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Scuola

Lo dicono tutti ma lo fanno in pochi: la cultura contro la camorra

Mai entrato in una scuola. Mai, neppure nell’asilo nido. La mamma la riteneva una perdita di tempo. Meglio tenerlo in casa, pensava. Appena adolescente, suo figlio Marco (nome di fantasia, ndr) l’ha mandato a fare il meccanico. Poi, un giorno, il capomastro gli chiede di mettere un bigliettino con i nomi dei clienti sulle auto in consegna. Non lo sa fare, fa brutta figura, in officina lo irridono. Torna a casa e litiga con la madre, lui insiste per andare in una scuola serale, anche a costo di lavorare meno, lei si oppone. Marco inizia a sfasciare casa, devono intervenire i carabinieri che lo portano in caserma e poi in una comunità per minori. «È stata la sua salvezza» racconta una professoressa dell’istituto «Catullo» di Pomigliano d’Arco, dove Marco ha poi sostenuto con successo l’esame di terza media. Ma per una storia a lieto fine ce ne sono altre dieci fallimentari.

Un gran lavoro il bel video documentario di Antonio Crispino. Eccolo qui:

Alternanza scuola-lavoro: così no

Tanto per tornare  bomba sui contenuti vale la pena leggere i quaderni di Possibile:

Sono appena rientrata da scuola, dove ho trascorso una piacevole mattinata – non la prima, né l’ultima – a riordinare le scartoffie della classe in cui ricopro l’imprescindibile ruolo di tutor d’aula per l’Alternanza Scuola Lavoro (ASL), l’”innovativo format didattico rispetto alle tradizionali attività scolastiche[i] con cui ci troviamo a fare i conti fin dall’entrata in vigore della L. 107/2015 (cosiddetta “Buona scuola”). Tale legge, infatti,

“nei commi dal 33 al 43 dell’articolo 1, sistematizza l’alternanza scuola lavoro dall’a.s. 2015-2016 nel secondo ciclo di istruzione, attraverso:

  1. la previsione di percorsi obbligatori di alternanza nel secondo biennio e nell’ultimo anno della scuola secondaria di secondo grado, con una differente durata complessiva rispetto agli ordinamenti: almeno 400 ore negli istituti tecnici e professionali e almeno 200 ore nei licei, da inserire nel Piano triennale dell’offerta formativa; […]”[ii]

Forme di ASL light erano già state introdotte in forma facoltativa da Letizia Moratti tra 2003 e 2005, nel contesto di quella che appariva una lotta alla dispersione scolastica secondo l’ottica della destra. Lungi dal raggiungere quello scopo, hanno finito invece per amplificare quella più generale tendenza che, da Moratti a Gelmini, fino agli attuali governi Renzi e Gentiloni, sembra aver di mira una sola cosa: ridurre l’orario scolastico e svuotare la scuola dei propri compiti istituzionali, che riguardano la formazione intellettuale, culturale e civile delle giovani generazioni. Un quindicennio di progressivo smantellamento della scuola pubblica e di svilimento del ruolo sociale dell’insegnante: da fannullone a grigio burocrate, sempre comunque connotato in senso negativo.

E, in effetti, mi rendo conto tristemente – mentre controllo le carte, fotocopio moduli, verifico orari e presenze – che quest’ultima rischia di essere una profezia che si autoavvera. Nel frattempo, non posso però impedirmi di pensare e di giungere alla conclusione che l’universalizzazione della ASL voluta con la L. 107/2015 non è né utile né necessaria, anzi piuttosto dannosa, in quanto sottrae alla scuola tempo – tanto tempo! – ed energie preziose per svolgere i compiti che le sono – sarebbero – propri, in quanto interviene a spezzare il ritmo del lavoro scolastico di costruzione dei saperi disciplinari, che ha un ruolo fondamentale nella formazione delle persone e rappresenta un momento unico nelle loro vite e un ponte necessario per l’accesso al mondo degli studi universitari – in cui, giova ricordarlo, l’Italia è fanalino di coda in Europa e non per responsabilità esclusiva della scuola.

Scuola che è vista ormai non più come valore in sé, come veicolo di cittadinanza e di uguaglianza, ma come funzionale ad altro, piegata alle esigenze di un mondo esterno presentato senza alternative (“There Is No Alternative” è il mantra di questi anni). Fine del luogo in cui si apprende il pensiero critico, si riflette sul dover essere, ma totale appiattimento su un esistente rappresentato dalle “filosofie” aziendali di McDonald’s o di Zara (“I Campioni dell’alternanza” – sic!)[iii]. Riaffermazione dello stereotipo, dell’approssimazione, del linguaggio sciatto che i giovani e le giovani incontrano quotidianamente e da cui la scuola avrebbe il compito di emanciparli/e. Adattabilità è una delle parole chiave dei documenti ministeriali, insieme ad autoimprenditorialità: la scuola deve insegnare ad adattarsi a lavori scarsamente qualificati, precari, non a maturare la coscienza di essere titolari di diritti.

