sul mondo del basket molto seguito.

“Abbiamo saputo che Giulia oltre ad amare il basket e ad essere una giovane promessa di questo sport, ci segue – scrive di rimando l’autore del blog -, si diverte con i nostri post, interagisce, guarda i video, sogna con noi attraverso le emozioni che regala la pallacanestro. Quindi Giulia ci rivolgiamo a te. Vogliamo tenderti la mano per aiutare a rialzarti come si fa con un compagno di squadra che ha subito un fallaccio da un avversario infame. E di infami, purtroppo, nella vita ce ne sono tanti”.

Pronto il ringraziamento, via social, del padre della ragazza. “Le vostre parole e quelle di chi ha commentato – osserva – hanno aiutato mia figlia a tramutare la tristezza in rabbia e a capire che tra il rosa e il nero ci sono migliaia di meravigliose sfumature…”.

(fonte)

La lezione di Thuram: «Quelli che usano Anna Frank per insultare, sanno esattamente cos’è il fascismo»

«Giusta la mobilitazione contro l’antisemitismo negli stadi, a costo di rischiare i fischi e nuovi insulti. Non fare niente sarebbe la scelta peggiore». Lilian Thuram è stato il grande difensore della Francia campione del mondo nel 1998 e d’Europa nel 2000, del Parma e della Juventus. Poi ha creato la sua Fondazione contro il razzismo, e il suo impegno continua con i libri «Le mie stelle nere» e «Per l’uguaglianza» (editi in Italia da Add). Ha seguito lo scandalo degli adesivi con Anna Frank degli ultrà della Lazio, e lancia un appello perché tutti, non solo le società di calcio, reagiscano.

Oggi nei stadi italiani si è tornato a giocare, prima delle partite sono stati letti brani del Diario di Anna Frank. È una reazione efficace secondo lei?
«Tutte le iniziative in questa direzione sono importanti, non c’è altra scelta. Quando succedono situazioni così gravi non si può fare finta di niente. Bisogna fare qualsiasi cosa per fare capire che non ci si comporta così. Qualche giorno fa ho parlato con una persona, un tifoso della Lazio, qua a Parigi. Eravamo un gruppo di amici, tutti stupiti e indignati, ma la cosa strana è che lui ha detto subito ”ehi, guardate che succede anche nelle curve delle altre squadre, non è solo un problema della Lazio”. Gli ho risposto che da tifoso della Lazio per prima cosa avrebbe dovuto riconoscere che gli autori degli adesivi con Anna Frank in maglia giallorossa avevano sbagliato, non provare ad attenuare le colpe dicendo ”ma lo fanno anche gli altri”. Quando ci si sente attaccati si reagisce ma non sempre nel modo giusto. È molto importante combattere l’ideologia che invoca la morte e isolare quelli che fanno gesti così stupidi».

Quando lei giocava in Italia succedevano cose simili?
«Sì, già alla mia epoca mi ricordo degli episodi di questo tipo. E siamo di nuovo a parlarne. C’è da chiedersi che cosa hanno fatto e fanno le società, la federazione, il governo, per togliere queste manifestazioni di odio dagli stadi».

Il presidente della Lazio, Claudio Lotito, dice di avere emarginato i tifosi violenti e razzisti tanto da subire minacce e da essere costretto a vivere con la scorta.
«Io comunque da ex calciatore e da tifoso di calcio mi chiedo come sia possibile non riuscire a cambiare le cose. Non ho la risposta, però mi sembra incredibile».

La magistratura ordinaria dovrebbe intervenire in modo più efficace?
«Non so dirlo. Mi chiedo se c’è una vera volontà politica di smetterla con l’odio. Certo che se tra 10 o 20 anni ci ritroveremo a fare gli stessi discorsi sarà un vero peccato, sarà grave per la società civile e per lo sport».

Nell’ambiente del calcio la storia di Anna Frank è conosciuta? O è anche una questione di ignoranza?
«Basta dire che i razzisti sono stupidi. Difendono una idea di società dove si sentono superiori. Stiamo parlando di adulti, almeno in maggioranza. Quelli che usano Anna Frank per insultare, sanno esattamente cos’è il fascismo».

In Francia esiste lo stesso problema?
«No. Il che non vuole dire che dentro gli stadi non ci siano antisemiti, attenzione. Però nessun gruppo potrebbe dare una dimostrazione così sfacciata davanti a tutti. Non so se sia per maggiori controlli o per altri motivi, non sono in grado di identificare esattamente le cause. Però in Francia una cosa simile negli stadi è impossibile. Perché i politici, i media e la società in generale sarebbero così sconvolti che non potrebbe succedere una seconda volta».

Rispetto ad altri sport il calcio è più colpito?
«Il calcio è lo sport più seguito al mondo. Gli stadi sono immensi. Qualcuno lì dentro ha l’impressione di perdersi nella folla, di potere fare qualsiasi cosa senza essere individuato. Negli altri sport non c’è la politica dentro le curve e il rapporto tra le gli ultrà e le società è meno stretto. Però lo stadio è lo specchio della società. Se in curva troviamo l’antisemitismo e il razzismo è perché esistono prima di tutto fuori».

Quindi la reazione deve cominciare fuori degli stadi?
«Io penso che ci debba essere ovunque una educazione intransigente contro l’antisemitismo e il razzismo. Noi tutti non dovremmo fare passare niente, nella vita di tutti i giorni. Se tu senti un tuo amico che dice qualcosa di sbagliato su un gruppo di persone, devi avere il coraggio di dirgli “guarda che non si fa, non puoi dire questo”. È un compito che abbiamo tutti. Quante volte c’è qualcuno che fa una battuta sugli omosessuali, per esempio, e quelli che gli stanno intorno si mettono a ridere anche se sanno benissimo che non è giusto? È lo stesso meccanismo. Chi non reagisce, di fatto, accetta».

Questa vicenda è stata seguita all’estero?
«Sì, e mi dispiace perché dà un’immagine sbagliata, negativa dell’Italia. Anche per questo dico che le persone di buona volontà devono prendere le distanze e denunciare questi fatti».

(fonte)

Ci ha azzeccato, Gramsci

Il fascismo si è presentato come l’anti-partito, ha aperto le porte a tutti i candidati, ha dato modo a una moltitudine incomposta di coprire con una vernice di idealità politiche vaghe e nebulose lo straripare selvaggio delle passioni, degli odi, dei desideri. Il fascismo è divenuto così un fatto di costume, si è identificato con la psicologia antisociale di alcuni strati del popolo italiano.

 

(Antonio Gramsci, L’Ordine Nuovo, 26 aprile 1921)