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razzismo

Fatou Boro Lo, la candidata insultata perché nera: “Sessismo e razzismo nel 2019, sconvolgente”


Fatou Boro Lou è una candidata nella lista Europa Verde che qualche giorno fa è stata ricoperta di insulti sui social solo per avere osato criticare (lei, donna e con la pelle nera) le politiche di Salvini e la gestione della vicenda Sea Watch: “Sono sconvolta da tanta volgarità. Ho cominciato a rispondere ma poi ho desistito. Insulti sessisti e razzisti. Siamo nel 2019 e ancora insultano le donne in quanto donne. Ma questo mi dà solo forza per lottare per chi subisce ogni giorno violenze verbali e discriminazione”.
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Reddito cittadinanza, il razzismo dei pochi fortunati lavoratori contro l’uomo sul divano


Dirò di più: sono sempre dalla parte della ridistribuzione del denaro in un mondo in cui il ricco continua ad arricchirsi e i poveri diventano sempre più poveri. Sarò sempre dalla parte di uno Stato che non ti affossa perché l’età anagrafica, la condizione sociale o semplicemente i fortunati casi della vita hanno fatto di te un relitto produttivo, uno scarto del mercato e un cittadino percepito come un fastidioso costo.
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È sempre il solito razzismo, anche senza pallone

Kalidou Koulibaly è un difensore francese naturalizzato senegalese che gioca nel Napoli, in Serie A. Nell’ossessiva mercificazione della bontà rarefatta in salsa natalizia la Lega Calcio ha pensato di proporre anche da noi (in Inghilterra accade da anni) una giornata di campionato in versione natalizia per “portare le famiglie allo stadio” (hanno detto i responsabili della Figc). Non è andata benissimo, no.

Nella partita Inter-Napoli Koulibaly è stato tra i migliori in campo, come spesso succede. È stato anche bersagliato da buuu, ululati e versi scimmieschi che per tutta la partita l’hanno colpito in quanto nero. Anzi, negro, come si dice oggigiorno. Anche questo succede spesso: dai campi di Serie A fino a quelli di provincia il razzismo, insieme alla violenza, il colore della pelle diventa una caratteristica da insozzare con i più plateali insulti.

All’esterno dello stadio di San Siro si sono susseguiti violenti scontri tra tifosi. C’è anche un morto: Daniele Belardinelli, 35 anni, è stato investito da un’auto durante i tafferugli.

Come era prevedibile si sono alzati i peana di chi condanna le violenze e i cori razzisti come se lo stadio fosse un mondo a parte, come del resto torna utile e comodo credere e lasciar credere. C’è un altro particolare interessante: la vittima e i carnefici sono stati puniti allo stesso modo. Koulibaly si è preso due giornate di squalifica per l’espulsione guadagnata in campo (eh, sì, ha perso la pazienza, che vergogna, nevvero?) e due giornate di squalifica alla curva dell’Inter. La pilatesca giustizia sportiva ha trovato una comoda via d’uscita. Niente da dire invece su una gara che sarebbe stata da sospendere per inciviltà. Non sia mai che lo spettacolo si interrompa.

Poi ci sono due frasi, tutte e due da incorniciare. Una l’ha pronunciata la vedova dell’agente di Polizia che perse la vita proprio fuori da uno stadio, Marisa Raciti: «Bisogna investire di più nella cultura, nella scuola e nell’informazione. Tutto il sistema è carente da questo punto di vista e non mi stupisco se a 12 anni dalla morte di mio marito il linguaggio è sempre quello. Mio marito tornava a casa sempre ferito, fin quando non è più tornato». Poi c’è la dichiarazione di Koulibaly: «Mi dispiace la sconfitta e soprattutto avere lasciato i miei fratelli. Però sono orgoglioso della mia pelle. Di essere francese, senegalese, napoletano, uomo».

Eppure quella gente (quelli che vanno allo stadio a vomitare insulti a un nero perché nero) a fine partita si sparge per le strade, va a lavorare in ufficio, si ferma a chiacchierare nei bar: sono il Paese. Anzi, ad ascoltare la propaganda, verrebbe da dire che la maggioranza degli italiani la pensi esattamente come loro. Uno stadio che oggi più o meno è al 30%. Perché allora questo futile stupore? Abbiate il coraggio di esserne fieri. O no?