La scuola deve, infatti, diventare la più efficace politica strutturale a favore della crescita e della formazione di nuove competenze, contro la disoccupazione e il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro[iv].

Come reagire ad affermazioni di questo tenore, di cui non si capisce se siano dettate più da ingenuità o da malafede?

In tutto questo, la scuola – “Campioni” a parte – è stata lasciata sola, di fronte a bacini di assorbimento di manodopera (rigorosamente gratuita: una vera esperienza di lavoro estivo retribuito non fa monte ore) insufficienti, di fronte a enti pubblici in sofferenza di organico e ad aziende, a volte piccole o piccolissime, che non si possono certo permettere di destinare un’unità di personale alla cura di studenti e studentesse in alternanza, e che un domani non saranno mai in grado di assumere chicchessia. Lo stesso nel caso di associazioni di volontariato: chi ha tempo di seguire adeguatamente come tutor aziendale una/un giovane di passaggio? Di botto, migliaia di studenti si sono riversati/e sul territorio per poter maturare quell’esorbitante monte ore, indispensabile d’ora in poi per l’ammissione all’esame di Stato. Di quello Stato che ha stanziato per l’epocale iniziativa 100 milioni di euro all’anno, cioè poche decine di euro a studente, insufficienti a costruire qualsiasi serio progetto formativo. Fateci caso: ogni volta che andate a uno sportello pubblico, troverete una/un giovane dell’aria smarrita che, parcheggiata/o su uno sgabello osserva le operazioni del personale. Sappiate che è una vittima innocente della ASL, e neppure delle più sfortunate.

Impilo carte su carte e la mia mente corre a quell’opuscolo multicolore – chissà perché per parlare di scuola si è pensato di dover regredire a uno stadio infantile? – che ci era stato presentato al grido di “burocrazia zero!”. Mentre io stamattina mi sono trovata a preparare dei fascicoli cartacei che, per ogni studente e per ogni attività, prevedono: Modulo di assunzione di responsabilità da parte delle famiglie, Patto formativo dello/a studente con l’ente ospitante, Calendario delle presenze con orari e firme, Diario di bordo, Scheda di valutazione dello studente da parte dell’ente, Scheda di valutazione dell’attività da parte dello/a studente. In media, una quindicina di fogli A4 per attività per studente. Forse la mia scuola non è abbastanza smart, ma la mia classe, di 21 studenti, quest’anno ha fatto mediamente tre attività, due lo scorso anno e almeno altre due dovrà farne l’anno prossimo, a cui si aggiungono altre due o tre attività scelte solo da alcuni/e: all’esame di Stato, avanzerà verso la Commissione preceduta da circa 2500 fogli A4 di sola ASL! Stamattina, mentre controllavo e assemblavo carte su carte, ho avuto una leggera vertigine al pensiero di quanti fascicoli analoghi si stanno preparando in tutte le scuole d’Italia e mi sono chiesta quanti alberi dovremmo piantare per azzerare l’impatto ambientale della “Buona scuola”.

Dunque, prendiamo atto che la “Buona scuola” non prevede la millantata “burocrazia zero”, ma una “burocrazia mille” (o forse azzera soltanto quella burocrazia che costituisce una garanzia dei diritti delle persone). Innumerevoli sono le operazioni burocratiche che quest’anno si sono sovrapposte anche ad attività che da anni svolgevamo in maniera semplice e diretta, con reciproca soddisfazione nostra, dei/delle nostri/e studenti e degli enti del territorio con cui lavoravamo, già in buona sintonia col mondo “esterno”, senza però rinunciare alle esigenze di quello “interno”.

(continua qui)

Colloquio per Ryanair: racconto semiserio di una giornata di ordinaria precarietà

(Sandro Gianni racconta la sua esperienza per Clap, qui)

A giudicare dagli annunci nei portali per la ricerca di lavoro, sembra che sul mercato esistano solo tre tipi di occupazioni disponibili: sistemista Java, dialogatore e operatore call-center. Se non conosci Java e hai zero voglia di vendere il tuo tempo per delle chiacchiere con degli sconosciuti, al telefono o dal vivo, la ricerca pare senza possibili sbocchi. Aggiungi che la percentuale di risposta ai curriculum inviati rasenta lo zero e che la laurea e/o i master di cui sei in possesso non sono particolarmente quotati nella borsa degli skills… il quadro si complica parecchio.

Perciò, quando qualcuno ha finalmente risposto alla mia “iscrizione a un’offerta di lavoro” ho provato una strana sensazione, di affetto quasi. Ho pensato di dover ricambiare, presentandomi al colloquio. Ho detto “qualcuno”, ma in realtà avrei dovuto dire “qualcosa”: un algoritmo, un dispositivo automatico di risposta alle mail, un bot del portale. Non posso saperlo, ma l’invito a comparire in un hotel nella zona di Tor Vergata è arrivato pochi millesimi di secondo dopo l’invio della mia iscrizione. Ciò esclude la mediazione umana e, dunque, una seppur minima selezione del curriculum, che avrebbe potuto equivalere a qualche decimale in più nella stima probabilistica di un’assunzione .

Il lavoro non era proprio quello dei miei sogni, ma provavo a vederci delle sfumature positive: la possibilità di viaggiare, avere un contratto decente, ricevere uno stipendio non troppo basso. Ovviamente, mi sbagliavo.

Nell’atrio dell’hotel di lusso, nella periferia sud-est di Roma, una quarantina di ragazzi e ragazze tirati a lucido, con la barba fatta, il vestito e la cravatta siedono in silenzio. Tra loro, io. Alcuni si muovono sicuri nei completi eleganti, camminano come se nulla fosse, bevono il caffé senza bisogno di sistemarsi di continuo la giacca, muovono le mani sullo smartphone senza domandarsi perché la camicia faccia capolino solo da una delle due maniche. Altri sono impacciati, si toccano insistentemente la cravatta temendo che il nodo si sciolga, cercano delle tasche in cui infilare le mani senza trovarle, provano a controllare la continua fuoriuscita della camicia dalla giacca senza alcun successo. Evidentemente, non sono abituati a conciarsi così. Tra loro, sempre io. C’è anche un ragazzo che deve aver letto male le istruzioni per l’uso: si è presentato in jeans e camicia a quadrettoni, rossi e blu. È imbarazzato, ma resta. Sembra simpatico.

In sala nessuno fiata. Quasi che taller e vestiti abbiano trasmesso per metonimìa un certo dovere di contegno, di formalità. «Dicono che l’abito non fa il monaco, ma non è vero» – argomenta il Totò ladro vestito da carabiniere, nei Due marescialli – «Io a furia di indossare indegnamente questa divisa, marescia’… mi sento un po’ carabiniere».

Ci chiamano e andiamo tutti insieme nel seminterrato dell’albergo, in una sala conferenze. Eliminata la prima decina di candidati con un test di inglese da seconda media, la selezione entra nel vivo. O meglio, nel video. Proiettano una presentazione del lavoro, divisa per sezioni: informazioni tecniche sulle diverse mansioni; procedure di inizio; questioni retributive e contrattuali; possibilità di carriera; criteri di premialità; caratteristiche dell’azienda che offre il lavoro e dell’agenzia di recruitment che assume (due cose diverse: una è Ryan; l’altra una fusione tra Crewlink e Workforce International… sì, si chiama proprio così!). In questa seconda fase, si rivolgono a noi come fossimo già assunti. L’uomo sulla cinquantina, inglese o irlandese, responsabile del reclutamento, allude più volte a quanto staremmo bene con indosso le nuove divise da hostess e steward.

Dalle immagini del video e dagli interventi del selezionatore si capisce che ci sono soprattutto tre caratteristiche importanti per fare questo lavoro: essere disponibili alla relocation immediata; parlare inglese; essere flessibili-e-sorridenti (insieme). Le immagini mostrano giovani di tutti i colori, che sembrano felici e raccontano la loro esperienza con Ryan di fronte a un bastone per i selfie. In particolare, insistono su quanto sia utile e divertente il corso di formazione per diventare personale di bordo. Si nuota, si spengono incendi, si salvano bambolotti, si incontrano persone. «You grow up like a man, not just cabin crew».

Ma è più avanti che le orecchie dei candidati si aguzzano: quando si inizia a entrare nel dettaglio del salario e dei tempi di lavoro. La retribuzione è organizzata secondo una serie di premi e possibili punizioni, un incrocio tra un videogioco e una raccolta punti del supermercato. «Your performance is continually monitored and assessed». Monitorare e valutare. Punire solo come ultima ratio. Soprattutto premiare: per far rispettare le regole, per aumentare la produttività, per migliorare le prestazioni. I like dei clienti danno diritto a delle ricompense: monetarie, ma soprattutto relazionali. Ad esempio, la penna nel taschino è indice di un certo numero di apprezzamenti. Costituisce dunque, tra i colleghi e nell’azienda, l’indicatore di uno status particolare.

Si viene pagati un po’ in base all’orario e un po’ a cottimo. Nel senso: un fisso non esiste; sono retribuite solo le ore di volo; si percepisce il 10% su ogni prodotto venduto (…adesso lo capite il perchè di tanto rumore?). Il contratto è registrato in Irlanda o UK. Si hanno delle agevolazioni sui viaggi in aereo.