Buon venerdì.

Il mio #buongiorno lo potete leggere dal lunedì al venerdì tutte le mattine su Left – l’articolo originale di questo post è qui https://left.it/2018/12/28/e-sempre-il-solito-razzismo-anche-senza-pallone/ – e solo con qualche giorno di ritardo qui, nel mio blog.

Gli italiani, il razzismo e l’incapacità di Salvini di assumersi le sue responsabilità

Lasciate perdere per un secondo le nazionalità di vittime e carnefici: l’Italia di questo ultimo mese non è sicura e il ministro alla sicurezza (che sulla percezione ha costruito le sue fortune) evidentemente non riesce (o non vuole) farsi carico di fatti che lui stesso dovrebbe evitare, condannare. Le possibilità sono due: o il ministro è palesemente inefficace e ammette che la situazione non è sotto controllo oppure si prende la responsabilità di dichiarare che i reati valgono in base all’etnia delle vittime e allora si professi coraggiosamente razzista. Tertium non datur.
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Quando si insegna un uomo a odiare

Quando si insegna un uomo a odiare, ad avere paura del proprio fratello, quando si insegna che un uomo ha meno valore a causa del colore della sua pelle o delle sue idee o della politica che segue, quando si insegna che chi è diverso da te minaccia la tua libertà o il tuo lavoro o la tua casa o la tua famiglia, allora si impara ad affrontare l’altro non come un compatriota ma come un nemico, da trattare non con la collaborazione ma con la conquista. Per soggiogarlo e sottometterlo. Impariamo, in sostanza, a guardare i nostri fratelli come alieni. Uomini alieni con cui dividiamo una città ma non una comunità. Uomini legati a noi da un’abitazione comune ma non da un impegno comune.
Impariamo a dividere soltanto una paura comune, soltanto un desiderio comune di ritirarci gli uni dagli altri, soltanto un impulso comune a reagire al disaccordo con la forza.

La nostra vita su questo pianeta è troppo breve, il lavoro da svolgere è troppo vasto, perché questo spirito prosperi ancora a lungo nella nostra nazione. È evidente che non possiamo bandirlo con un programma né con una risoluzione, ma possiamo forse ricordare, anche una sola volta, che quelli che vivono con noi sono nostri fratelli che dividono con noi lo stesso breve arco di vita, che cercano come facciamo noi, soltanto la possibilità di vivere la propria vita con uno scopo e in felicità conquistandosi la realizzazione e la soddisfazione che possono.

Sicuramente il legame di un destino che ci accomuna, il legame di scopi che ci accomunano, può cominciare a insegnarci qualcosa. Sicuramente possiamo imparare, almeno, a guardare chi ci sta intorno, il nostro prossimo e possiamo cominciare a lavorare con maggiore impegno per ricucire le ferite che ci sono tra noi e per tornare ad essere fratelli e compatrioti nel cuore.

Roberto Kennedy – 5 Aprile 1968 (il giorno prima era stato ucciso a Memphis, Tennessee, il reverendo Martin Luther King)

(grazie a Aldo Funicelli)

«Vi è il dovere di governare il linguaggio. Con il coraggio, se necessario, di contraddire opinioni diffuse.»

«Sta a chi opera nelle istituzioni politiche – ma anche a chi opera nel giornalismo – non farsi contagiare da questo virus, ma contrastarlo, farne percepire, a tutti i cittadini, il grave danno che ne deriva per la convivenza e per ciascuno. Vi è il dovere di governare il linguaggio.

Con il coraggio, se necessario, di contraddire opinioni diffuse.

L’Italia non può diventare- non diverrà – preda di quel che Manzoni descrive, con efficacia, nel trentaduesimo capitolo dei Promessi Sposi, a proposito degli untori e della peste: “Il buon senso c’era ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

La Repubblica vive dell’esercizio delle responsabilità da parte di ciascun cittadino: ognuno faccia uso dei suoi diritti e adempia ai suoi doveri.

Vale per me, anzitutto, chiamato a rappresentare l’unità del Paese e a concorrere all’ordinato funzionamento degli organi istituzionali. Così come a me compete ricordare, a ciascuno, il rispetto dello stesso principio.