Il salario mensile dovrebbe oscillare tra 900 e 1.400 euro lordi, in base al luogo di ricollocamento. «We try to keep the wages homogeneous among our workers». Bella l’uguaglianza, quando non schiaccia tutti verso il basso… penso io. Viene poi fatto cenno a un periodo annuale in cui non si lavora e non si ricevono soldi: da uno a tre mesi. Ma il selezionatore ci assicura che questa pausa non supera (quasi) mai i 30 giorni.

Fino a qui, niente di eccezionale. Ma il rapporto premi-punizioni è più complesso e configura per intero il sistema di retribuzione. Ovviamente, se i diritti diventano premi e i doveri debiti, tutto cambia. Non si parla di tredicesima e/o quattordcesima, ma di bonus, che si ricevono solo il primo anno. 300 euro il primo mese di lavoro, altrettanti il secondo, il doppio il sesto. Chi va via prima della conclusione dei primi 12 mesi, però, deve restituire questi bonus. Inoltre, la divisa (quella bella di cui sopra) costituisce un costo esternalizzato al lavoratore: il primo anno sono 30 euro al mese scalati direttamente dalla busta paga; successivamente pare si ricevano dei soldi, ma non si capisce bene per cosa, se per lavarla o non perderla. Per ultimo, il famoso corso di formazione per diventare hostess o steward si rivela qualcosa di più di un parco giochi in cui fare festini con altri esponenti multikulti della generazione Erasmus. Principalmente, si rivela un’enorme spesa. Se all’inizio era stato comunicato che, in via eccezionale, le registration fees del corso erano dimezzate a 250 euro, è alla fine che viene fuori il vero prezzo da pagare. Ci sono due modalità differenti: 2.649 euro se paghi prima dell’inizio e tutto in un colpo; 3.249 se decidi di farti scalare il costo dallo stipendio del primo anno (299 euro dal secondo al decimo mese, 250 gli ultimi due).

Si aprono le domande. Dopo alcune irrilevanti su sciocchezze burocratiche, alzo la mano. «Ci avete parlato di un massimo di ore di volo a settimana, ma mai delle ore totali di lavoro. Quante sono?», chiedo. «Voi siete pagati in base alle block hours, cioé le ore calcolate dalla chiusura delle porte prima del decollo, all’apertura dopo l’atterraggio. I tempi di preparazione dell’aereo, prima e dopo il volo, possono variare». Varieranno pure, ma di sicuro non vengono pagati, nonostante siano tempi di lavoro.

Alza la mano quello dietro di me. «Scusi la domanda, ma ho bisogno di fare dei conti. Diciamo che uno stipendio per una destinazione non troppo cara è di 1.000 euro. Ve ne devo restituire 330 al mese tra corso e divisa. Ne rimangono 670. Dovrò prendere una stanza in affitto, diciamo 300 euro. Ne rimangono 370. In più avrò bisogno di pagare un abbonamento ai mezzi per raggiungere l’aeroporto e coprire almeno le spese della casa anche nella pausa annuale in cui non si lavora. Diciamo che, se va bene, rimangono 300 euro. E non ho scalato le tasse, perché non so come si calcolano in Irlando o UK. Secondo lei, con questi soldi si può vivere?». Sbem.

Il selezionatore della società di recruitment, fino a quel momento cordiale e spiritoso, accusa il colpo. Deglutisce. Tossisce. Arrosisce. Si butta sulla fascia, prova un diversivo. «With this work you don’t get rich, but it’s in accordance with your capacity and affords your lifestyle». Alla fine, anche qui le nostre capacità valgono poco più di un pacchetto di sigarette al giorno. Chissà, invece, come ha calcolato il nostro stile di vita!

Finito il video, io e gli altri candidati usciamo e andiamo a mangiare insieme. Da come siamo vestiti, sembriamo un gruppo di giovani businessmen in carriera, lanciati alla conquista del mercato e pronti a scalare colossi finanziari. Invece siamo lì per un colloquio che, se va bene, ci farà guadagnare meno della persona che ci serve la pizza.

Comunque, i calcoli veloci del ragazzo che ha fatto la domanda dopo di me hanno sciolto l’iniziale freddezza tra i candidati. In molti hanno perso interesse per questo lavoro. Anche per questo, si scherza e si chiacchiera. Alcuni hanno appena finito la scuola superiore, altri l’università. Altri ancora hanno già diversi anni di precarietà e i capelli brizzolati. Tra loro…

Rimango fino all’intervista, per sport. Mi capita la collaboratrice del selezionatore. Legge il mio curriculum. Niente di eccezionale, però insomma… neanche da buttare. Tutti i titoli di studio con il massimo dei voti, laurea e due master, cinque lingue, numerose esperienze di lavoro materiale e immateriale, in Italia e all’estero. «Are you sure you want to do this work?», mi chiede. Bleffo: «Eeeeeh. Why not?». «Do you know people working for us?». «No». «So, what do you know about this work?». «What you told me today», rispondo. Lei arriccia il labbro inferiore e muove la testa dal basso verso l’alto e poi in senso inverso, fissandomi con gli occhi corrucciati. Ho l’impressione che stia pensando sardonicamente “devi essere proprio una volpe, tu!”.

Saluto, me ne vado. Sulla vespa faccio i conti: due caffé al bar dell’albergo = 3 euro; un pezzo di pizza e una bottiglia d’acqua = 4 e 50; giri vari alla ricerca di vestito, cravatta e scarpe e poi fino al colloquio = almeno 5 euro; stirare la camicia = 2 euro; stampare 7 fogli di curriculum dal cristiano-copto su via di Torpignattara, che sembra sapere quando non puoi dirgli di no = 2,10 euro. Barba e capelli costo zero, taglio autoprodotto in casa. Alla fine, non mi è andata nemmeno tanto male. Qualcuno è arrivato in treno da lontano, spendendo molto di più. Per l’ennesima offerta di lavoro precario e sottopagato.

Almeno una cosa l’ho capita: nella compagnia aerea, quel low che precede il cost non è riferito soltanto ai prezzi dei biglietti, ma anche al costo del lavoro.

Lo sponsor della scuola? L’inceneritore di fronte.

[di Laura Fano su Comune-info.netCapita spesso, in Italia, di sentir lodare il modello scolastico anglosassone, meno segnato di quello italiano da preoccupazioni, magari un po’ “ideologiche”, sulle partnership con il mondo delle imprese private. Un buon esempio di questo tipo di relazione pragmatica e non viziata dal timore di chissà quali ingerenze ci arriva dal racconto della nostra corrispondente dall’Irlanda. La scuola pubblica di sua figlia non riesce a tirare avanti con i soli 150 euro l’anno per studente concessi dal governo, così le speranze del personale e dei genitori sono riposte in una somma ingente che potrebbe arrivare dalla multinazionale Covanta, che gestisce l’inceneritore situato proprio di fronte alla scuola e che sarà operativo da settembre. Covanta è nota per aver dovuto chiudere uno dei suoi impianti in Canada, visto che generava una quantità di diossina nell’aria 13 volte superiore al limite consentito dalle leggi canadesi. Quando si dice che pecunia olet

La possibilità per i privati di contribuire al finanziamento di determinate scuole è un punto della “Buona Scuola” che ha giustamente sollevato critiche e perplessità. Se un’impresa contribuisce economicamente al funzionamento di una scuola, quest’ultima perderà necessariamente un po’ della sua indipendenza e si vedrà condizionata nelle sue scelte da quelle dell’ente donatore. Mentre questo sistema comincia a farsi strada in Italia, qui dove mi trovo, in Irlanda, è una prassi ormai consolidata e accettata. Con implicazioni molto serie. 

Ad una recente riunione a scuola di mia figlia – scuola pubblica, tengo a precisare – ho scoperto che i soli fondi statali non riescono a coprirne i costi. Il Ministero dell’Istruzione infatti provvede solamente con 150 euro annuali a studente, lasciando di fatto ai genitori l’onere di provvedere alla restante somma necessaria al funzionamento della scuola. Questo si traduce in organizzazione di attività di autofinanziamento e contribuzione ad un fondo cassa – tutte cose che si fanno anche nelle scuole italiane, seppur discutibili. Significa però anche partecipare a bandi per fondi concessi da imprese private, molto spesso multinazionali. Nel caso specifico della nostra scuola, le speranze del personale scolastico e dei genitori sono riposte in una somma ingente che potrebbe essere concessa dalla multinazionale nordamericana Covanta, impresa che gestisce l’inceneritore situato proprio di fronte alla scuola, operativo a partire da settembre prossimo. 

Sul suo sito, l’impresa ci tiene a precisare che non si tratta di un inceneritore, bensì di una Energy-from-Waste Facility, e sempre sul suo sito pubblicizza fondi a beneficio delle comunità “ospitanti”, ovviamente per ripulirsi l’immagine e forse la coscienza. Infatti, quando l’inceneritore entrerà in funzione non vi sarà nessun controllo regolare e indipendente delle emissioni; sarà l’impresa stessa a pubblicare sul suo sito dati mensili che, come affermano organizzazioni ambientaliste contrarie al progetto, sarebbero troppo poco frequenti per fornire un quadro preciso e trasparente della qualità dell’aria. Inoltre, Covanta è famosa per aver dovuto chiudere uno dei suoi impianti in Canada poiché la quantità di diossina nell’aria dovuta alle sue emissioni aveva superato di 13 volte il limite consentito dalle leggi canadesi.