Le finalità sono tracciate, con chiarezza, nel testo della Costituzione e verso di esse devono convergere le pubbliche amministrazioni, nell’imparzialità della loro funzione, diretta a servizio di tutti i cittadini.

Il limite dell’intervento dello Stato è indicato, limpidamente, laddove è pienamente riconosciuto, alla società civile, di esprimersi in tutte le forme organizzate della vita economica e sociale, senza interferenze da parte delle autorità pubbliche tese a influenzarne l’attività.

Da questo patrimonio nasce la reputazione di un Paese ordinato, bene amministrato, coeso.

La reputazione è un bene comune, collettivo. Indisponibile. Sottratto a interessi di parte perché costruito, nel tempo, con il contributo del nostro popolo.

E’ patrimonio di storia, di cultura, di valori che disegna il ruolo dell’Italia nella comunità internazionale. Ovunque si vada, si registra un gran desiderio di collaborazione e di interlocuzione stretta e concreta con l’Italia.

Tutto ciò che intacca questo patrimonio ferisce l’intera comunità.

Mi ha molto colpito un fatto di cronaca di questi giorni.

L’Italia non può assomigliare al Far West, dove un tale compra un fucile e spara dal balcone colpendo una bambina di un anno, rovinandone la salute e il futuro. Questa è barbarie e deve suscitare indignazione.»

(Sergio Mattarella, 26/07/2018, fonte)

«Non è per questo che gioco a calcio, e non rimarrò seduto a fare niente. Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato.»

Mesut Özil ha annunciato la sua intenzione di lasciare la nazionale di calcio della Germania. La sua lettera d’addio vale la pena di essere letta per questioni che esulano dal calcio:

Le ultime due settimane mi hanno dato tempo per riflettere e per pensare agli eventi degli ultimi mesi. Voglio quindi condividere i miei pensieri e i miei sentimenti riguardo a quello che è successo.

Come molte persone, ho origini in più di un paese. Nonostante sia cresciuto in Germania, le radici della mia famiglia sono in Turchia. Ho due cuori, uno tedesco e l’altro turco. Durante la mia infanzia, mia madre mi insegnò a essere sempre rispettoso e a non dimenticare mai da dove venissi, e questi sono ancora i valori a cui penso oggi.

A maggio incontrai il presidente Erdogan a Londra, durante un evento di beneficienza sull’istruzione. C’eravamo incontrati per la prima volta nel 2010, dopo che lui e Angela Merkel avevano guardato insieme la partita tra Germania e Turchia a Berlino. Da allora le nostre strade si sono incrociate molte volte in giro per il mondo. La foto di me ed Erdogan causò un’ampia risposta sui media tedeschi, e nonostante alcune persone mi avessero accusato di mentire e di essere disonesto, l’avevamo scattata senza alcun obiettivo politico. Come ho detto, mia madre non ha mai lasciato che dimenticassi le mie origini, i miei valori e le tradizioni della mia famiglia. Per me fare una foto con il presidente Erdogan non riguardava la politica o le elezioni. Ero io che portavo rispetto all’istituzione più importante nel paese della mia famiglia. Il mio lavoro è fare il calciatore, non fare politica, e il nostro incontro non fu un atto di sostegno ad alcuna politica. Parlammo della stessa cosa di cui abbiamo parlato ogni volta che ci siamo incontrati – il calcio – e del fatto che anche lui fu un calciatore da giovane.

Nonostante i media tedeschi abbiano descritto le cose in maniera differente, la verità è che non incontrare il presidente sarebbe stato un atto irrispettoso verso i miei antenati, che so sarebbero orgogliosi di dove sono oggi. Per me non importava chi fosse il presidente, importava che lì ci fosse il presidente, e basta. Avere rispetto per i ruoli politici è una cosa che sono sicuro che sia la Regina che la prima ministra Theresa May condividano quando Erdogan fa loro visita a Londra. Sia che fosse stato il presidente tedesco o quello turco, le mie azioni non sarebbero state diverse.

So che questo potrebbe essere difficile da capire, visto che nella maggior parte delle culture il leader politico non può essere separato dalla persona. Ma in questo caso è diverso. Qualsiasi risultato fosse uscito dalle ultime elezioni, o da quelle prima delle ultime, mi sarei comunque fatto scattare la foto.