Tornando alla nostra scuola, dopo aver ottenuto il finanziamento, cosa succederà? Sarà libera di protestare in caso di forte inquinamento dell’aria? Potrà ergersi a difesa della salute dei bambini dopo aver accettato una somma così ingente dalla stessa impresa che mette la loro salute in pericolo? Credo di no, e credo anche che questa sia la ragione principale dell’esistenza del bando. Un modo per l’impresa di zittire la protesta prima ancora che la sua attività abbia inizio; un modo per comprare l’acquiescenza di preside, insegnanti e genitori.

Di fronte alle disposizioni della “Buona Scuola” mi chiedo dunque perché i vari governi italiani ormai da anni si ostinino a voler replicare sistemi scolastici fallimentari da tanti, troppi punti di vista. Trovo questa rincorsa ad imitare il sistema anglosassone molto pericolosa. Basti pensare agli eventi recenti, Brexit nel Regno Unito e la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, per porsi serie domande sulla validità, non solo dei sistemi economici di quei paesi, ma anche di quelli educativi e valoriali. 

(Pubblicato il 18 febbraio 2017)

«Gli studenti non conoscono la lingua italiana»: la lettera di 600 docenti al Governo

“Troppi ragazzi” che escono dalle scuole e “scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente”. Il quadro desolante dello stato della nostra lingua tra i giovani è dato da una lettera firmata già da oltre 600 docenti universitari che ora chiedono al governo e al Parlamento “interventi urgenti” per rimediare alle carenze in italiano dei loro studenti. L’iniziativa è promossa dal gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità.

“Da tempo – si legge nella lettera – i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcune facoltà hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana“. Secondo i docenti, il sistema scolastico non reagisce in modo appropriato, “anche perché il tema della correttezza ortografica e grammaticale è stato a lungo svalutato sul piano didattico”. “Ci sono alcune importanti iniziative rivolte all’aggiornamento degli insegnanti, ma – si fa notare – non si vede una volontà politica adeguata alla gravità del problema. Abbiamo invece bisogno di una scuola davvero esigente nel controllo degli apprendimenti, oltre che più efficace nella didattica, altrimenti né l’impegno degli insegnanti, né l’acquisizione di nuove metodologie saranno sufficienti”.

Nella lettera si indica quindi una serie di dettagliate linee d’intervento per arrivare, “al termine del primo ciclo” di studi, ad un “sufficiente possesso degli strumenti linguistici di base da parte della grande maggioranza degli studenti”. La lettera porta la firma, tra gli altri, di accademici della Crusca, di linguisti, docenti di letteratura italiana e di diritto, storici, ma anche filosofi, sociologi, economisti.

(fonte)

Eschilo e i mercanti. L’obiettivo è limitare gli studi classici solo ai ricchi.

Una riflessione di Tiziana Drago:

«Tutte le volte che negli studi di antichità si fanno sentire esigenze di rinnovamento, tanto più è necessario, se non si vuole costruire sulla sabbia, mantenere l’esercizio del “mestiere”». D’altra parte, «senza il possesso della deprecata »tecnica» l’interesse storico rimane velleitario». Così un filologo materialista e «leopardiano» come Timpanaro prendeva posizione, negli anni ’70, contro l’eclettica disponibilità con cui la filologia inglobava i nuovi strumenti strutturalistici e antropologici, spesso in nome di malcelate «civetterie interdisciplinari».

Oggi, nel contesto duro e inasprito del declino italiano, in cui il diritto alla formazione è diventato un costo non più sostenibile, l’ipocrisia dilagante ammanta di ragionevolezza l’attacco portato al cuore delle discipline classiche sotto forma di auspicata amputazione della lingua greca e latina. L’argomentazione si sposta di volta in volta dall’ambito statistico (il calo di iscrizioni al liceo classico) a quello economico (i saperi improduttivi, la spesa senza ritorno immediato) a quello sociologico in versione falsamente egualitaria (gli studi classici come sacca di privilegio: è l’argomento di detrattori di comprovato egualitarismo quali Vespa, Ichino, Berlinguer).

L’amorevole premura di preservare i più giovani dalla innegabile difficoltà di interpretare un testo antico è un regalo avvelenato che cela molti degli inquietanti propositi di trasformazione della scuola e dell’università che sono nell’aria e la volontà di sanzionare la colpevole distanza dal mercato dei saperi teorici. Tanto più autoritario questo intendimento, in un curioso connubio di liberismo selvaggio e controllo dei destini individuali e collettivi, quando nega la possibilità di studiare le lingue antiche nelle loro sfumature all’interno dell’unico curriculum scolastico pubblico in cui questo è ancora consentito. Quando questo progetto sarà compiuto, chi può avrà a disposizione il college privato in cui studiare a dovere le lingue classiche e chi annaspa capirà senza equivoci che il liceo classico è roba da ricchi e dovrà accontentarsi di qualche briciola di cultura dell’antico.

Racconta Franz Mehring che Karl Marx «ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale, restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che volevano togliere agli operai l’interesse per la cultura antica».