Sono un calciatore che ha giocato in tre dei campionati più difficili al mondo. Sono stato fortunato a ricevere grande sostegno dai miei compagni e dallo staff tecnico mentre giocavo in Bundesliga, nella Liga e nella Premier League. E in più, in tutta la mia carriera, ho imparato a trattare con i media.

Molte persone parlano delle mie prestazioni, molti applaudono e molti criticano. Se un giornale o un opinionista trova delle mancanze nel mio gioco, lo posso accettare: non sono un giocatore perfetto e questo spesso mi motiva a lavorare e ad allenarmi più duramente. Ma quello che non posso accettare sono i giornali tedeschi che danno la colpa alla mia doppia origine e a una semplice foto per un cattivo Mondiale di tutta la squadra.

Certi giornali tedeschi stanno usando le mie origini e la foto con il presidente Erdogan come propaganda di destra per rafforzare la loro causa politica. Per quale altro motivo dovrebbero usare le foto e i titoli su di me come spiegazione diretta per la nostra sconfitta in Russia? Non criticano le mie prestazioni, non criticano nemmeno le prestazioni della squadra, criticano solo la mia discendenza turca e la mia istruzione. Questo supera una linea personale che non dovrebbe mai essere oltrepassata, e i giornali stanno provando a rivoltare la nazione tedesca contro di me.

Quello che trovo deludente è il doppio standard che hanno i media. Lothar Matthaus (capitano onorario della nazionale tedesca) si incontrò con un altro leader mondiale pochi giorni prima e non ricevette alcuna critica dai media. Nonostante il ruolo che ricopre all’interno della DFB (la nazionale tedesca), non gli chiesero di spiegare pubblicamente le sue azioni e lui ha continuato a rappresentare i giocatori della Germania senza che gli fosse rivolto alcun rimprovero. Se i media pensavano che io avessi dovuto lasciare la nazionale ai Mondiali, allora a lui avrebbero dovuto togliere l’onorificenza di capitano onorario, o no? Sono le mie origini turche a rendermi un obiettivo più valido?

Ho sempre pensato che una “partnership” implicasse il fatto di sostenersi, sia durante i momenti buoni che nelle situazioni dure. Ho finanziato un progetto perché i bambini immigrati, bambini provenienti da famiglie povere e non, potessero giocare a calcio insieme e imparare le regole sociali della vita. Ma giorni prima dell’avvio del progetto sono stato abbandonato da quelli che erano i miei “partner”, che non volevano più lavorare insieme a me. Inoltre la scuola ha detto ai miei collaboratori che non mi volevano più lì, perché avevano paura di quello che avrebbero potuto fare i media con la mia foto con il presidente Erdogan, specialmente con la destra in ascesa a Gelsenkirchen [la città tedesca dove è nato Özil]. Questo mi ha davvero ferito. Nonostante fossi stato un loro studente quando ero giovane, mi sono sentito indesiderato e indegno del loro tempo.

Inoltre ho rinunciato a un altro partner. Visto che sono anche uno sponsor della DFB, mi avevano chiesto di prendere parte a video promozionali dei Mondiali. Ma dopo la mia foto con il presidente Erdogan mi hanno escluso dalla campagna e hanno cancellato tutte le attività promozionali che erano state fissate. Per loro non era più una buona cosa essere visti con me e hanno definito la situazione “crisi gestionale”. Tutto questo è ironico, perché un ministro tedesco ha detto che i prodotti promozionali sarebbero stati ritirati. Ma nonostante fossi stato criticato e mi fosse stato chiesto chiesto di giustificare le mie azioni dalla DFB, non mi fu mai chiesta alcuna spiegazione ufficiale e pubblica dallo sponsor della DFB. Perché? Faccio bene a pensare che questo sia peggio di una fotografia con il presidente del paese della mia famiglia? Cosa ha da dire la DFB su tutto questo?