A proposito degli scemi che si permettono di voler votare

suffragette

I giorni dell’isteria: l’ultima folata di sciocchezze è questa tiritera di un “eccesso di democrazia” che andrebbe controllato come se non bastassero tutti questi ultimi anni. Così mentre in molti ci propongono di dare il diritto di voto solo a quelli che votano come dicono loro (Monti, Gori e altri geni dell’ultima ora) in pochi pensano allo stato di salute delle due armi per sconfiggere l’ignoranza: la scuola e l’informazione. E a proposito di informazione forse vale la pena leggere Mantellini nel suo blog:

«In ogni caso l’aspetto più interessante è quello dell’informazione; sfuggito ormai da tempo ad ogni controllo economico del mercato, il ruolo dei media come elemento portante della corretta informazione (ridete ridete) è perfino più compromesso di quello della politica che parla parla ma che al posto di costruire biblioteche asfalta l’astaltabile, sogna il ponte sullo stretto o si applica alle prossime Olimpiadi di Roma. Detto diversamente: dove esiste un’informazione corretta i media giocano un ruolo fondamentale nella riduzione dell’analfabetismo funzionale. Dove invece gli stessi soggetti scendono direttamente in campo al di là di ogni deontologia, giornali radio e TV, pubblici o privati che siano, si trasformano in soggetti attivi nel mantenimento dell’incompetenza degli elettori. Questo accade dentro una eterogenesi dei fini fra il modello economico dei media (che hanno un padrone al quale rispondere) ed il loro ruolo presunto ma del tutto scomparso di sostegno alle democrazie in quanto garanti dei lettori.

Vogliamo elettori in grado di superare un ipotetico esame di cittadinanza che gli consenta di votare? L’unica strada possibile è quella di investire denaro per una vera politica culturale (Rai compresa) e forse – contro ogni tendenza – per immaginare nuove ipotesi di finanziamento pubblico all’editoria privata. Soldi tardivi, come certe vendemmie, denari dei cittadini in premio a chi abbia avuto il coraggio di informare con coscienza i propri lettori, fuori dall’immensa marea di fango che è il business dei media oggi, specie in Italia. Un’arena in peggioramento, che ormai non risparmia più quasi nessuno. Tutta gente che per una ragione o per l’altra ha un qualche interesse a mantenere i cittadini -perfino nei tempi della società digitale – ignoranti esattamente come prima. Ce lo ha detto Tullio de Mauro, ok, era vero, l’analfabetismo funzionale è un problema enorme. Ora magari proviamo a fare qualcosa. Che la patente per poter votare è certamente una cazzata, ma anche gli elettori che non sanno un accidente e che danno retta al Salvini di turno sono una faccenda mica da ridere.»

Sì, lo confesso: spaccio libri

libri

La lettera della dirigente coinvolta nel caso della scuola che “vieterebbe” l’ingresso agli incontri a chi non ha acquistato i libri:

«Roma, 17 marzo 2016

“Penso che una scuola pubblica che promuova l’acquisto e la lettura di libri, nell’ambito di progetti inseriti nella propria offerta formativa, faccia un’opera meritoria. Questo, forse superfluo sottolinearlo, senza che la scuola stessa ci guadagni nulla”.

La Dirigente scolastica dell’I.I.S.S. “Leon Battista Alberti” di Roma, dott.ssa Carolina Guardiani, prende così posizione in merito alla recente polemica che ha interessato il progetto “Incontro con l’Autore” in seguito all’articolo pubblicato sul Corriere della Sera a firma di Claudia Voltattorni.

“La proposta di acquisto del libro è stata rivolta a tutti i ragazzi e sono fiera di progetti di questo tipo che si fanno in tutte le scuole – spiega la Dirigente scolastica dell’Alberti – Si propone, senza alcuna forzatura, l’acquisto di un libro; chi è interessato lo compra, a un prezzo più conveniente rispetto al prezzo di copertina (ovviamente la scuola fa solo da tramite), lo legge, ne discute in classe e poi ha la possibilità di parlarne con l’autore stesso.
Spiegare a un 15 enne che, con poco più di 10 euro, oltre all’ingresso alla festa o all’aperitivo al bar alla moda può acquistare qualcosa che rimane, che gli apre la mente e il cuore, che può aiutarlo a crescere, a capire il mondo nel quale è capitato, credo sia un’ottima cosa”.

“Non regalo libri ai miei studenti – prosegue la dott.ssa Guardiani – primo perché non ho fondi, secondo perché credo sia opportuno far comprendere a un ragazzo che l’oggetto libro ha un valore, che deve essere riconosciuto e pagato perché frutto di un lavoro intellettuale che deve essere riconosciuto e pagato.

In questo senso, lo confesso e mi autodenuncio: io, dirigente di scuola pubblica, “spaccio” libri.