E come ho già detto, i “partner” dovrebbero rimanere vicini in ogni situazione. Adidas, Beats e BigShoe sono stati estremamente leali ed è stato incredibile lavorarci insieme. Hanno superato le polemiche senza senso create dalla stampa tedesca e hanno continuato a sviluppare i nostri progetti in maniera così professionale che mi è davvero piaciuto farne parte. Durante i Mondiali, ho lavorato con BigShoe e ho aiutato 23 bambini a sottoporsi a operazioni di enorme importanza in Russia, cosa che avevo già fatto in precedenza in Brasile e in Africa. Questa per me è la cosa più importante che faccio come giocatore di calcio, ma i giornali non trovano spazio per parlare e sensibilizzare su temi di questo tipo. Per loro il fatto che venga fischiato e che faccia una foto con un presidente è più importante che aiutare i bambini a sottoporsi a operazioni chirurgiche in diverse parti del mondo. Anche loro hanno diversi modi di aumentare la consapevolezza e raccogliere fondi, ma scelgono di non farlo.

La cosa che mi ha frustrato di più negli ultimi due mesi è stato il trattamento che ho subìto dalla DFB e in particolare dal presidente della DFB, Reinhard Grindel. Dopo che uscì la mia foto con il presidente Erdogan, chiesi a Joachim Low [allenatore della nazionale di calcio tedesca] di accorciare le mie vacanze e andare a Berlino per elaborare e diffondere un comunicato congiunto per mettere fine a tutte le speculazioni e chiarire le cose. Nonostante cercassi di spiegare a Grindel i miei valori culturali, le mie origini e quindi le ragioni dietro alla foto, lui si mostrò molto più interessato a parlarmi delle sue visioni politiche e sminuire la mia opinione. Nonostante le sue azioni fossero state paternalistiche, fummo d’accordo che la cosa migliore era quella di concentrarsi sul calcio e sui Mondiali che stavano arrivando. Questo è il motivo per cui non partecipai alla giornata dei media della DFB durante le fasi preparatorie dei Mondiali. Sapevo che i giornalisti mi avrebbero attaccato, parlando di politica e non di calcio, anche se l’intera questione era stata considerata finita da Oliver Bierhoff [ex calciatore e oggi team manager della nazionale di calcio tedesca] in un’intervista televisiva fatta prima della partita contro l’Arabia Saudita a Leverkusen.

Durante quel periodo mi incontrai anche con il presidente della Germania, Frank-Walter Steinmeier. A differenza di Grindel, il presidente Steinmeier fu professionale e sinceramente interessato a quello che avevo da dire sulla mia famiglia, sui miei valori e sulle mie decisioni. Ricordo che l’incontro fu solo tra me, Ilkay [İlkay Gündoğan, calciatore tedesco di origine turca, centrocampista del Manchester City e della nazionale tedesca] e il presidente Steinmeier, con Grindel che si era agitato per non avere avuto la possibilità di promuovere i suoi interessi politici. Mi accordai con il presidente Steinmeier sul fatto di diffondere un comunicato congiunto sulla questione, in quello che doveva essere un altro tentativo di andare avanti e concentrarsi solo sul calcio. Ma Grindel era risentito che non fosse stato il suo team a diffondere il primo comunicato, e seccato che l’ufficio stampa di Steinmeier avesse preso la guida di tutta questa storia.

Dopo la fine dei Mondiali, Grindel è stato messo molto sotto pressione riguardo alle decisioni che aveva preso prima dell’inizio del torneo, e giustamente. Di recente, ha detto pubblicamente che avrei dovuto spiegare ancora una volta le mie azioni e mi ha dato la colpa dei risultati insoddisfacenti della nazionale in Russia, nonostante a me avesse detto a Berlino che era una storia già finita. Sto parlando ora non per Grindel, ma perché lo voglio. Non ho più intenzione di fare il capro espiatorio per la sua incompetenza e incapacità di fare bene il suo lavoro. So che mi voleva fuori dalla nazionale dopo quella foto, ed espresse pubblicamente la sua posizione su Twitter senza nemmeno ragionarci troppo o parlarne, ma Joachim Low e Oliver Bierhoff presero le mie parti e mi difesero. Agli occhi di Grindel e dei suoi sostenitori, sono tedesco quando vinciamo, ma quando perdiamo sono un immigrato. Questo perché, anche se pago le tasse in Germania, dono strutture alle scuole tedesche e vinco i Mondiali con la Germania nel 2014, non vengo ancora accettato nella società. Sono sempre stato considerato “differente”: nel 2010 ricevetti il “Bambi Award” come esempio di integrazione di successo nella società tedesca, nel 2014 ricevetti un “Silver Laurel Leaf” dalla Repubblica federale di Germania e nel 2015 fui “Ambasciatore tedesco del calcio”. Ma non sono tedesco? Ci sono criteri per essere pienamente tedesco che non soddisfo? Il mio amico Lukas Podolski e Miroslav Klose non vengono mai descritti come polacco-tedeschi, perché invece io vengo definito come turco-tedesco? È perché si parla di Turchia? Perché sono musulmano? Penso che il punto sia qui. Se si parla di turchi-tedeschi si stanno già distinguendo le persone che hanno una famiglia che proviene da più di un paese. Io sono nato e mi sono istruito in Germania, quindi perché le persone non accettano che sono tedesco?