L’Istituto “Leon Battista Alberti” – nell’ambito del suo piano dell’offerta formativa – sostiene e promuove la diffusione e la fruizione della cultura (libri, spettacoli teatrali, cinematografici, ecc.) presso i propri studenti come mezzo per evolvere, arricchire la propria esperienza e ampliare i propri confini esistenziali.

“Qual è la notizia? Quale lo scandalo? – aggiunge la dott.ssa Guardiani – Che ci sono ragazzi che non possono permettersi di comprare il libro? Allora che dire dei viaggi di istruzione, per i quali la richiesta non è di 10 euro o poco più ma di alcune centinaia di euro che, effettivamente, possono fare la differenza nel bilancio di molte famiglie! Eppure non ho mai visto genitori indignati con le scuole (tutte) che organizzano i viaggi. Ecco, il mio pensiero è rivolto ai genitori: la porta della mia presidenza, come sanno, è sempre aperta e rinnovo l’invito a parlare direttamente e chiedere eventuali spiegazioni, in un’ottica di scambio e fattiva collaborazione”.»

Ti stimo ma per favore esci dal retro

165458284-87914d3d-d88a-4625-a5f5-311f3b592a5fFa discutere la reazione di alcuni genitori milanesi spaventati dalla vicenda umana di Gianluca Maria Calì, l’imprenditore siciliano che ha alzato la voce contro la mafia rifiutando il meccanismo perverso del pizzo e finito sotto protezione come spesso succede in questa Italia dove costa tantissimo essere giusti.

Conosco Gianluca e la sua storia e conosco Milano troppo bene per non dispiacermi di una situazione che nuoce a tutti ma che ha colpe molto più in alto: da una parte Gianluca subisce l’onta di essere considerato ammirevole ma soprattutto pericoloso come se rimanesse sotto traccia un giudizio di dissennatezza per quello che ha fatto piuttosto che di gratitudine: dall’altra parte ci sono i genitori che vivono l’ansia di una paura dovuta all’analfabetismo di un città che dimostra ancora una volta di avere tanto, troppo, da imparare.

Del resto lo stesso Calì dichiara di essersi trasferito con la famiglia a Milano per evitare “comportamenti di questo tipo” mentre c’è gente che da Milano è fuggita per lo stesso motivo.

Perché spero che siamo tutti d’accordo che l’analfabetismo sociale (e affettivo) intorno ai testimoni di giustizia (e in generale ai “giusti” che abbiano preso posizioni forti) sia un dovere della politica. Della politica. Della politica. Della politica. Tutta.

 

Gli spari, le scuole e la ciclicità del male (americano)

STELLEPISTOLE.CARLOTAncora una volta. Ancora Obama. Le inquadrature, le solite, quelle per i messaggi di cordoglio di Stato e le lacrime di sottofondo. Forse negli USA avranno un manuale di regia per le stragi da fuoco e forse un capitolo intero sulle stragi da fuoco e al college. Ci sono drammi come quello accaduto in Oregon che fiaccano per la loro imperturbabile ciclicità: come se fossero insiti nell’umanità di questo secolo, come se fossero il purgatorio che ci tocca e che possiamo solo raccontare o peggio come se fossero il simbolo dell’ineluttabilità del destino. Forse, invece, sono più banalmente le stigmate della pavidità politica di un Paese che non riesce a svincolarsi dalle sue lobby.

Era il 2002 quando il regista Michael Moore proiettò per la prima volta il proprio film documentario ‘Bowling a Columbine” in cui raccontava gli USA e quel suo smodato e dissennato amore per le armi. Fu celebre la scena in cui il documentarista mostra il fucile ottenuto “in omaggio” con l’apertura di un conto corrente bancario: armi come cadeaux promozionali. Con quel film Moore divenne Moore, il celebre regista vinse l’Oscar nell’anno successivo e ne seguì un dibattito accesissimo.

E poi? E poi siamo qui, oggi, tredici anni dopo a commentare la stessa notizia, con gli stessi toni, puntando sulle stesse colpe e snocciolando gli stessi numeri: quelli dei morti e quelli di una nazione che non impara dai propri errori. Ma se una critica rimane contemporanea per decenni di chi è la colpa? Il Presidente degli USA, Obama, ha dichiarato “siamo l’unico Paese moderno al mondo dove queste sparatorie sono diventate una routine” e ha accusato il Congresso e i governatori (quindi la politica, in fondo) di non averci messo troppo impegno. Colpa della politica, quindi. Certo. Ma più che di una legge che probabilmente andava già scritta dopo il massacro della Columbine High School in cui morirono 12 studenti (era il 20 aprile del 1999, nel secolo scorso) le vittime che oggi piangono gli Stati Uniti sono le stesse che stanno lì dove la politica non riesce ad essere più forte dei grumi economici.

(continua qui)