Le idee di Grindel si possono trovare anche da altre parti. Bernd Holzhauer (un politico tedesco) mi definì “goat-f*ker [espressione molto offensiva nei confronti dei musulmani, che non ha un equivalente italiano] a causa della mia foto con il presidente Erdogan e per le mie origini turche. Werner Steer, amministratore delegato del teatro tedesco di Monaco, mi disse di levarmi di torno e andare in Anatolia, il posto in Turchia da cui partono molti immigrati. Come ho già detto prima, criticarmi e maltrattarmi a causa delle mie origini è una linea vergognosa da superare, e usare la discriminazione come strumento di propaganda politica è qualcosa che dovrebbe portare immediatamente alle dimissioni di quegli individui irrispettosi. Queste persone hanno usato la mia foto con il presidente Erdogan come un’opportunità per esprimere le loro tendenze razziste che in precedenza avevano nascosto, e questo è pericoloso per la società. Non c’è niente di meglio che il tifoso tedesco che dopo la partita contro la Svezia mi disse, “Ozil, verpiss, Dich Du scheiss Türkensau. Türkenschwein hau ab”, più o meno “Ozil, fottiti merda turca, togliti dalle palle maiale turco”. Non voglio nemmeno citare le e-mail di odio, le telefonate piene di minacce e i commenti sui social media che la mia famiglia e io abbiamo accettato. Tutto questo rappresenta una Germania del passato, una Germania non aperta a nuove culture, e una Germania di cui non sono orgoglioso. Sono fiducioso che molti tedeschi orgogliosi che vogliono una società aperta saranno d’accordo con me.

Riguardo a te, Reinhard Grindel, sono deluso ma non sorpreso dalle tue azioni. Nel 2004, quando eri un membro del Parlamento tedesco, dicesti che il “multiculturalismo è in realtà un mito e una eterna bugia”, votasti contro una legge per la doppia nazionalità e per punire la corruzione, e dicesti che la cultura islamica era diventata troppo radicata in molte città tedesche. Questo è imperdonabile e non si può dimenticare.

Il trattamento che ho ricevuto dalla DFB e da molti altri mi ha portato a decidere di non volere più indossare la maglia della nazionale tedesca. Mi sento non voluto e penso che quello che ho raggiunto fin dal mio esordio internazionale nel 2009 sia stato dimenticato. Persone con idee così razziste e discriminatorie non dovrebbero poter lavorare nella più grande federazione calcistica al mondo, che ha molti giocatori con famiglie con doppia origine. Atteggiamenti del genere semplicemente non riflettono i giocatori che in teoria queste persone dovrebbero rappresentare.

È con enorme dispiacere che annuncio quindi che a causa degli eventi recenti non giocherò più per la Germania a livello internazionale, almeno finché sentirò di subire atteggiamenti razzisti e irrispettosi. Indossavo la maglia tedesca con grande orgoglio ed entusiasmo, ma ora non più. È stata una decisione estremamente difficile da prendere, perché ho sempre dato tutto ai miei compagni di squadra, allo staff tecnico e alle brave persone della Germania. Ma visto che gli alti funzionari della DFB mi hanno trattano in questo modo, offendendo le mie origini turche e trasformandomi in maniera egoistica in uno strumento di propaganda politica, allora basta. Non è per questo che gioco a calcio, e non rimarrò seduto a fare niente. Il razzismo non dovrebbe mai, mai essere accettato.